Il fascino sottile dell’intolleranza

In “The Help” si palesa nitidamente quella che è stata ed è una forma di sterminio.
L’intolleranza, la paura della diversità, l’ignoranza generano infatti uno sterminio etico, sociale, della dignità umana di chi subisce atti di razzismo.
Non si contano i danni prodotti dalla somma perversa di paura e ignoranza, somma che diviene idiozia, odio, cecità rivolta verso chi o cosa non sia consono a regole che non sono scritte ma imperano, che non vengono sostenute ma s’insinuano e si fissano al retaggio culturale di un uomo, di un gruppo, di un popolo, senza lasciare tracce visibili.

Nel film, c’è una scena che è forse più emblematica di altre: la madre di Eugenia (Skeeter) –in seguito a un piccolo gesto di protesta- caccia dalla propria abitazione la domestica nera che ha prestato servizio nella sua casa per trent’anni, e lo fa improvvisamente, soltanto per mostrare ai membri di un esclusivo club la propria conformità ai comportamenti, alle movenze e persino alla gestualità di un razzismo talmente radicato nella società dell’epoca (gli anni 60 americani- sempre un dove, e non un quando) da trovare riscontro e conferma nel pubblico consenso. La signora in seguito si pentirà della decisione affrettata, ma sarà troppo tardi per rimediare (è sempre troppo tardi).

Oggigiorno, al contrario, l’opinione pubblica tende a condannare le intolleranze, perché viviamo il tempo dell’apparire, un tempo in cui si finge un buonismo che è solo in superficie, in cui l’odio assume dimensioni private, da non mostrare ai più, in cui l’ipocrisia dilaga sotto le forme più disparate.

Le barriere interrazziali, così fisiche, reali, prepotenti che il film mostra non sono poi così dissimili da quelle presenti tuttora nella forma mentis della società odierna che tende a nascondere i propri vizi e pregiudizi, a camuffare il timore reverenziale per la diversità che dovrebbe invece rappresentare una forma di ricchezza evolutiva per la specie umana.

Mi sono poi ricordato di una notizia che lessi alla fine dell’estate del 2010, in cui veniva dato risalto al fatto seguente: in una scuola media di Nettleton, ridente cittadina dello Stato del Mississipi, balzava agli onori della cronaca una circolare che, all’interno dell’istituto in questione, utilizzava come criterio di elezione a determinate cariche, oltre alla media voto, l’etnia.
Ebbene si, nel 2010, negli Stati Uniti d’America, paese di sogni e libertà, gli studenti afro americani (“i neri” – riportava testualmente il documento) erano ancora discriminati “formalmente” e banditi dalle candidature di rilievo, mentre venivano loro “riservati” incarichi inferiori.
Il motivo per cui, in seguito, il fatto assunse rilievo pubblico, dimora nella protesta esercitata collettivamente dai genitori di alunni di ogni razza e colore. La regola venne così abolita, non contemplando però espressamente la sua applicabilità in senso estensivo alle razze ispaniche. La notizia mi scosse, per l’anacronismo e l’assurdità dei contenuti che la caratterizzavano.

Il coraggio della verità e l’abbattimento culturale dell’ipocrisia e dell’intolleranza dovrebbero costituire un testamento da consegnare alle nuove generazioni, nelle quali è riposta la speranza di un miglioramento rispetto a coloro che le hanno precedute.

Il cinema potrebbe avere un ruolo determinante in tal senso, considerate le enormi potenzialità di uno strumento di comunicazione tanto adatto al tempo che viviamo, un tempo da cui il cinema trae spunto, ma che spesso si trova ad imitare a sua volta il cinema, in un processo di mutuo riconoscimento che veleggia alla deriva fra realtà e immaginazione.

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