“The tree of life” -film del regista texano Terrence Malick, uscito nel 2011 dopo anni di lavorazione- è una sublime composizione rapsodica messa in scena per raccontare l’epopea della vita degli uomini, di ogni creatura presente in natura, del cosmo.
La sua peculiarità è quella di svilupparsi attraverso due piani narrativi paralleli e complementari: nel primo livello, più superficiale e “tangibile”, si narra la storia della famiglia O’Brien, espressione del ceto medio del midwest degli anni ‘50. Un padre frustrato e autoritario, una madre tenera ma sottomessa, tre figli di cui osserviamo i primi passi e la crescita, fino alla morte di uno dei ragazzi, al dolore della perdita, cui segue la ricerca di un motivo cui affidare un lutto inspiegabile.
La storia viene ricostruita per flashback seguendo i ricordi di Jack, il più grande dei tre fratelli O’Brien, che affronta dentro di sé il conflitto fra la violenza paterna e il candore materno, ed agisce affidandosi prima all’una, nel momento in cui prova a difendersi con la stessa violenza fin troppo patita, e poi all’altro, nella fase in cui comprende le ragioni della madre, centro nevralgico di un equilibrio sottilissimo.
Le vicende degli O’Brien vengono presentate in tumultuosa e cangiante alternanza con le immagini della formazione dell’universo, che prospettano le meraviglie e la maestosità dirompente della natura e del pianeta Terra: questa fase “documentaristica” costituisce il secondo livello narrativo del film, la parte più onirica e visionaria dell’opera; l’impatto visivo è devastante e i suoni della natura si mescolano alle note di Mozart, Brahms e Bach, tanto da creare un’insieme armonico, fluido, ipnotico.
L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo sono posti a confronto in un percorso di ricerca che assume le dimensioni di un viaggio tortuoso e palpitante in direzione ignota: un viaggio di sola andata ai confini del sé, dove ogni cosa sembra coincidere, traboccare, ed essere, dove ogni risposta è chiara ma impossibile da dire. Il film è una ricerca convulsa e profonda della misura e della verità.
Malick affronta la vita e le sue dimensioni, e pone il dolore e le vicende umane a confronto con l’immensità. La storia di una famiglia qualunque diviene la storia dell’intero genere umano e del dubbio che attanaglia inevitabilmente ogni individuo.
La macchina della natura travolge e colpisce attraverso la furia di un padre insoddisfatto e frustrato (un calzante e spigoloso Brad Pitt), mentre il focolare è difeso dalla flebile ma tenace azione della sua chioccia, una candida ed eterea Jessica Chastain, che diviene il telaio antisismico su cui poggia la struttura familiare. Nell’uomo si nasconde quello stesso amore, ma il suo orgoglio è tale da non consentirgli di percepirlo.
Le prove di tutti gli attori sono in linea con la magnificenza della pellicola: essi comunicano quasi esclusivamente attraverso un’espressività tanto silenziosa quanto straripante, capace di surrogare le parole, che divengono superflue, come spesso accade nei lavori di Malick. Adulti e bambini utilizzano in modo egregio il corpo e la postura per stabilire un contatto, per rafforzare legami o per metterli in discussione. La realtà trapela da un pertugio nascosto e deformante, un punto di vista da cui è possibile sintetizzare la vita e le sue incredibili evoluzioni.
Intorno il macrocosmo non si ferma, e continua ad espandersi, modellandosi e rimodellandosi, mutando indipendentemente dalla volontà degli uomini. E prima o dopo non ha più importanza: l’evoluzione è un moto talmente variegato e inafferrabile da sfuggire a qualsiasi classificazione che tenti (invano) di definirla. E così il tempo minuto dell’uomo perde significato dinanzi all’eternità.
E’ un film carico di tensione dal primo fotogramma, capace di emozionare, dare, togliere, sprofondare, riemergere, un film che non conosce pause nel suo incalzare emotivo, tanto che pare di annegare dinanzi alla furia degli elementi, di soffocare al cospetto di dimensioni irraggiungibili, che restituiscono un senso diverso alle vicende quotidiane, che mostrano quanto sia ridotta la consistenza dell’attività umana, che tramutano le nostre azioni in qualcosa di impalpabile. Ma d’un tratto le dimensioni stesse perdono significato, e tutto si riproduce all’infinito in forme diverse, e il dramma umano si mostra necessario, imprescindibile, e ogni minima increspatura è parte integrante di un sistema unico, che però procede indipendentemente dai movimenti dei microscopici ingranaggi che pure lo compongono. Quello che si avverte è forse un lieve impercettibile cigolio, che presto sfuma, e di nulla rimane traccia o ricordo, e il paradosso della vita mostra qui tutta la sua potenza, senza lasciare scampo o una risposta definitiva.
La camera a mano oscilla nervosamente fra i protagonisti inquieti e lo spazio infinito, che incombe, domina, ma è come se non ci fosse. I tre bambini, spugne malleabili pronte ad assorbire la vita, danzano sulla scena fra i rigidi diktat paterni e le flessuose attitudini di una madre quasi incorporea. Nel frattempo una stella collassa, e un’altra nasce. Ma tutto avviene in una sorta d’indifferenza osmotica fra i due piani narrativi, quasi fossimo in presenza di una produzione istantanea ma diversificata di avvenimenti lungo una serie infinita di binari paralleli dell’essere.
“The tree of life” è un’odissea nello spazio e nel tempo, è un’opera d’arte che trascende il cinema e ogni forma di comunicazione, capace di recapitare un messaggio importante: bisogna aver sempre piena coscienza che, al di là delle vicissitudini che necessariamente attanagliano ogni essere umano, siamo profondamente legati al pianeta in cui viviamo, che siamo il frutto di sconvolgimenti che ci hanno forgiato, plasmato, che siamo quindi il risultato di un’evoluzione violenta, che non conosce il bene e il male, come il sistema naturale in cui siamo calati; ma anche che abbiamo la possibilità di scegliere, di interpretare il tempo che ci viene concesso, di viverlo in modo autentico, di osservare la vita e le sue componenti attraverso la lente della bellezza e del disincanto, di non lasciarci dominare dall’inutile gioco di sopraffazione del prossimo che la società civile insegna.
La società civile non esiste, è una costrizione illusoria e spesso dannosa cui l’uomo si sottopone suo malgrado, come si evince dai pensieri di Jack ormai adulto (un intensissimo Sean Penn), nel momento in cui mette in discussione ogni certezza acquisita. E nel finale Jack, un uomo smarrito in mezzo ai suoi simili, eternamente in bilico fra Natura e Amore, recupera la dimensione mnemonica del fanciullo fino a coincidere col bimbo di allora, e la speranza prevale prima che il nulla dilaghi.





