Parigi. Dodo esce all’alba da una discoteca dopo una notte d’eccessi. Nel piano sequenza iniziale seguiamo il tragitto del suo scooter in una città semideserta, e il successivo e tragico incidente che lo conduce in ospedale in condizioni disperate.
Gli amici di sempre accorrono immediatamente, e sfilano silenziosi e impotenti al suo capezzale. Dopo essere stati rassicurati dai medici, decidono di partire comunque per la vacanza che trascorrono ogni anno a Cap Ferret, dove Max, membro benestante della ristretta cerchia, possiede una villa a pochi passi dal mare. L’alibi che il gruppo costruisce per la “fuga” è basato sull’impossibilità di intervenire ed aiutare Dodo e sulla consapevolezza del lento ed isolato decorso cui sarà sottoposto l’amico.
Giunti sulla costa atlantica, uomini, donne e bambini ripercorrono fedelmente il canovaccio su cui si sviluppano le loro dinamiche estive, fra jogging, bagni, gite in barca e pranzi di pesce dall’amico Jean-Louis, quasi a voler sfuggire il pensiero di Dodo, quasi a circoscriverlo in una parentesi mnemonica dai tratti incerti e trasognati.
All’interno del gruppo di quarantenni si nascondono i personaggi più disparati. Max è un imprenditore di successo, legato eccessivamente ai beni che possiede, generoso ma in modo ostentato, pignolo e nevrotico, scosso e ulteriormente destabilizzato dalla fastidiosa rivelazione dell’amico Vincent; Veronique, sua moglie, lo segue come si seguirebbe un bambino, preoccupata dalle ossessioni e dalla congenita incapacità di rilassamento del marito; Vincent è un fisioterapista in crisi d’identità, mentre sua moglie Isabelle vive silenziosamente l’insoddisfazione sessuale cui il marito
l’ha costretta.
Marie è una ninfomane incapace di sviluppare una relazione sentimentale stabile; Eric è un eterno ragazzino in cerca di avventure, immaturo e incapace di corrispondere degnamente l’amore di Lèa; Antoine è un sognatore legato all’amore di una vita con Juliette, la donna perduta, a cui si lega ogni suo discorso, ogni pensiero; Jean-Louis, proprietario del ristorante in cui il gruppo ama riunirsi, è un uomo di mare selvaggio e affascinante, e sembra rappresentare un punto di equilibrio collettivo, l’approdo sicuro cui tutti tendono placidamente.
Nonostante la cornice idilliaca che li avvolge e il vino in cui immergono il loro soggiorno, saranno tensioni e piccole omissioni ad emergere in modo prepotente sulla scena: le troppe situazioni irrisolte moltiplicheranno le incomprensioni, fino a incrinare notevolmente i rapporti interni di questa famiglia sui generis. Saranno poi la realtà e una verità definitiva a rimettere ogni cosa al proprio posto, spostando le priorità lungo una giusta scala di valori.
Il cinema francese continua a battere colpi interessanti e a produrre opere di grande valore in beata successione. Stavolta è il turno di Guillaume Canet, attore e regista di grandi prospettive; il giovane artista d’oltralpe realizza un’opera corale avvalendosi di una storia classica e ben strutturata e di un cast eccezionale: Jean Dujardin interpreta la maschera stravolta e sofferente di Dodo; Francois Cluzet l’ego accentratore e le fissazioni di Max; la splendida Marion Cotillard la fragilità e il fascino di Marie; Benoit Magimel l’ambiguità di Vincent; Laurent Lafitte il disincanto immacolato di Antoine; Joel Dupuch la solida e rassicurante franchezza di Jean-Loius; Gilles Lellouche il volto ammaliante e sornione di Eric.
Chiudono il cerchio perfetto Valèrie Bonneton, Pascale Arbillot, Anne Marivin e Louise Monot, impegnate in ruoli secondari ma necessari alla struttura complessiva del film.
Centocinquanta minuti di pellicola scorrono via con estrema leggerezza, e testimoniano il fatto che, per realizzare una buona opera cinematografica, non necessariamente serve una storia originale: a volte è sufficiente che il metodo sia originale, e questa generazione di attori francesi incarna realmente una novità a livello planetario, per la grazia, la sensibilità, l’umanità che sanno infondere ai personaggi cui danno vita; grazie alle loro performances e alla direzione di Canet, il film risulta intimo e credibile, così vicino ai rapporti interpersonali che si sviluppano realmente fra gli individui da sembrare vero.



a me è sembrato una grande palla, lungo all’inverosimile e inutile. Credibile? manco per niente.
Désolée.
A me invece ha ricordato alcune dinamiche interne al mio gruppo di amici. Perciò lo ritengo credibile. Ma, d’altra parte, la credibilità è un fattore estremamente relativo.