“Nel parco mi trovavo benissimo. Mi consentiva la mia privacy, ma, quel che conta di più, la finzione di non essere nelle condizioni disastrate in cui in realtà mi trovavo. Erba e alberi sono democratici: mentre mi crogiolavo al sole di un tardo pomeriggio o mi inerpicavo di prima sera per le rocce, in cerca di un posto dove dormire, mi sembrava di subire un processo di fusione nell’ambiente.
Le strade, invece, una simile illusione non la consentivano. Ogni volta che uscivo tra la folla, nel giro di pochissimo tempo venivo richiamato a una vergognosa consapevolezza di me stesso. Mi sentivo una macchia, un vagabondo, un’escrescenza d’insuccesso sulla pelle dell’umanità. Ogni giorno ero un po’ più sporco del precedente, un po’ più stracciato e confuso, un po’ più diverso da tutti gli altri.
Nel parco non dovevo portarmi addosso un simile fardello di autocoscienza. Mi si offriva una soglia, un confine, un modo per distinguere tra dentro e fuori. Se la strada mi costringeva a vedermi come mi vedevano gli altri, il parco al contrario mi concedeva l’opportunità di tornare alla mia vita intima, di tirare avanti unicamente e puramente nei termini di quanto stava accadendo nel mio intimo.“