“Il tempo e l’umanità sono attraversati da un solo respiro, da una sola anima che connette il destino di ciascuno di noi, tra passato, presente, futuro e post-futuro. La vita è un turbinio incessante di trasformazioni che fa diventare un assassino un eroe, e tutto è ispirato da una spinta al cambiamento, alla rivoluzione, alla crescita. Tutto è connesso.”
Dopo aver visto “Cloud Atlas” -film da cui tale frase è tratta- ho iniziato a pensare agli innumerevoli motivi di interesse che ne scaturiscono. Come la vita di ogni creatura è connessa all’altra, come ogni singola particella dell’universo è legata intrinsecamente all’altra, molti concetti che ispirano la mia visione della vita è profondamente connessa all’idea di fondo di “Cloud atlas”. Tenterò dunque di fornire un quadro dettagliato di questa “intuizione”, con l’ausilio di concetti -di varia natura e provenienza- riallacciabili al senso e alla logica del film.
Anzitutto, in fase preliminare, riporto un breve brano tratto dal libro “In acque profonde” di David Lynch:
« Le idee sono simili a pesci, se vuoi prendere un pesce piccolo puoi restare nell’acqua bassa.
Se vuoi prendere il pesce grosso devi scendere in acque profonde ».
Queste parole forniscono la chiave di lettura di “Cloud atlas” e un buon metodo d’approccio a tutto quanto si celi sotto la superficie “fisica” ed ingannevole delle cose. E’ necessario immergersi in profondità se si desidera comprendere il meccanismo che regola la coscienza e quindi la vita stessa.
Se non si compie un lavoro simile su se stessi, è del tutto inutile “immergersi” nelle acque di “Cloud atlas”.
Tutto nasce dal desiderio.
Nel 1839 un avvocato scrive un diario del suo viaggio nel Pacifico. Un compositore ritrova parte di quel diario nel 1936: costui scrive un’opera musicale in Scozia e si racconta attraverso le lettere spedite al suo amante. Nel 1976 una giornalista californiana impegnata a indagare su una centrale nucleare ritrova casualmente quelle lettere. Nel 2012 un editore riceve dalla giornalista il manoscritto sulla vicenda della centrale; segregato contro la sua volontà in una sorta d’ospizio, tenterà di evaderne: le sue gesta diverranno un film, che la clone/schiava Somni rivedrà più di un secolo dopo. Quel film e il suo slogan (“Io non sarò mai soggetto a comportamenti criminosi”) si tradurranno nel manifesto rivoluzionario di Somni, che in un futuro ancor più “remoto” sarà venerata come divinità dalle popolazioni sopravvissute all’apocalisse. Zachry, uno dei superstiti, scoprirà poi che la vita sulla terra è agli sgoccioli e che Somni era una persona come le altre.
Questa è la narrazione emersa di “Cloud atlas”, che nasconde però molto di più di questi semplici legami, fra le cui maglie affiora comunque un concetto importante: nel momento in cui si prende coscienza di un’idea, di una possibilità, la piccola fiammella che la rappresenta può propagarsi nello spazio e nel tempo e crescere indeterminatamente fino ad esplodere, fino a divenire un fuoco inarrestabile. E’ sufficiente che qualcuno concepisca un’idea “illuminata” e che qualche d’un altro nell’arco del tempo ne raccolga il testimone per far si che la stessa acquisisca una forza indipendente da chi l’ha plasmata. Il linguaggio è uno strumento fondamentale in tal senso.
“Le nostre vite e le nostre scelte, come le traiettorie dei quanti, sono comprese momento per momento; a ogni punto d’intersezione , ogni incontro suggerisce una nuova potenziale direzione.” –spiega lo scienziato Isaac Sachs– “Ieri la mia vita andava in una direzione, oggi va in un’altra.”
Se debbo individuare la matrice dei legami contenuti in “Cloud atlas”, mi affido alla correlazione quantistica più che alla metempsicosi. Mi affido alle parole di John Hagelin, a cui David Lynch si è ispirato nel suo libro (a riprova del fatto che tutto è connesso in modo ossessivamente circolare).
“Il campo unificato è la sorgente unificata dell’universo diversificato, la sorgente di tutte le leggi di natura, la fonte ultima di tutto l’ordine che troviamo ovunque nella vastità dell’universo. L’intelligenza che troviamo alla base dell’esperienza umana è la stessa che troviamo alle fondamenta di ogni cosa in natura. La teoria delle superstringhe localizza un campo singolo e unificato alla base di tutti i fenomeni e le forme dell’universo, dove tutte le forze e particelle della natura sono unite.
Esse sono onde di un singolo oceano di esistenza.“
Quando –nell’800 di “Cloud atlas”- l’avvocato Ewing ha il sentore che qualcosa non vada nella forma piramidale della società dell’epoca, che la schiavitù possieda in sé un errore sistemico, l’intuizione di ribellarsi pervade l’uomo come una sorta di deja vu genetico, esistenziale. Quando Ewing conquista tale convinzione, egli intercetta il campo unificato dell’universo (dove alloggia una forma unica di coscienza) e il suo pensiero rivoluzionario produrrà effetti nei secoli a venire.
In quest’ottica -utilizzando l’espressione di un noto fisico britannico di nome James Jeans- “l’universo comincia a sembrare più simile ad un grande pensiero che non a una grande macchina.”
C’è un legame profondo, imprescindibile, incessante fra tutto ciò che è stato, che è, che sarà.
Somni 451 parla così: “La nostra vita non è nostra. Da grembo a tomba siamo legati ad altri, passati e presenti, e da ogni crimine e ogni gentilezza generiamo il nostro futuro”.
E ancora: “Essere vuol dire essere percepiti, pertanto conoscere se stessi è possibile solo attraverso gli occhi degli altri. La natura della nostra vita immortale è nelle conseguenze delle nostre parole e azioni, che continuano a suddividersi nell’arco di tutto il tempo.”
Il film di Tom Tykwer e dei fratelli Wachowski non poteva quindi non ricondurmi al celebre psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung. Ecco qui di seguito un estratto della sua visione dell’essere e della vita, estratto che dimora e giganteggia già da un po’ nei locali immaginari d’osteria.
“La nostra vita è la stessa che è sempre stata in eterno; è tutto fuor che effimera, nel senso nostro, perchè i medesimi processi fisiologici e psicologici propri dell’uomo da migliaia di anni durano tuttora e danno al sentimento interiore la profonda intuizione della “eterna” continuità di quel che vive. Ma il nostro Sè, quale compendio del nostro sistema vivente, non soltanto contiene il deposito e la somma di tutta la vita vissuta, ma è anche il punto di partenza, il terreno materno gravido di tutta la vita futura, il presentimento della quale è intimamente altrettanto chiaro quanto l’aspetto storico. Da questo fondamento psicologico proviene legittimamente l’idea dell’immortalità. “
Una frase del film mi ha poi riportato con la memoria alle riflessioni jungiane sui concetti di maschera e persona : “La reputazione è tutto nella nostra società”- dice il vecchio Vyvyvan Ayris, nel momento in cui ricatta Robert Frobisher, affondando una subdola lama nella piaga più vulnerabile del giovane.
Questa frase simboleggia l’ipocrisia di una società vile che si sofferma sulla convenienza collettiva dell’apparire e colpisce indiscriminatamente quanti abbiano un modo diverso e meno allineato di vivere.
“Se analizziamo la Persona –scrive Jung, allora, adesso e sempre– stacchiamo la maschera e scopriamo che ciò che pareva individuale è, in fondo, collettivo, in altre parole che la Persona era soltanto la maschera della psiche collettiva. La persona non è nulla di “reale”. E’ un compromesso fra l’individuo e la società su “ciò che appare” ….. L’individuo prende un nome, acquista un titolo, occupa un impiego, ed è questa o quella cosa. In un certo senso ciò è reale, ma in rapporto all’individualità del soggetto in questione è come una realtà secondaria, un mero compromesso, a cui talvolta altri partecipano ancor più di lui ….. La Persona è un’apparenza ..… La costruzione di una Persona collettivamente conveniente è una grave concessione al mondo esteriore, un vero sacrificio di sé, che costringe l’Io a identificarsi addirittura con la Persona, tanto che c’è della gente che crede sul serio di essere ciò che rappresenta …. L’uomo non può impunemente sbarazzarsi di se stesso a favore di una personalità artificiale.”
Con riferimento poi alla cristallizzazione in cui versa sovente una società, ai suoi ruoli predefiniti, e alla frequente impossibilità di poter concepire un’idea e un modo diversi di essere, ho pensato di dover riportare un brano di “Anna Karenina”, una delle maggiori opere di Lev Tolstoj, il più grande scrittore russo (e quindi il più grande scrittore di ogni tempo).
In questo estratto, Konstantin Dmitrič Levin, un ricco proprietario terriero, trova beneficio nell’adoperar la falce assieme ai suoi contadini, i Muziki; il fratello di Levin, giunto in visita dalla città, non trova “conveniente” questo suo comportamento, e glie lo fa presente riportandogli i mormorii della gente:
“E io già avrei voluto venire alla falciatura per vederti, ma il caldo era così insopportabile che non sono neppure andato più in là del bosco. Son restato un po’ a sedere, e attraverso il bosco sono andato al borgo, ho incontrato la tua balia e l’ho scandagliata riguardo all’opinione dei muzìk su di te. Come ho potuto capire, essi non approvavano questo. Ella ha detto: “non è affatto da signori”. In generale mi pare che nella concezione popolare siano molto fortemente definite le esigenze d’una certa attività, come la chiamano, “signorile”. E non ammettono che i signori escano dalla cornice che s’è stabilita nella loro concezione.”
Un altro paragone che mi preme sottolineare è quello fra “Cloud atlas” ed “Almanya”, un film che ho amato e che vale la pena d’essere visto, compreso, ascoltato. Riporto più o meno fedelmente dalla recensione d’osteria:
“Noi siamo come l’acqua: non importa che forma abbiamo, noi ci siamo sempre.” – dice un padre al figlio.
Quello che siamo, che siamo stati e che saremo è una cosa sola, un unico filo avvolgente di cui non riusciamo a percepire le estremità.
“Una volta un saggio alla domanda “Chi o cosa siamo noi?” rispose così: siamo la somma di tutto quello che è successo prima di noi, di tutto quello che è accaduto davanti ai nostri occhi, di tutto quello che ci è stato fatto, siamo ogni persona, ogni cosa la cui esistenza ci abbia influenzato o con la nostra esistenza abbia influenzato, siamo tutto ciò che accade dopo che non esistiamo più e ciò che non sarebbe accaduto se non fossimo mai esistiti.” –racconta una voce nel finale di Almanya.
La morte viene interpretata come una forma di continuità, di ereditarietà di sé nelle persone che sono state “sfiorate” o “persuase” da chi apparentemente non c’è più.
Nulla si perde, nemmeno una stilla, di quanto è valso a far gorgheggiare l’acqua.
E forse è proprio così.
L’acqua come memoria, l’acqua come elemento di scorrimento unificante.
L’acqua di chi lascia continua a scorrere nell’alveo di chi resta: perciò, forse (sempre forse), non si muore mai davvero.
E ancora, nel finale del film “Mine vaganti”, una nonna esorta il nipote a scrivere:
“Tommaso, scrivi di noi, la nostra storia, la nostra terra, la nostra famiglia, quello che abbiamo fatto di buono e soprattutto quello che abbiamo sbagliato, quello che non siamo riusciti a fare perché eravamo troppo piccoli per la vita che è così grande. La mina vagante se ne è andata. Così mi chiamavate pensando che non vi sentissi. Ma le mine vaganti servono a portare il disordine, a prendere le cose e a metterle in posti dove nessuno voleva farcele stare, a scombinare tutto, a cambiare i piani.”
“Cloud atlas” parla proprio del caos e di quelle persone temerarie e illuminate che riescono a prendere le cose e a metterle in posti diversi, a scombinare tutto, a cambiare i piani, dopo aver semplicemente intuito di poterlo fare.
Tutto è connesso. E così è impossibile non cogliere un legame fra l’odissea umana di “Cloud atlas” , quella epica di Ulisse, e l’Odissea nello spazio di Kubrick, che rappresenta il viaggio dell’uomo nell’immensità, alle pendici del Sé, a bordo di quel significato ultimo che genera e poi attira a sé ogni cosa per l’eternità. La coscienza unificata, l’architettura che tutto regge e regola.
Il totalitarismo della Neo Seul del 2144 somiglia molto allo spaccato offerto da Terry Gilliam nel film “Brazil”, in cui il Ministero dell’Informazione Moloch controlla ogni cosa, cancellando la mente di chi tenti di opporsi ai suoi diktat; ed è altrettanto paragonabile all’ambientazione di “1984” di George Orwell, in cui un’ideologia ortodossa e accecante controlla ogni cosa attraverso il suo occhio onnipresente.
L’atmosfera claustrofobica e il senso oppressivo della macchina burocratica che annienta il singolo è la medesima per Sam Lawry, Winston Smith e Somni 451 (numero che riporta per ovvi motivi al Fahrenheit di Bradbury e Truffaut).
La stessa ambientazione futuristica di “Cloud atlas” somiglia per certi versi a quella di Matrix (qui si vede la mano dei Wachowski): anche in tal caso gli uomini vengono in un certo senso coltivati, con l’aggravante dell’inconsapevole cannibalismo cui sono sottoposti i cloni. Il risultato è agghiacciante in entrambi i casi.
A livello scenografico poi, soprattutto nelle scene aeree, il complesso architettonico di Neo Seul riconduce visivamente alla Los Angeles di “Blade runner”, sui cui cieli l’agente Deckard vola a caccia di androidi più simili a uomini che a macchine.
Non a caso i film appena citati hanno in comune una caratteristica: mettono tutti in scena società distopiche, apocalittiche, in cui l’individuo ha ceduto ogni iniziativa a un elemento meccanico impersonale e fuori controllo, a un marchingegno che macina uomini senza rimorsi o tentennamenti, a un mostro in grado di sopraffare e annichilire il suo stesso creatore grazie a un martellamento mediatico e psicologico che non lascia scampo.
Lo svolgimento e la circolarità di “Cloud atlas” mi ricordano poi un brano musicale cui sono profondamente legato -“The end” dei Doors- un pezzo che non inizia e non finisce, che mutava ad ogni nuova interpretazione live di Morrison e dei suoi musicisti, che continua a mutare persino adesso nella percezione degli ascoltatori più sensibili alla voce di Jim; credo che il film in questione subirà la stessa sorte agli occhi di avrà il modo e il piacere di vederlo e rivederlo negli anni.
Mi vengono poi in mente le brevi ma intense frasi di due signore piuttosto interessanti:
“Non esistono le razze, esistono i razzisti” –affermò Rita Levi Montalcini–
frase che non posso non collegare all’ennesima perla di Somni 451:
“Non importa se siamo nati in una vasca o in un grembo, siamo tutti purosangue. Dobbiamo tutti combattere, e se necessario morire, per insegnare alle persone la verità”.
E a proposito di chi ha dedicato la sua vita agli altri, Maria Teresa di Calcutta un giorno disse:
“Quello che noi facciamo è solo una goccia nell‘oceano, ma se non lo facessimo l’oceano avrebbe una goccia in meno.”
Chiudo con gli affetti più stretti, e con le parole che ho dedicato loro:
A Nonna Ida, la nonna della mia musa ispiratrice:
E il regalo più grande,
quello di vedersi proiettata nel futuro dell’esistenza
grazie a tre generazioni oltre la sua.
Al figlio della figlia di sua figlia,
che si affaccia appena adesso dove lei saluta.
Dev’essere questa l’eternità.
E a mio Nonno Dino:
Adesso ascolto musica jazz mentre fuori piove,
ma sono ancora e sempre quel bambino,
e sarò per sempre lungo quella dolce pendenza della memoria,
a spingere mio nonno e mia sorella,
coi miei cugini, mia madre, mia zia e mia nonna a correrci dietro,
senza alcun affanno, senza il peso del tempo, senza il pensiero del domani.
Tutto è connesso, indistintamente, sempre.
C’è una sola coscienza, un punto unico cui ogni uomo, creatura o particella tende all’infinito, senza sapere il perché. E’ tutto ciò in cui credo, e oggi la mia convinzione è più forte e salda di ieri; nonostante comporti uno sforzo consistente, ritengo che valga la pena scendere, addentrarsi nel groviglio di pensieri/matrioska che contengono –in scala- il prezioso significato della vita e dell’errare dei viventi sul ciglio di una sfera celeste sospesa nel vuoto e nell’equilibrio invisibile di spazio, tempo ed energia.









