Parnassus mi ha condotto senza indugio (un indugio tanto arduo da non avere pari) a strani grovigli concettuali: arduo pare divincolarsi dall’ardua ponderabilità di un legame che esiste, ma è sì sottile che, se posto su un fianco, non se ne evince lo spessore. Occorre quindi saperlo guardare dritto negli occhi, senza tentennamenti di sorta (lo so, è un processo arduo).
“Il moribondo sapeva che queste non erano idee reali; che si può dire esista realmente solo una metà della nozione di morte: questo lato del problema – lo strappo, la separazione, la banchina della vita che si allontana dolcemente in uno sventolio di fazzoletti: ah! era già dall’altra parte, se riusciva a vedere la spiaggia che si ritraeva; no, non proprio – se ancora riusciva a pensare”. (Così, chi è venuto a salutare un amico che parte può anche trattenersi troppo a lungo sul ponte senza per questo diventare un viaggiatore).”
Vladimir Nabokov
L’amico che parte, naturalmente, e secondo Nabukov, è la metà che muore, scema, si allontana impercettibilmente ma in modo inesorabile da se stessa. La riversione ritorna. Un uomo osserva sè partire, il sè viaggiatore ultimo, definitivo; quello stesso uomo, l’uomo viaggiatore, osserva se stesso -sulla banchina- osservarsi – mentre parte e osserva stesso – di nuovo – su quella banchina. E così via.
Allo stesso modo due amici, due parti di uno stesso gioco, si osservano: l’uno in macchina, l’altro dietro una finestra; mentre si osservano, altri due amici, l’uno in macchina, l’altro dietro una finestra, comunicano telefonicamente. Lo sdoppiamento, allucinante, fornisce quasi la sensazione che i personaggi siano gli stessi. In realtà, in tal caso, gli uni spiano, controllano e scrutano subdolamente gli altri, in modo reversibile.
Forse –sempre forse– al di là dello specchio le possibilità e i punti di vista si moltiplicano in modo esponenziale, incontenibile, finchè un minimo comune denominatore non conduce plasticamente all’esatta sintesi di sè.