Non mi aspettavo nulla di nuovo da “Mine vaganti”, film che effettivamente ho tardato a vedere, rimandando il momento fino a pochi giorni fa, perché non ero mosso da una particolare “urgenza”. L’assenza di tale urgenza è probabilmente legata al tema trattato in quasi tutti i film di Ferzan Ozpetek, l’ottimo regista di origini turche. Il tema (o il punto di vista) è l’omosessualità, analizzata sotto tutti i suoi aspetti, in particolar modo nel complesso rapporto che la stessa instaura in seno ai contesti familiari e sociali nostrani. Ciò che a volte mi toglie il gusto di scoprire un’opera di Ozpetek non è assolutamente l’ omosessualità in sé, e quindi il tema in quanto tale, che non mi infastidisce affatto, che non può infastidirmi, dato che esiste da quando esiste l’uomo e rappresenta una delle sfaccettature espressive umane: negarla o ignorarla rappresenterebbe una forma assoluta di ipocrisia, sarebbe come negare l’uomo stesso e il ventaglio di attitudini che la sua variegata natura comporta.
Al contrario, ciò che mi frena è la ripetitività di un tema, a prescindere da quale esso sia. Ho l’abitudine di andare a vedere i film di un certo regista per il suo stile, non invece se tratta sempre e sistematicamente la stessa tematica, per quanto poi Ozpetek sia un regista innovativo e originale, in grado di sviluppare il suo leitmotiv in modi e direzioni sempre diversi, di dare comunque un’impronta al proprio lavoro, di leggere e interpretare in modo peculiare la quotidianità e la sua trasposizione cinematografica: sono portato a pensare che l’omosessualità, nei film di Ozpetek, non rappresenti più un argomento, ma una cifra stilistica.
Certo, le obiezioni alle mie considerazioni potrebbero essere infinite, ad iniziare dal fatto che qualunque regista faccia film in cui figurino soltanto manifestazioni di eterosessualità sia, allo stesso modo e in un certo senso, limitato nella sua produzione. Ozpetek, infatti, racconta la vita per come lui la vede, per come lui la vive, e quella che io leggo come una ripetizione è probabilmente un modo di essere fedele a se stesso e alla propria visione delle cose. Ne ho infine dedotto che questa mia lettura dipenda forse e per lo più dalla scarsa abitudine, da un’interpretazione alquanto limitata dell’insieme, da un occhio poco allenato ad osservare uno stile di vita diverso dal mio.
Ciò premesso, pochi giorni fa ho visto, in compagnia della mia amata Ostessa, il film“Mine vaganti”, con l’atteggiamento di chi non si aspetta nulla di particolare, e ho invece scoperto un film interessante, con ottimi interpreti e caratterizzazioni credibili, con una fotografia calda e avvolgente, che restituisce allo spettatore un Salento pittoresco e fiammante. Mi hanno colpito la semplicità del linguaggio utilizzato da Ozpetek, semplicità per cui occorre un grande lavoro di sintesi, e la patina poetica che accompagna il film e allo stesso aderisce in modo tenue e indelebile: è un film che cresce progressivamente e in modo costante fino a raggiungere la giusta intensità, a fornire uno spaccato illuminante delle sgangherate e puritane famiglie italiche; un film in grado di emozionare, di dilatare e comprimere il tempo e la storia, di fondere passato e presente nella processione funebre della nonna e nel ballo finale, in cui personaggi di epoche e gusti diversi si concedono alcuni passi di danza, la danza dell’umanità tutta e delle sue infinite estrinsecazioni.
Quel ballo, così denso e poetico, mi ha tra l’altro ricordato il finale di “Big fish”, il lavoro migliore di Tim Burton, un film che non posso non amare e che mi provoca ogni volta emozioni incontrollabili: nel finale –dicevo- va in scena il funerale di Edward Bloom (il protagonista dell’opera), in cui magicamente appaiono tutti i personaggi di cui lo strambo avventuriero aveva parlato al figlio, personaggi incredibili che poi si rivelano reali: l’atmosfera surreale che si respira nel ballo finale di “Mine vaganti” ha un gusto e una sapore maledettamente simili a quelli del delicato ed emozionante commiato di Bloom.
Ovviamente il film di Ozpetek mi sarebbe piaciuto anche se avessi avuto un approccio diverso, ma l’iniziale diffidenza e la carenza di particolari aspettative potrebbero aver contribuito a sorprendermi, a scoprire un film delizioso, da scartare con la grazia e la lentezza tipiche dei poeti.


