“The lobster” è un film/laboratorio sviluppato su due binari che corrono in parallelo verso opposti modelli sociali: da un lato la ricerca affannosa e forzata di un partner, dall’altro la fuga spasmodica da ogni forma di legame. I protagonisti devono scegliere la direzione prediletta in un contesto che si mantiene costantemente semiserio e grottesco.
Gli spettatori/cavie osservano due ambienti, il “dentro” e il “fuori”, che insieme compongono un habitat complessivo oltre cui non sembra esistere altro. I due contesti sono uniti da una sola strada che sancisce una labile e approssimativa linea di confine.
“Dentro” è una sorta di hotel di lusso, dove tutto è organizzato in modo maniacale e sistematico: attività imposte e per lo più inutili si succedono senza soluzione di continuità, così da non lasciare spazio e tempo residui a disposizione dei membri. Una situazione che tanto somiglia alle civiltà occidentali più frenetiche ed “evolute”, in cui persino l’umanità viene tecnicizzata. “Dentro” occorre trovare qualcuno da amare entro un tempo stabilito per essere considerato membro a tutti gli effetti: le alternative sono la trasformazione in un animale a scelta o la fuga. Ogni individuo è pertanto indotto alla ricerca compulsiva di un elemento che lo accomuni a un’altro tanto da renderli affini: non è difficile intuire come tanti siano spinti alla simulazione onde evitare la muta, e come quindi si scelga la via meno dolorosa, cioè una convivenza costruita, per evitare l’emarginazione dalla società. L’inganno, ove rivelato, conduce parimenti alla muta.
“Fuori” –nel bosco- si è in apparenza liberi, ma è una libertà che si riduce ad una costrizione capovolta rispetto al primo sistema: in effetti la libertà è limitata allo stato brado in cui i membri vivono, poiché la regola in tal caso è la solitudine: di primo acchito la conquista dell’emancipazione assume le sembianze di una catarsi, ma poi si rivela per quello che è, ovvero una nuova imposizione. Il divieto di allacciare relazioni rappresenta l’ennesimo diktat, la condicio sine qua non di una trappola senza vie d’uscita. Le conseguenze di un approccio amoroso sono terribili menomazioni.
I membri di dentro cacciano i ribelli per la muta cui sono destinati, costretti dallo spirito di sopravvivenza: in effetti – ogni volta che catturano un ribelle- guadagnano un giorno di vita da esseri umani nel countdown che li condurrebbe a loro volta a mutare se non trovassero un compagno. Un vile e perfido Moloch sostituisce la volontà individuale. I ribelli d’altro canto trovano vendetta grazie a teatrali e sofisticati metodi di tortura, atti a ingenerare nelle vittime il più logorante dei mali, il dubbio, o a smascherare palesemente le persone fino a mettere in crisi i loro rapporti di coppia, a rivelarne la natura fittizia, artificiale e forzosa.
“The lobster” è un esperimento, una gabbia per topi: i roditori possono scegliere l’una o l’altra via, ma senza uscire dagli intricati contorsionismi che il sistema impone. I topi sono gli uomini, gli spettatori stessi, fotografati e poi schedati in modo tanto indiscreto da rovesciare ogni punto di vista. Si ripropone la questione delle maschere che tutti indossiamo giocoforza nei vari contesti sociali e persino nelle relazioni a due. La persona esteriore e la rinuncia al sè vengono rappresentate in modo calzante e impietoso dalla forzatura dei dialoghi e delle interpretazioni degli attori, che restituiscono modelli d’uomo tanto inebetiti da sembrare inverosimili: ma ogni paradosso nasconde in ogni caso una rivelazione.
La società ipotizzata da “The lobster” incanala i propri componenti verso diversi modelli convenzionali, che comportano l’obbligo di uniformarsi a un criterio di base. Persino la ribellione si rivela un carcere concettuale, un modo comunque limitato di approcciare la realtà. Regole e stereotipi dominano in modo incontrastato, e costituiscono il più efficace degli strumenti di controllo.
Il film di Yorgos Lanthimos è il ritratto caricaturale di un futuro cupo e distopico in cui le relazioni umane, portate all’eccesso, siano ormai ridotte ai minimi termini: ogni scelta comporta comunque asservimento e rinunce, una forma di emarginazione dal sé, dal coacervo illimitato di predisposizioni e mutabilità che la persona interiore comporta.
Il finale simbolizza il diverso punto di vista del protagonista, un imbolsito e spassoso Colin Farrell: l’obiettivo scatta in modo meccanico verso un nuovo universo percettivo che rappresenta probabilmente un recupero disperato dell’umanità che residua in ciascun individuo.
