Il film di Gavin O’Connor narra la storia di una famiglia sgretolata dall’interno, di una famiglia che non è più tale dopo una serie di eventi traumatici che hanno azionato una forza centrifuga incontrollabile sui suoi componenti, fino ad allontanarli nello spazio e nel tempo della reciproca indifferenza.
Paddy Conlon (Nick Nolte), reduce del Vietnam ed ex pugile alcolizzato (un profilo diffuso ma che odora di clichè), semina violenza in famiglia, sulla moglie e sui due figli, finchè lei – malata e terrorizzata- non decide di scappare con il figlio minore Tommy; Brendan -il maggiore- rimane per amore di Tess, la donna che poi sposerà.
Questo momento rappresenta il punto di rottura fra i tre uomini, la base della disgregazione, il dramma che influenza ogni singolo istante del film, a causa del peso imponderabile delle incomprensioni e dei silenzi che si sono accumulati.
Al presente, Paddy si è liberato dall’alcol e tenta di vivere una vecchiaia dignitosa, nell’intima speranza di recuperare la famiglia perduta. E l’occasione s’offre, perchè Tommy si ripresenta dopo quattordici anni: il “pretesto” è farsi allenare dal padre in funzione di un torneo di arti marziali miste. Paddy Conlon è stato infatti un grande allenatore -unico lato positivo di un uomo che notò e sviluppò nei figli, in età precoce, un promettente talento nella lotta greco romana.
In tale fase il regista approfondisce la figura di Tommy e il suo sofferto vissuto: ha subito la violenza del padre, nei cui confronti ha coltivato un odio profondo; si è sentito tradito dal fratello nel momento in cui ha scelto di restare con Tess; ha visto la madre aggravarsi e morire lentamente senza il supporto di nessuno; ha affrontato gli orrori della guerra in Iraq, dove perde la vita l’amico fraterno, e dove lui stesso -dopo aver disertato- compie un gesto eroico senza balzare agli onori della cronaca.
Tommy -tornato in America- utilizza così il cognome materno per camuffare la sua identità, per non riportare a galla quel passato contraddittorio nei Marines; ora è un uomo dominato dalla rabbia, dal rancore mai sopito, che rappresenta il suo lato oscuro, la violenza ingenerata dal dolore, la furia incontrollabile di un ragazzo cresciuto nell’abbandono e nella miseria.
Parallelamente, scopriamo Brendan, insegnante di fisica, sposato, due figli e una bella casa: Brendan è in un certo senso il lato buono, è stato forse salvato dalla luce di Tess, riuscendo a condurre una vita diversa da quella cui era destinato. Ma la mala sorte incombe, e l’uomo rischia di perdere la casa per cui lavora ogni giorno: tenta la via dei combattimenti clandestini per racimolare denaro in fretta, ma ottiene soltanto di essere sospeso per un semestre dal lavoro. A quel punto, Brendan decide di ricominciare ad allenarsi, e poi il caso gli regalerà l’opportunità di partecipare allo stesso torneo per cui si sta preparando il fratello.
Mentre la prima parte introduce ottimamente le personalità dei tre protagonisti, la seconda è dedicata al torneo Sparta, una competizione di arti marziali miste fra i migliori lottatori in circolazione, che prevede un consistente premio in denaro.
Tommy affronta l’arena per aiutare economicamente la vedova del compagno defunto in guerra; Brandon si mette in discussione per salvare la propria casa dal pignoramento e la famiglia dal tracollo finanziario.
La camera si trasferisce quindi sul ring, sulla tensione muscolare ed emotiva dei fratelli Conlon, sullo sguardo attento e sofferto di un padre che non riesce a recuperare terreno sui suoi ragazzi; la lotta, lo scontro fisico e sportivo sono ancora una volta metafore della vita: in tal caso il combattimento si traduce in linguaggio, nella miglior forma di comunicazione che i tre conoscono, nel contesto in cui riescono a connettersi l’un l’altro grazie all’istinto che a quell’ambiente lega la propria memoria.
Dentro la gabbia i due fratelli si liberano del passato, esplodendo colpi violentissimi o resistendo strenuamente agli avversari, ritrovando se stessi e il rapporto sepolto ma imprescindibile della fratellanza.
“Warrior” appassiona e profonde lezioni di umanità, mostrando le debolezze nascoste dietro i muscoli e il sudore, le commoventi, contrastanti emozioni di un travagliato rapporto fra uomini che vorrebbero amarsi ma non sanno come fare.
O’Connor si concede alcuni inevitabili luoghi comuni, ma realizza un buon film, tendendo bene il suo arco di frecce visive, realizzando una delle migliori opere del genere. Nick Nolte ha finalmente un ruolo all’altezza del suo talento espressivo, dopo anni di anonimato. Ma è il trasformista Tom Hardy a reggere la scena più degli altri: l’attore inglese catalizza l’attenzione, impressiona per le oscillazioni del suo personaggio, per la lotta che conduce dentro e fuori di sè, per l’inquietudine che comunica e la tenerezza che i suoi gesti concederanno in un finale toccante, in cui trionfa la comunicazione non verbale, in cui il cinema vince e le parole non servono.