Riporto qui di seguito un passaggio di “Tenera è la notte” di Francis Scott Fitzgerald:
“Dick aveva imparato da suo padre i bei modi un po’ imbarazzati del giovane del sud emigrato nel nord dopo la guerra civile. Spesso li usava e ogni volta li disprezzava, perchè non erano una protesta contro la bruttezza dell’egoismo, ma contro la bruttezza delle apparenze di esso“.
Prendo spunto da questo breve passo sull’ipocrisia umana per tentare di analizzare con leggerezza alcune fasi dei rapporti interpersonali.
Ogni persona, inconsciamente e irrimediabilmente, costruisce una struttura che va oltre la propria intima essenza, plasma la forma della propria esteriorità, che poi si trasforma e si consolida nel personaggio che l’individuo incarna; d’altro canto, tale personaggio, che l’individuo osserva dall’interno, assume diverse forme nel momento in cui viene proiettato all’esterno e percepito attraverso le corrispondenti lenti prospettiche di terzi. Ciò che siamo fuori è filtrato dalla necessità di fornire un habitus comunicativo ai nostri pensieri, di donare una foggia estetica, formale, visibile a ciò che siamo dentro.
C’è chi filtra se stesso e costruisce più impalcature di altri nel processo di auto-esteriorizzazione, ma ogni persona è inevitabilmente costretta a fare qualcosa per approcciarsi agli altri, e in tal senso è molto interessante osservare le miriadi di maschere -più o meno consapevoli- che l’uomo allestisce per ovviare ai propri limiti comunicativi.
Poniamo l’eventualità dell’incontro fra due persone.
Spesso, modi garbati e movenze accomodanti possono mascherare l’entità della reale considerazione che l’individuo ha della persona cui il gesto è rivolto; e così, altrettanto spesso, dietro un atteggiamento “rozzo”, spigoloso, e scevro da formalismi può nascondersi più verità di quanta ve ne sia dietro le pompose affettazioni di chi regala abilmente un saluto festoso o un sorriso raggiante; oltre un’educazione di facciata impera sovente un’oleosa e asettica indifferenza, in grado di tramutare in gesto rapido e conciliante il desiderio di risolvere in fretta un incontro sgradito.
Anche se non sempre è così.
A volte i modi di alcuni sono a tal punto corroborati da divenire convenzionali. E la convenzione nasconde una costruzione tanto assidua e studiata da denotare i sintomi di una patologia metodologica.
A volte invece ci si costringe a non vedere, per paura che la propria maschera non sia all’altezza o ben calibrata per un particolare e inatteso frangente. E così mi piace concludere quest’allegra divagazione con alcuni versi de “La linea della vita” di Francesco De Gregori:
“Saranno trent’anni che passo da qua,
e adesso fai finta di non riconoscermi.
Ma guarda la gente che salti mortali che fa
E quanti nani sui trampoli, e tu dici:
“Perdonami… ma non credevo che fossi tu, perdonami…”
Va bene perdonami, però perdonami cosa? “