Nonno Dino e il bambino che è in me

Alla mia famiglia

Alcune scene di “Quasi amici” –un film che ho avuto modo di vedere e recensire nel recente passato- mi hanno rammentato nonno Dino, il padre di mia madre.

Mio nonno rimase parzialmente paralizzato in seguito a una trombosi patita sul posto di lavoro, e lo è stato per anni, finchè ha avuto modo e tempo d’essere in questo mondo.

Io non potrò mai sapere che tipo d’uomo fosse prima della malattia, nonostante ne abbia intuito la vitalità nei racconti di famiglia. Io l’ho conosciuto così, e in un certo senso è un peccato, perché mio nonno emanava un’umanità delicata e sensibile, un carattere forte e sereno e un’integrità morale che non appartiene a questo tempo; purtroppo però non era semplice comunicare, perché lui parlava con difficoltà ed io facevo fatica a comprendere il senso delle sue parole..

Nonno Dino fumava di nascosto ed era fortissimo a carte: mi ha insegnato a giocare non concedendomi mai una vittoria facile, come è raro che i nonni facciano coi nipoti.

Durante le festività, nascondeva sempre dei soldi sotto i piatti dei suoi quattro nipoti, per poi godersi la scena della sorpresa.

Ma è ora di contestualizzare i miei ricordi e di appropinquarci dolcemente al dunque. Per diversi anni ho trascorso un periodo estivo nel magico incanto della Val di Non, in Trentino con la famiglia materna. Otto persone e tre generazioni a confronto nella natura incontaminata delle Dolomiti.

I miei cugini erano più posati e cittadini di me e mia sorella: noi due eravamo un tantino più turbolenti e sfrontati, non avevamo vergogna (quasi) di nulla e possedevamo una marcata tendenza alle arti circensi e al cabaret.

Io avevo delle manie di protagonismo che mi spingevano a creare un palco immaginario ogniqualvolta ne intuissi la possibilità. I momenti dei pasti in hotel rappresentavano occasioni ghiotte e irrinunciabili per le mia brama di teatralità. E così, quando la sala era gremita, il clown prendeva il sopravvento, ed iniziavo a gridare, cantare, imitare senza alcun ritegno, facendo ridere tutti fino alle lacrime, compreso mio nonno.

Ormai il mio era diventato un show, tanto che i miei familiari mi chiedevano questo o quel personaggio; i miei cugini –che avevano un certo ascendente su di me-  mi istigavano notevolmente affinché producessi le mie performance. Tutte le persone presenti in sala, compresi i camerieri, sembravano divertirsi davvero, ed io perfezionavo di giorno in giorno la messa in scena, tanto che persino un prete mi fece i complimenti per un’omelia papale particolarmente convincente.

Ho sempre imitato tutti, senza distinzione di classe o età, e ho sempre avuto l’anima di un pagliaccio, perché trovo irresistibile vedere qualcuno che rida per una causa riconducibile in qualche modo a me. E’ questa –forse- la mia maggior debolezza. E’ questo il motivo per cui ho sempre apprezzato le persone che sappiano ironizzare liberamente su se stesse e che comprendano i limiti intossicanti di chi si prende troppo sul serio. L’uomo è intrinsecamente buffo e ridicolo, e si dovrebbe godere in misura maggiore di tale innata comicità.

In questa sede poi –per una questione di buon gusto-  tralascerei i dettagli sulle cerbottane che io e mia sorella sparavamo addosso ai presunti spasimanti di nostra nonna.

Ma eccoci alla questione principale della storia, la questione che mi è tornata alla memoria e senza cui non avrebbe avuto senso raccontare il resto.

Nonno Dino, per ovvi motivi, camminava con grande difficoltà. E in montagna, per poter fare in modo –la sera- di passeggiare tutti insieme, dotammo nonno di una sedia a rotelle che spingevamo a turno.

Era un oggetto che non riuscivo ad accettare completamente, che guardavo con diffidenza e consideravo un intralcio. E forse è proprio per esorcizzare questa mia distorta visione del benefico ausilio che inventai un nuovo “numero” con mia sorella. Di ritorno da una passeggiata serale che amavamo fare (si andava a vedere la “casa nella prateria”, una baita immersa nel verde in cui avevamo trascorso –in passato- un mese “into the wild”), iniziammo la lunga discesa che ci riportava in albergo.

L’idea era la seguente: Claudia sarebbe salita sulle gambe di nonno, in carrozzina, ed io, confidando nella mia forza e in gambe piuttosto robuste, avrei spinto la carrozzina giù in discesa, cercando chissà come di controllare l’inerzia gravitazionale.

Quel gesto di estemporanea e fanciullesca follia ci spinse a gran velocità lungo il declivio. Ricordo vagamente che nonna, mamma e zia rimasero atterrite. Ma noi –semplicemente- ce ne fregammo e partimmo in volata.

Claudia urlava, io spingevo e poi frenavo con la spensieratezza di un ragazzino, e nonno Dino rideva, oh se rideva, e diceva “OH, mamma mia!”, e ancora rideva da pazzi, come non l’avevo mai sentito ridere.

Dopo quel rischioso “collaudo”, la discesa libera in carrozzina entrò nei nostri usi e costumi: in fondo era un grido di vita e scaturiva da una reazione violenta ma sana alla disabilità, che riuscimmo a interpretare in chiave ironica e trasformammo in divertimento con la leggerezza tipica dell’innocenza.

Ricordo con gioia quei giorni felici, e sono fiero come potrebbe esserlo un eroe di aver scatenato quelle risa vere e quella fresca spontaneità nei miei familiari e in un uomo buono e paziente come nonno Dino.

Adesso ascolto musica jazz mentre fuori piove, ma sono ancora e sempre quel bambino, e sarò per sempre lungo quella dolce pendenza della memoria, a spingere mio nonno e mia sorella, coi miei cugini, mia madre, mia zia e mia nonna a correrci dietro, senza alcun affanno, senza il peso del tempo, senza il pensiero del domani.

1 risposta a “Nonno Dino e il bambino che è in me”

  1. Penso che nonno si sia veramente divertito tantissimo in quei momenti! Fortunatamente la disabilità fisica di nonno non ha mai inficiato la sua “abilità morale” e anche nei suoi silenzi o nel modo in cui ci guardava, ci ha aiutato a capire che la profonda fierezza umana che emanava era ed è un tesoro raro. Grazie Simo per aver evocato questi ricordi 🙂

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