RUGGINE – Daniele Gaglianone

Nella prima scena di “Ruggine” il pulviscolo illuminato a giorno penetra e dilata uno spazio buio e angusto, volteggiando candidamente attorno a due bambini che tentano un ingenuo, reciproco approccio. Il campo visivo si allarga e ci trasporta negli anni 70 della periferia torinese.

Un gruppo di ragazzini passa le giornate nei dintorni dei palazzoni in cui vivono. E’ un’infanzia selvaggia ma felice, perché i piccoli hanno grande libertà e la forza di una società in miniatura. Le loro giornate e le riprese si alternano fra i campi sconfinati e un ammasso di lamiere che costituisce la loro base segreta.  Il loro mondo, soprattutto qui, si sviluppa autonomamente da quello degli adulti, e i ragazzini, capitanati da Carmine, sviluppano le loro dinamiche, i modi di stare insieme e difendere la roccaforte, quel tipo di luogo in cui ogni bambino nasconde una parte di sé, in modo sacro, ritualizzato. E’ un luogo simbolico e affascinante, e una fotografia in chiaro scuro ci mostra un vero e proprio castello, un piccolo regno abbarbicato su se stesso, un luogo dove gli adulti non entrano mai, o quasi.

Questo idillio viene guastato dalla comparsa del nuovo medico condotto, il Dr. Boldrini (un ottimo Filippo Timi), un professionista che si rivela in breve il lupo cattivo, il mostro, il maniaco che prima seduce e poi uccide due bimbe innocenti. Il gruppo di bambini, in forza di una sensibilità pura e incontaminata, capta le reali sembianze del dottore, ma la scoperta rimane all’interno della sparuta banda, per via di un certo tipo di comunicazione infantile che fatica ad emergere e teme di trasferirsi nella dimensione adulta,tanto incredula e distante da apparire irraggiungibile.

Gaglianone propone un’altalena fra passato e presente, per quanto poi quel passato è così pregnante ed insito nel presente da smarrire la propria connotazione temporale originaria. Gli avvenimenti di ieri e di oggi si mescolano nelle vicende di Sandro, Carmine e Cinzia, tre di quei bambini –ormai quarantenni-  che affrontano con fatica e dolore la vita nel ricordo amaro e pulsante di un passato che non se ne va, perché ha reciso alla radice l’innocenza dei fanciulli di allora, immacolati nell’isola che non c’è dell’età infantile.

La ruggine del metallo di due vecchi silos funge da nido e riparo per i ragazzini, la stessa ruggine che si rivelerà fonte d’insidie e paura nella scena madre del film, e che poi si depositerà in forma maligna nei ricordi e nelle coscienze di adulti spezzati.

Il film di Gaglianone è ben strutturato: l’ambientazione e la contrapposizione fra il mondo adulto e quello infantile ricorda in parte le atmosfere di “Io non ho paura” di Salvatores;  la narrazione è cupa e oscillante, l’attenzione per le manie e i particolari del mostro minuziosa, e la frammentazione con cui il regista sviluppa il passato, i blackout che frappone alle immagini rendono appieno l’idea dei ricordi d’infanzia, che spesso si riducono a flashback nitidi ma estemporanei, e non posseggono mai linearità e compiutezza; forse si eccede nella caratterizzazione del personaggio del Lupo Cattivo, che a tratti perde un pizzico di credibilità, ma senza intaccare la grande prova di Timi e la qualità dell’opera.

La porta è stata spalancata, e non c’è più modo di richiuderla” – scrive Stefano Massaron nel libro omonimo da cui è tratto il film.

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