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48 non sono pochi

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Cronache e Storie d'Osteria

48 NON SONO POCHI

E’ strano arrivare a un’età che non sembra corrispondere alla tua. Un po’ perchè non riesci a realizzare bene cosa tu possa aver fatto in tutto questo tempo, che sembra poco ma è una marea oceanica. Un po’ perchè si fa fatica ad ammettere di aver superato da un po’ quel valico invisibile ma non troppo ipotetico che sancisce la metà del giro che ci facciamo da queste parti.

48 non sono pochi, non mi provocano lo stesso effetto dei 46 o dei 47, si va un po’ troppo in là. Resto convinto che ognuno si assegni un’età, e c’è chi nasce irrimediabilmente vecchio e chi fatica ad invecchiare, come se ciò non fosse affatto nelle sue corde. Ma come dicevo ai miei amici ieri sera, sembra un po’ come se dal traguardo iniziassero a metterti a fuoco. Non sanno chi sei, in fondo ti ignorano, ma ti intravedono, ti percepiscono, diamine.

Adesso non vuoi più regali, non ti serve più niente, perchè nulla è più importante del fatto che la cornice sia giusta, che quello che hai intorno rimanga il più possibile com’è sempre stato, che lo stato di grazia si conservi.

La tua compagna, i figli, la famiglia, gli amici, i sogni e i progetti, i viaggi fatti e quelli imminenti, quelli che stai soltanto immaginando di fare, i libri da leggere, che sono sempre troppi, e i film da vedere, che sono sempre meno. Ma tutto ciò che dimora nel regno dell’immaginazione è prospettiva, una prolunga indefinita verso il futuro, un ponte onirico che unisce il qui e l’adesso al chissà quando e al chissà dove. L’immaginazione è vita.

La confusione degli auguri che arrivano da canali più disparati. I familiari più anziani di norma ti chiamano o ti scrivono un messaggio. La maggior parte degli amici, dei parenti e dei conoscenti più stretti utilizzano le vie social più “intime”, altri ancora ti scrivono su facebook.

E’ difficile districarsi in questo pandemonio di messaggi sovrapposti e penso che ne perderei la metà se non fossi in ferie, al mare, con Franci, sotto un sole che culla e stordisce, che rilassa fino al punto di debilitare il corpo e la mente. E così mi godo in modo leggero questi messaggi filtrati dalle tinte arancio di uno spritz.

“Avevo una casa vicino al mare. Per andare in spiaggia dovevo passare davanti a un bar. Non ho mai visto il mare” -recita una frase di George Best scritta sopra il bancone di un chiosco. Eh si, il mare senza un bar non avrebbe senso. Sarebbe inconcepibile, come… come un mare senza bar.

Per tradizione, il giorno del mio compleanno riguardo i vecchi messaggi di zio Gino, perchè sono unici e perchè è proprio questo il giorno in cui avverto di più la sua mancanza: in lui non esistevano banalità di sorta, e tutto quanto da lui proveniva, nel bene e nel male, era sorprendente, come le strisce di colore con cui sapeva dipingere la vita. Nel messaggio del 5 maggio 2016 mi scrisse che entro qualche tempo avrebbe preso la corriera e sarebbe passato a trovare me e Francesca. Mi sono subito immaginato la corriera stravagante di Steinbeck, ho visto zia sulla scalcagnata Sweetheart guidata da Juan, fra le stramberie di Bernice, Mildred ed Ernest. L’ho visto a San Isidro, presso la Svolta dei ribelli, col garzoncello Kit Carson, e poi in fuga verso la Magnadorsa, che colloco oltre le divine dorate colline californiane che poi diradano più o meno dolcemente verso il Pacifico.

E quindi il mio compleanno è stato questo: risveglio dolce al mattino, un’oretta dentro la libreria Sapere di Senigallia (la miglior libreria al mondo) senza nessuno appresso, un giro a piedi lungomare, il groppone causato dalla lettura delle parole di ZiaGina, i messaggi da leggere in ordine sparso, mio padre che mi chiama ma poi non risponde, l’aperitivo e il pranzo con Francesca, un ritorno precoce perchè Giamma non sta bene, e poi un giro di bevute con gli amici, sempre loro, sempre belli e irrinunciabili, sempre densi e caldi come quegli abbracci che nessun altro al mondo saprà mai darti.

E poi Gocce d’Occhio Colorate, la nuova opera di Iri a me dedicata per l’occasione, la passeggiata con mio figlio per andarci a tagliare i capelli da quel matto di Teo, il pensiero delle tante cose da organizzare per oggi domani e sempre, e l’assoluta certezza di non aver bisogno di altro, perchè sarebbe difficile e persino stupido desiderare di più. Grazie di cuore a tutti, a chi sostiene parti gravose, a chiunque abbia un ruolo delicato, alle comparse, a chi lavora nel retrobottega. Il film non sarebbe lo stesso senza di voi. Senza nessuno di voi.

Caleidoscopio

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Cronache e Storie d'Osteria

Una notte mi sono svegliato nel groviglio inestricabile di passato, presente e futuro. C’erano ricordi senza fine, privi di un ordine cronologico, ricordi anche di ciò che forse deve ancora accadere. L’unico ordine sensato era quello di apparizione degli attori e delle attrici, dettato dalla memoria appena sfornata alle quattro del mattino. Una tessitura intricata di personaggi senza alcuna posa. Tutte queste ombre piombavano fuori dal liquido nero, saturo e denso delle profondità oceaniche della mia psiche, e prendevano forma in modo graduale, raccontando storie più o meno bizzarre. Attraversavo le paludi acquitrinose che dimorano fra la veglia e il sonno, ma ero lucido abbastanza da poter posare lo sguardo su di me.

Così ho pensato a chi sono, a come lo sono diventato, a come ciascuno diventi chi è. E’ banale ma siamo tutti figli di incontri casuali ma decisivi, siamo la somma di tante storie e coincidenze, l’intreccio delle individualità con cui siamo entrati in contatto, “siamo la somma di tutta la vita vissuta ma anche il terreno materno gravido di tutta la vita futura”.

Ho sempre cercato di pescare in modo mirato nello stagno delle opzioni vacanti. Spesso ci ho preso, a volte mi aspettavo di più, a volte di meno. Ma mi sono sempre arricchito, a prescindere dal fatto che una persona togliesse o aggiungesse qualcosa al mio bagaglio, perché ognuno ti lascia un pezzettino di sé, anche soltanto a livello inconscio. Ogni nuovo punto di vista è una scoperta. Conoscere una persona è come visitare una terra straniera, e ho sempre desiderato esplorare persone e luoghi diversi per arrivare a una sintesi sommaria, a una chiave di lettura universale di tutto ciò che è. Capire e leggere il mondo significa anche stanare se stessi. L’inventio.

Quante immagini frullano scomposte nella nostra testa, quasi fossero i fotogrammi caleidoscopici di unico interminabile film epico?

Per quanti motivi siamo legati a qualcuno? Per una serata indimenticabile, per un’immagine folgorante, per la più bella battuta del secolo, perché c’è sempre stato da quando hai memoria, perché forse volevi essere lui, perché sapeva ridere o divertirsi meglio di chiunque altro, perché aveva fissazioni uniche, perché si è perso e poi ritrovato come e quando ti sei perso e ritrovato te, perché ti ha fatto sentire importante, perché vi siete sentiti affini a fasi alterne ma con picchi altissimi, perché raccontava balle astronomiche e tu lo sapevi ma ti andava bene lo stesso, perché è stato sempre geniale nella sua attitudine alle paranoice, perché aveva problemi simili ai tuoi, perché ti sembrava diverso ma ti ha fatto capire che quello diverso eri te, perché stranamente aveva voglia di starti a sentire, perché ti osservava di nascosto mentre tu l’osservavi, perché sparava fesserie enormi senza ridere mai, perchè sapeva stimolarti, perché richiedeva uno sforzo che comportava un salto di qualità, perché riusciva a farti fare cose impensabili, perché poi ti ha messo a disagio ma quel disagio ti è servito, perché ti ha stancato in fretta, perché di colpo è cambiato, perché era troppo, perché era troppo poco, perché aveva una classe o un talento innati che volevi emulare ma non c’era verso, perchè anche lui lo faceva per i Doors, perché era circondato da belle donne, perché nessuno ti abbracciava in quel modo, perché avete fatto un pezzo di strada insieme, perché non ti andava affatto a genio, perché ti fidavi, perché non lo considerava nessuno eppure te eri sicuro che valesse la pena tentare, perché si destreggiava abilmente nella sublime arte dell’autoironia, perché volevi guarirlo dal cinismo a forza di eccessi, perché rideva dentro, perché gli hai sempre voluto bene, perché eri convinto d’essere uno scopritore di talenti, perché aveva i tuoi stessi gusti cinematografici, perché ti ha fatto crescere in un modo o nell’altro, perché ti ha mostrato che nulla è scontato, perché ti ha sopportato oltre misura, perché era indubbiamente più matto di te e non ti pareva possibile, perché anche lui aveva capito che è inutile sforzarsi di piacere agli altri, perché aveva modi rudi sotto cui eri sicuro si nascondesse qualcosa di buono, perché semplicemente vi siete incontrati al bancone dei sogni, dove il Mentore maramaldeggiava.

A me -lo confesso- è sempre piaciuto sperimentare, creare relazioni fra tipi umani diametralmente opposti, scatenare chimiche imprevedibili, cercare l’amalgama perfetto, combinare personalità apparentemente antitetiche, miscelare uomini, donne, ingredienti, musica, parole e follia negli alambicchi della notte e dell’alba.

La mia ricerca prosegue anche oggi, naturalmente in orari più consoni alle mie possibilità. E a volte può ancora capitare di incontrare qualcuno con cui si sviluppi una chimica immediata e incontrollabile, tale che vien da pensare che sarebbe stato impossibile non incontrarsi prima o poi (“le anime belle si incontrano sempre” – Cit. Zia Gina). Lo senti quando hai davanti una persona simile, con cui costruisci parentesi dialettiche notevoli anche se non sai bene chi sia, con cui l’affinità è innata e ti senti subito a tuo agio. Lo capisci perché con persone simili riesci a far gorgheggiare l’acqua. Quando incontri una persona speciale, l’aria -satura di vapore acqueo- raggiunge il punto di rugiada, e il mondo assume una posa e una grazia diverse, e tutto sembra improvvisamente possibile.

Rivolgo quindi il mio pensiero a tutti gli uomini, le donne, e le altre specie animali con cui sia nata un’affinità, mille anni fa o l’altro ieri, che sia o sia stata duratura od estemporanea, semplice o complessa, profonda o superficiale, fugace o approfondita, sensata o ridicola, razionale o pazzesca, monotona o variegata, antiquata o futuristica, formale o conviviale, limpida o velata, reale o presunta, familiare o amichevole, fisica o cerebrale, colorata o in bianco e nero, teatrale o rintanata, musicale o silenziosa, spontanea o artificiale, relativa al lato oscuro o a quello luminoso della Forza, e a loro, a voi dedico il mio più sentito Grazie e i miei più calorosi auguri di Buon Natale e di Buon Anno, nel senso e nei modi che ognuno di voi più gradisce. Che questo sia per tutti voi un momento sereno e introspettivo, da dedicare solo ed esclusivamente a quanto di più caro avete su questa terra, che sia semplice e vero, che sia carico dei racconti e delle persone che vi stanno più a cuore, che vi sappia stupire e meravigliare, e che soprattutto sia inondato da cascate di buon vino e risate prorompenti, senza cui la vita probabilmente non avrebbe senso. Buona fine e buon inizio.

Istanbul, la città fra i continenti

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Cronache e Storie d'Osteria

Forse non sono più abituato a viaggiare senza la mia famiglia, ma l’impatto con questa megalopoli a cavallo fra l’Asia e l’Europa è stato quanto meno interlocutorio

Batterie di palazzi spesso fatiscenti si susseguono a perdita d’occhio, affastellati uno sull’altro senza criterio. Sembrano orde di giganti in cemento armato, eserciti di abitazioni e botteghe fatiscenti che sfilano senza che la luce possa trovare spiragli in cui infilarsi. Ciò è visibile sia nell’antica Costantinopoli (a sud), che soprattutto nei quartieri di Pera e Galata a nord, oltre il Corno d’oro. Fra l’Istanbul europea e quella asiatica corre il Bosforo, striscia d’acqua che conduce dritta al Mar Nero, dove imbarcazioni enormi navigano senza tregua fra Russia ed Ucraina e il resto d’Europa e del mondo. Di là del Bosforo si scopre – per quanto sembri paradossale – una città totalmente diversa, dalle fattezze occidentali, più verde e curata ma un tantino anonima rispetto alla sorella “europea”. A sud di Istanbul dilaga il Mar di Marmara, specchio d’acqua che corre fino al Mediterraneo attraverso lo stretto imbuto dei Dardanelli.

Scrivo ciò senza nulla togliere al cuore di quella che fu Bisanzio e poi Costantinopoli, dove campeggiano monumenti e musei spettacolari. La fastosa Basilica di Santa Sofia (ora adibita al culto islamico), la misteriosa Cisterna di Yerebatan, meglio nota come Cisterna Basilica, antico deposito d’acqua costruito da Giustiniano nei sotterranei di una basilica di cui oggi non resta traccia, la maestosa Moschea blu, il palazzo reale Topkapi, la reggia da cui i Sultani governarono l’impero ottomano fino al diciannovesimo secolo, luogo denso di storie tanto affascinanti quanto spesso terribili.

L’aria di Istanbul è densa di fumi e odori penetranti, il traffico è incessante e si districa fra vicoli altrettanto interminabili, vicoli che salgono e scendono in modo caotico fra i meandri di questa pantagruelica creatura, che sembra divorare i passanti e poi inghiottirli definitivamente o rigettarli fuori in un dove assolutamente casuale. I tram si rincorrono senza pause, forse è solo un unico enorme vagone a serpeggiare fra il passato e il presente, probabilmente è il treno dei sopravvissuti di Snowpiercer, in cui si dipana tutta la vita residua in moto perpetuo. Un bambino vestito di rosso, scalzo, coi piedi neri e consunti, salta giù dallo spazio angusto che insiste fra un vagone e l’altro, e osserva il mondo con occhi grandi e allampanati; è un bambino perduto, dalla posa spavalda, che un attimo dopo scompare anche lui fra i grovigli di mezzi meccanici e la densa spirale della folla.

Istanbul va capita, e certo non bastano i quattro giorni che abbiamo a disposizione. All’inizio ti incazzi perché non sopporti che certe procedure siano poco oliate o semplicemente diverse da come le avevi pianificate, ma nell’istante in cui comprendi che abbandonarsi al flusso disfunzionale che ne catalizza l’energia è l’unico modo per intercettare la sua disorganizzazione organizzata, allora sei dentro, e non ti stupisci più quando ti accorgi che una maratona di ore interrompe ogni forma di trasporto possibile. Camminiamo senza fine, osserviamo divertiti i gonfiabili che segnano i traguardi parziali della gara afflosciarsi sui concorrenti di passaggio, passiamo e ripassiamo per anni sul ponte di Galata, dove i locali pescano pesce nutrito dagli scarichi delle imbarcazioni che si sfiorano e quasi si sovrappongono e navigano a castello sotto di noi. Forse è l’anno 2046.

A me Istanbul non è parsa una città bella in senso proprio, ma è di certo un luogo carico di fascino e segreti irrisolvibili. La sua bellezza senza tempo è minata dall’abusivismo edilizio, fenomeno drammaticamente visibile dalla corsa senza fine delle costruzioni lungo le rive del Bosforo, dall’inquinamento di terra, aria e mare, dall’assenza pressochè totale di porzioni verdi e naturali di tessuto urbano. Questa sorta di decadenza incarna però entrambi i lati della stessa medaglia, nel senso che, se da una parte trasmette un senso di desolazione, dall’altro incanta e seduce il viaggiatore.

Visitarla somiglia più a una sensazione che a un’esperienza. Io e Francesco non abbiamo trovato tracce di frenesia in quel crocevia cosmico di etnie, storie, religioni, e culture diverse. Tutt’altro. Pare regnare un caos calmo in cui tutti fumano come se non ci fosse un domani e in cui nessuno da in escandescenze se un furgoncino blocca una strada a senso unico perché il suo proprietario è sceso a fare colazione.

La super città intercontinentale turca mi ha lasciato una grande serenità di ritorno, una sensazione di pace scalfita soltanto dall’ordigno esploso sei giorni dopo a pochi passi dalla zona in cui alloggiavamo. Le persone sembrano meno inquinate dalle lordure con cui bombardano noi vecchi europei ogni giorno, da anni.

Tutte quelle immagini che nel nostro mondo implicano e instillano finti desideri e inutili ambizioni, tutti fattori che impostano la vita comune come fosse una corsa ad ostacoli, dove devi rincorrere chissà cosa o chissà chi per arrivare prima e meglio degli altri, dove le cose vanno bene ma vorresti andassero meglio, dove il sistema è talmente drogato da non darti tempo per realizzare che in fondo è tutto a posto e sei felice e potresti goderne stilla a stilla se solo non fossi indotto a pensare che no, non basta, vuoi di più, anche se hai già tutto ciò che potresti umanamente contenere per stare bene. E il ridicolo impegno profuso per costruire quel modello di persona collettivamente conveniente, da cui Jung mise in guardia, poiché “tale costruzione è un vero sacrificio di sé, che costringe l’Io a identificarsi con la Persona”. La più atroce delle illusioni, che induce l’uomo a sbarazzarsi di se stesso a favore di una personalità artificiale.

Gli orpelli e gli artifici dell’occidente, le sovrastrutture capitalistiche, la produttività agli estremi, la crescita continua e totalmente insostenibile, la fine dell’essere umano. Tutti questi fattori sono ben visibili quando rallenti in un contesto disorientato come un viaggio in Turchia col tuo amico di sempre. Non hai bisogno di dire nulla, puoi dosare pensieri, concetti e parole, sei a tuo agio, sei a casa, ma lontanissimo da essa, e riesci a vedere la tua immagine riflessa in tutta la sua inconsistente mediocrità.

Continuo a sentire Istanbul dentro di me, anche se è una sensazione intermittente. Ma il pensiero vola spesso da quelle parti, nel dedalo di architetture, viuzze e palazzi creati nei secoli da greci romani, turchi, genovesi e veneziani e chissà chi altro. Istanbul mette in crisi la personalità artificiale dietro cui gli occidentali amano nascondersi.

Ricordo una domenica pomeriggio di luce calda, un giro in battello sul Bosforo, un gruppo di amici turchi felici e affiatati. Si scattavano foto in successione, si mettevano in posa come forse si usava in Italia negli anni 50, si abbracciavano fraternamente, mostrando naturale intimità e reciproca familiarità. Mi hanno subito ricordato i miei amici, il nostro volerci bene, la nostra lunga e intricata storia collettiva, il fatto che anche per molti di noi il contatto fisico sia importante e che sia fondamentale sapersi abbracciare, che non è affatto una banalità. Ma fra di loro c’era un fattore ulteriore, che ho tentato di decifrare durante la navigazione: una fratellanza, o qualcosa che definirei “assenza di complicazioni”, un mood più semplice e lineare, forse meno tortuoso, un’empatia incontaminata, priva di malizie e concessioni, da cui mi sono fatto cullare fino all’attracco in porto.

Ieri -a casa- riposavo nella tana che abbiamo creato per i bimbi sotto un letto a castello, un regno di amore e infanzia e luci soffuse, ricavato in un cantuccio onirico. Ascoltavo i miei figli parlare, li sentivo giocare, mentre Franci andava e veniva leggera, senza che ne percepissi i passi. Le loro voci dolci, il tepore dei cuscini, il ricordo della partita di Gim al mattino e di una giornata trascorsa insieme ad amici cari, il pensiero rassicurante della famiglia, i rituali magici del Natale all’orizzonte.

Un momento perfetto, l’istante in cui comprendi che non puoi desiderare di più, perché ogni tassello aggiunto a quel contesto avrebbe la consistenza di elemento superfluo, di rappresentazione effimera, per quanto in fondo a me piaccia l’effimero, ma quello gustoso, privo di tarli corrosivi. E in quell’istante ho pensato a Istanbul e alla sua gente, alla genuinità di quelle persone ancora ai primordi del degrado che ha colpito l’occidente. Ho assaporato la stessa sana e innocente bellezza che dimorava sui volti dei ragazzi turchi in barca, bellezza che auguro loro di saper conservare in futuro, assieme all’iridescente gusto retrò che ne caratterizza la posa.

LA PROVVIDENZA – Io, Francesca, Zelda, Riccardino, i tosco-balcanici, Super Mario e Sergione da Bordeaux

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Cronache e Storie d'Osteria

Cronaca di una giornata folle

In un giorno di ferie possono capitare cose davvero strane. Io e Francesca andiamo da Maria a Pierosara a festeggiare il suo venticinquesimo compleanno a base di tartufo e funghi porcini. Poco prima di arrivare a destinazione, un rumore sinistro sotto la gomma posteriore destra ci impensierisce. Abbiamo bucato! A quel punto però è tardi, abbiamo fame e il pranzo ci aspetta. Quindi decidiamo di prenderla con filosofia e di non drammatizzare. Dopo pranzo, quando la gomma sarà totalmente sgonfia, la rimetteremo in sesto con la schiuma, come fanno tutti. Tornare a Jesi non sarà un problema. E così pranziamo, ce la godiamo, pensiamo a Zelda (la macchina) e non ci pensiamo, e poi usciamo per cercare di capire il da farsi. Agitiamo la bomboletta e spariamo la schiuma nello pneumatico. Ma diamine, non succede niente! Anzi la schiuma esce fuori allegramente da sotto. Spostiamo con cautela la macchina e ci accorgiamo con assoluta sorpresa che dentro la gomma c’è una chiave meccanica, di quelle che si utilizzano per avvitare e svitare dadi e bulloni.

Non sembra possibile, ma è vero. Siamo fregati. La mia assicurazione non risponde, dobbiamo trovare una nonna per prendere i bambini a scuola alle 16. Grazie ad Alessio e Simonetta riusciamo a collocare i figli a calcio e a ginnastica, ma rimaniamo bloccati a Pierosara. L’unica pompa di benzina della zona è chiusa. Si, siamo fregati. Armeggiamo intorno all’auto senza alcun profitto, finchè si ferma un ragazzo con un pick up bianco. Il suo nome è Riccardo, e si offre di aiutarci, nonostante abbia altro da fare, e si impegna per cercare di capire come estrarre la ruota. Servono attrezzi specifici che mi accorgo di non avere. Riccardo è dispiaciuto, non può aiutarci, chiama qualche suo amico in zona per cercare di trovare gli strumenti necessari, ma niente. Poi escono dal ristorante un ragazzo toscano, la sua compagna di chiare origini balcaniche e un bimbo sveglio e simpatico. Sono in vacanza, dormono lì vicino, potrebbero godersi il tempo a disposizione per fare altro ma anche loro decidono di usarne un pochino per noi. Ci chiedono quale sia il problema. Casualmente hanno una Volkswagen come noi, casualmente hanno gli attrezzi che ci servono. Tra una chiacchiera e l’altra togliamo la ruota. Riccardo, che tutti chiamano Riccardino nonostante la stazza perchè ha deciso di avere figli in giovane età, si propone di accompagnarci da un amico che vive fra Monticelli e Colleponi. Potrebbe avere la gomma che ci serve. Dopo circa dieci minuti arriviamo dal suo amico.

Suo padre Mario si precipita fuori. Vuole offrirci il caffè mentre i ragazzi lavorano. Io accetto, e scendo nella taverna di Mario, dove mi offre il caffè e una specie di distillato di sua produzione. Manifesto il mio stupore per la giornata pazzesca, e Mario mi spiega che è la provvidenza ad avermi fatto incontrare certe persone e poi ad avermi condotto a casa sua. La stessa provvidenza che pochi giorni prima ha salvato la sua casa dall’alluvione, dato che l’acqua si è fermata a poche spanne dall’ingresso della sua taverna interrata. Mario si commuove e mi fa commuovere, e così mi viene spontaneo abbracciarlo. Usciamo fuori come vecchi amici, la gomma sostitutiva è a posto, possiamo tornare a Pierosara. Salutiamo e ringraziamo, ma Mario non è contento e ci regala persino una bottiglia di vino di visciola prima di congedarsi. A quel punto siamo più leggeri, inoltre l’intruglio di Mario mi ha regalato brio e spensieratezza. Io, Francesca e Riccardo chiacchieriamo lungo la strada di ritorno, sembra impossibile che quella chiave meccanica infilzata da chissà quale assurdo rimbalzo abbia condotto a una serie di circostanze inconcepibili, tanto strambe quanto perfette nella loro successione. Riccardo rimonta la ruota in due secondi, io ne approfitto per omaggiarlo di un buono pasto da Maria, cosa che quasi sembra offenderlo, per quanto sia nulla al cospetto della generosità e dell’empatia d’altri tempi che ci ha offerto lui in questo strano venerdì novembrino. Il nostro nuovo amico scappa via, il barbiere lo aspetta. Torniamo, Zelda regge bene, ripercorriamo i passaggi di quella giornata straordinaria, che rimarrà impressa nella nostra memoria come il più strano dei compleanni di Franci. Passiamo a riprendere Irene, lascio le ragazze a casa e corro al Boario, dove Gian Marco si sta allenando. Incontro gli amici e Sergione da Bordeaux, che ascolta divertito il mio racconto, carico di magia e umanità impareggiabili. Apre il chiosco, è di certo la Provvidenza, e a lei brindiamo, prima di scomparire nella notte, oltre la discarica degli eventi impossibili.

Steinbeck – Sweet thursday

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Cronache e Storie d'Osteria

“It’s a cosmic joke. Preoccupation with survival has set the stage for extinction”.

“Quel fantastico giovedì” è uno dei romanzi “leggeri” di John Steinbeck. Si aggiunge a “Pian della Tortilla” e “Vicolo Cannery”, di cui è una sorta di seguito ideale. Vicolo Cannery è un luogo non luogo in cui la vita dei protagonisti sembra procedere secondo modalità particolari. E’ una nicchia del tempo, tanto che è facile concludere che i vari Doc, Mack, Flora detta Fauna, Suzy, il vecchio Jingleballicks e il Patron Josè Maria Rivas siano ancora lì a discutere del più e del meno seguendo la ritmica e toni scanzonati e surreali dettati da Steinbeck negli anni 50 del secolo scorso.

I protagonisti di Cannery Row sono per lo più perdigiorno indaffarati a seguire i propri istinti, a procurarsi il denaro utile a comprarsi da bere, a vivere alla giornata, senza l’ansia del domani. “Quel fantastico giovedì” è un romanzo fluido e semplice da leggere, ma lo scrittore americano stavolta concede una sorta di riscatto ai suoi paisanos, riscrivendoli da una prospettiva diversa, che concede loro lo sguardo più profondo e luminoso del lettore.

Eccone un passo:

“L’uomo ha risolto i suoi problemi” – continuò Old Jay. “I predatori li ha scacciati dalla terra…il caldo e il freddo li ha stornati; le malattie infettive le ha praticamente eliminate. I vecchi continuano a vivere, i giovani non muoiono. Le migliori guerre non riescono neppure a soddisfare la quota di mortalità. C’era un’epoca in cui un esercito, in un anno, tagliava in due un popolo. La fame, il tifo, la peste, la tubercolosi erano armi sicure. Lo sgraffio della punta di una lancia significava infezione e morte. Lo sapete qual è la percentuale delle morti per ferite sul campo, oggi? L’uno per cento. Cent’anni fa era l’80%. La popolazione aumenta e diminuisce la produttività della terra. In un futuro prevedibile saremo soffocati dalla massa degli uomini. Solo il controllo delle nascite potrebbe salvarci, però è una cosa che l’umanità non metterà mai in pratica. “Fratello!” disse il Patròn. “Ma come mai tutto ciò la rende tanto allegro?” “E’ uno scherzo cosmico. La preoccupazione per la sopravvivenza ha preparato la scena per l’estinzione” – rispose Old Jay.

E’ quantomeno curioso come le parole di Steinbeck siano attuali 70 anni dopo e forniscano ancora oggi spunto per innumerevoli riflessioni. I predatori, il clima, le guerre, le malattie infettive vengono trattati cinicamente, quali necessari strumenti di controllo demografico. Il modo in cui l’uomo ha costruito e vissuto il progresso -per puro istinto di conservazione prima e di espansionismo poi- potrebbe aver contribuito a superare la soglia oltre cui campeggia a caratteri cubitali la sua stessa fine.

In poche righe sfilano i temi di maggiore attualità del nostro assurdo presente, e il futuro in cui l’uomo soffocherà se stesso è definito prevedibile. In effetti nel 2022 la sovrappopolazione mondiale ha raggiunto numeri impensabili, il clima è in una fase di stravolgimento tale da far intuire che solo le specie dotate della più innata versatilità e adattabilità riusciranno a sopravvivere, il virus di origine tuttora dubbia imperversa a macchia d’olio in ogni angolo del pianeta, e la guerra c’è stata sempre, ma in molti se ne sono accorti soltanto dopo che le sue spire hanno sfiorato i sacrosanti confini europei.

Dall’elenco di Steinbeck rimarrebbe fuori soltanto il predatore, e si potrebbe ricorrere al Covid quale “naturale” vendicatore invisibile, ma non ce n’è bisogno: l’uomo è stato abilissimo ad epurare o confinare i suoi predatori storici, ed ora non deve temere che se stesso, il più avido, stupido e pericoloso fra gli esseri viventi sulla faccia della terra.

Tutto ciò conserva una certa ironia, e il dialogo dei ragazzi di Cannery row termina nell’unico modo possibile, con una battuta e una bottiglia di whiskey da rimediare in fretta.

“Quando si mangia?” chiese Old Jingleballicks. “Il io pranzo te lo sei mangiato tu” rispose Doc. “ho una buona idea” disse Old Jay. “Mentre tu pensi a far da mangiare, William and Mary può andare a prendere un’altra bottiglia di whiskey, e io preparo gli scacchi.” “Si chiama Josè Maria, non William and Mary.” “Chi è? Ah! Amico mio, le insegnerò il più grande dei giochi, la creazione eterea dell’intelligenza umana!”

Infinitamente Zia Gina

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole, Pensieri

​​​​​Utilizzo questo spazio alla deriva ma intimo per ricordare mio zio. E’ un luogo ispirato a lui e ai suoi microcosmi ludici, alla sua voglia di giocare e curiosare, di non essere mai contento in fondo. Zio Gino era un genio, un pazzo furioso, un artista totale, un uomo meraviglioso. Era un visionario, un sognatore indomito, un santo bevitore, un compagno di giochi, un saltimbanco, un oste d’altri tempi, un impudente latin lover, un immenso amico, un gran baciatore in bocca, un cantastorie, un principe del convivio, un intrattenitore totale.

Era un personaggio leggendario, infinito, un uomo difficile, burbero e scontroso ma anche gentile e delicato, un poeta raffinato e sensibile, un uomo libero, libero di essere quel che voleva essere, anche solo per dispetto, anche solo per irridere con una giravolta i pregiudizi dell’uomo comune. Come ho appena scritto a mio cugino Tommaso, suo figlio, lui non ha mai fatto finta di essere quello che non è, un atto eroico in questo mondo di finzione.

Mi ricordo una delle sue prime mostre, forse 30 anni fa, lungo le mura di Morro d’Alba. Una specie d’uomo nero usciva dalla tela a sfondo giallo. Ero poco più di un bambino ma le sue opere mi impressionarono e mi entrarono dentro senza più uscire. Forse è proprio l’uomo nero ad essermi entrato dentro, quel demone dell’arte che per anni mi ha fatto credere di poter tradurre in lettere quel che lui dipingeva. Non era questo. Era di più. Io sentivo le sue opere come fossero parte di me, erano anche i miei sogni e i miei incubi quelli che lui mi mostrava. Zio Gino è entrato in luoghi inaccessibili ai più, ha aperto una porta che introduce al suo mondo immaginario, che però è l’immaginario di tanti, che però poi è anche parte del percepito, è parte e retrobottega di tutto quanto resista a cavallo fra la realtà e i sogni.

“Noi due siamo identici Simo!” mi diceva alla fine di certe serate abbracciandomi e baciandomi in bocca. Aveva una sensibilità inaudita e in me aveva forse percepito frammenti delle sue stesse debolezze, delle sue stesse paure. Mi ha aiutato in momenti difficili. Ha fatto sentire a casa me e la mia ragazza, i miei amici e chiunque portassi lassù. Qualcuno forse lo ha pure cacciato.

Una mia grande amica mi ha scritto ieri sera: “Me lo ricorderò sempre un abbraccio tra Voi due al Tamburo Battente, alla fine di una spensierata cena fra Amici. C’ero anch’io per fortuna. Come una fotografia”.

Ho passato la vita ad andare a trovare zio Gino ovunque si spostasse da un versante all’altro della campagna marchigiana, a cercare di capire e interpretare con calma i suoi quadri, che lui mi illustrava con vino e pazienza, con quel suo sguardo sornione e profondo. Era fissato con la luna le mani i sassofonisti i trombettisti gli oboisti i ciclisti i motociclisti e i piloti morti di morte violenta.

Zia Gina

E’ stato un punto di riferimento essenziale per me, le sue osterie erano luoghi di fuga, dimore prive di tempo, castelli diroccati dell’esistenza, luoghi di culto e piacere e parole confuse e sovrapposte fino a notte fonda. Lui sapeva riempire di sé quegli spazi, sapeva ricreare e rigenerare se stesso in ogni sua nuova collocazione, e quegli spazi erano vivi e pieni di Zio Gino.

Mio zio Gino era una poesia beat, e per quanto si definisse pigro, è stato sempre mosso da una profonda inquietudine creativa priva di punteggiatura, da una voglia di manipolare gli elementi e i colori e di piegarli ai propri scopi, di rappresentare le fantasie del bambino curioso che conservava dentro di sé.

Ha lasciato tracce di sé ovunque, tracce importanti, mai banali. Tracce indelebili di una vita vissuta senza risparmiarsi, senza esitare, senza mezze misure, senza cautela o prudenza alcune.

Sei stato il mio eroe, mi volevi bene senza tentennamenti e io ti chiamavo Zia perché ti piaceva troppo giocare a interpretare il ruolo della vecchia zia. Mi mancherai in un modo che non riesco a dire e cerco di immaginarti in questa canzone di Lou Reed, intento a tratteggiare nel tuo universo creativo questa ragazza dagli occhi blu, a liberare l’estro e sublimarne ogni sfumatura fino a trasferirla sull’ennesima, magnifica tela.

https://www.youtube.com/watch?v=KisHhIRihMY

Non ho la consolazione di chi ipotizza mondi paralleli, ma non riesco a non immaginarti a bordo di una Austin Healy cabrio verde scoperta anche quando fuori piove cogli occhiali scuri e i capelli al vento e tele appoggiate dietro alla rinfusa come le idee a sgommare via verso i mille tornanti delle campagne e della memoria “a sud di nessun nord per parlare con la luna”. Con quella risata eccezionale e piena e altisonante a riecheggiare in lontananza.

Un giorno riderò come te, lo so.

Ti amo Zia. Ti amerò sempre per sempre col cuore che picchia in petto come un tamburo battente

Si tu vois ma mère / Midnight in Paris – E il tempo perde consistenza

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Cronache e Storie d'Osteria, Soundtrack

Cronache e Storie d’Osteria

 

RadiOsteria consiglia “Si tu vois ma mère”, pezzo composto dal jazzista americano Sidney Bechet negli anni trascorsi in Francia.

Sidney Bechet (1897-1959)

Sidney Bechet (1897-1959)

Bechet, nato nel 1897 a New Orleans, rivelò fin dall’infanzia un talento naturale per la musica; maestro nell’improvvisazione, non imparò mai a leggere la musica per sua scelta. Esordì come clarinettista e vi si dedicò fino al 1919, anno in cui notò un sax soprano in una vetrina londinese. Divenne un eccelso sassofonista e suonò coi più grandi musicisti dell’epoca in ogni angolo del mondo. Nel 1949 si trasferì in Francia, dove morì dieci anni dopo.

Nel 2011, Woody Allen -regista ma anche compositore e grande conoscitore di musica jazz- ha inserito “Si tu vois ma mère” nella colonna sonora di “Midnight in Paris”, film in cui si rimescolano sogni, costumi e personaggi di  epoche diverse in quell’affresco dei sensi che Parigi raffigura. Il presente e gli anni 20 calzano entrambi a pennello a una città che sa ammaliare e confondere persino sua maestà il tempo. 

Marion Cotillard ed Owen wilson in una scena di "Midnight in Paris".

Marion Cotillard ed Owen Wilson in una scena di “Midnight in Paris”.

Il brano di Sidney Bechet apre il film di Woody Allen, accompagnando con garbo trasognato il carosello di immagini che introduce “Midnight in Paris”. E quel senso di inadeguatezza al proprio tempo, tipico peraltro dei frequentatori d’Osteria, vola via leggero e perde consistenza, tra un bicchiere e l’altro.

Buona visione, e buon ascolto.

Andy Kaufman – Man on the moon

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Cronache e Storie d'Osteria

Cronache e Storie d’Osteria

All’inizio degli anni 70 uno stravagante showman di nome Andy Kaufman (1949-1984) riscosse un notevole successo negli Stati Uniti, prima come improvvisatore in brevi apparizioni live e poi come mattatore in televisione.

Andy Kaufman

Andy Kaufman

Andy non era un comico in senso proprio -anzi  forse non lo era affatto-  ma un artista sui generis e un personaggio indecifrabile, che rivoluzionò il modo di fare spettacolo dell’epoca.

Kaufman spiazzava il pubblico con interpretazioni assurde e prive di senso: agli esordi si presentò sui palcoscenici di piccoli club come uno straniero timido e impacciato proveniente da Caspiar – un’isola affondata nel Mar Caspio-  imitando vari personaggi noti con la stessa irritante impostazione vocale, per poi esplodere in imitazioni folgoranti e imprevedibili, come quella di Elvis Presley.

Kaufman,  una volta scoperto e lanciato in tv dal noto talent scout George Shapiro,  si dimostrò talentuoso ma ingestibile:  ebbe il merito di collezionare una serie di performance innovative, ma creò il panico fra autori e produttori.

Andy Kaufman nei panni di Tony Clifton

Andy Kaufman nei panni di Tony Clifton

Io lo definirei un provocatore nel senso artistico del termine, un prestigiatore in grado di alterare e spiazzare l’occhio di spettatori abituati a una tv convenzionale.  Andy Kaufman mirava in effetti  a smascherare certi subdoli meccanismi televisivi, finalizzati a mostrare una realtà distorta, intrisa di retorica e falsi buonismi. In un contesto mediatico diretto a compiacere moltitudini di spettatori anestetizzati e a costruire un consenso condiviso in assenza di contraddittorio, Kaufman è la mina vagante che svela l’ipnosi, la variabile impazzita capace di scuotere i dormienti dal torpore.

Scopri le perle di Kaufman

Lettera a Monica Vitti

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Cronache e Storie d'Osteria

Ciao Monica,

ti scrivo per dirti che non mi interessa la tua età, non mi interessa che fai, con chi sei o dove vivi, anche se spero che te la passi bene, e che ti godi la vita come meglio puoi. No, qui non c’entra il tempo, il tempo non conta, conti solamente tu, conta quello che rappresenti per me e per una miriade di persone che forse nemmeno ti immagini.

Monica Vitti - 1968Eri la mia preferita a cinque anni, perchè mi facevi ridere, e lo sei anche adesso che ne ho quaranta, perchè ho potuto capire meglio con chi avevo a che fare. Si, perchè la sensazione è di aver condiviso qualcosa di importante, per quanto hai dato di te al mondo. Sei un’artista straordinaria e una donna vera, che può cavarsela benissimo tra straccioni e poveracci in una bettola di quart’ordine o a un gran galà con la meglio gente. Ti vorrei dire che mi manchi, in senso romantico, ma non posso perchè sei dappertutto, perchè hai prestato il corpo, il viso, la voce e la tua più intima essenza ai sogni di chi, come me, è cresciuto coi tuoi film. Il fatto è questo: sei la più grande di sempre, la mia preferita, e ci tenevo a ringraziarti per la generosità, la classe, la genuinità, la maestria dimostrate negli anni. Rendi onore al cinema e alla vita, alle donne ma anche agli uomini, al punto che il tempo diventa inutile, e non può farci niente, tanto che con te si arrende: e così -come fosse uno di noi- si ferma e ti osserva ridere piangere danzare cantare incarnare tutte le forme e le espressioni umane fino a perdere la cognizione di sè.

Ti abbraccio

S

Antonio Sampaolesi – Mio nonno, il mio idolo.

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Cronache e Storie d'Osteria

Storie e Personaggi d’Osteria

“Siamo ogni persona, ogni cosa la cui esistenza ci abbia influenzato o che la nostra esistenza abbia influenzato, siamo tutto ciò che accade dopo che non esistiamo più e ciò che non sarebbe accaduto se non fossimo mai esistiti” (Almanya).

Antonio Sampaolesi

Antonio Sampaolesi (1909-1990)

Mio nonno Antonio era un personaggio interessante. Perito tecnico e agrario, il Commendator Sampaolesi è stato socio fondatore della Federazione Italiana Coltivatori Diretti e, dopo la guerra, Presidente Nazionale degli agenti di consorzio agrario. Mente ardita e inquieta, fondò la I.M.A. Sampaolesi, industria di macchine agricole all’avanguardia -tuttora operante sotto la direzione di una nuova proprietà. Fu anche sindaco di Ostra Vetere, il comune in cui risiedeva. Io l’ho conosciuto nelle vesti di nonno attento e affettuoso, per quanto fosse sempre indaffarato a leggere e scrivere chissà che cosa, e non ho saputo chi fosse realmente se non dopo la sua morte, avvenuta quando avevo 15 anni. Ho trascorso buona parte della mia infanzia con lui. Uno dei miei primi ricordi in assoluto lo riguarda: nel breve periodo che ho passato all’asilo, lui stava in piedi, immobile, in fondo al giardino che delimitava il Negromanti. Mi osservava senza lasciarmi, e io osservavo lui. I miei coetanei mi interessavano relativamente, e a sprazzi: non potevano reggere il confronto con nonno Antonino. E così combinai ogni tipo di mascalzonata per far capire che non ero tagliato per l’asilo. E riuscii nell’intento di trascorrere tante mattine con nonno, tra una passeggiata e una commissione. Un periodo impresso in modo indelebile nella parte di me in cui riposa la dimensione infantile. Nonno emanava carisma e otteneva il mio rispetto senza bisogno di manifestare alcuna autorità; i suoi baffi odoravano di tabacco, storpiava i nomi delle cose per farmi ridere e mi voleva un bene che sento addosso tuttora, un bene che è arrivato fin qui, un bene ciclico, che saprò rendere a chi di dovere: d’altra parte, per chi -come me, agnostico praticante- crede in una sorta di coscienza unificata, nulla è più importante del fatto che l’acqua di chi lascia continui a scorrere nell’alveo di chi resta. Nonno Antonino è semplicemente evaporato, e parte dell’acqua che si portava appresso l’ha lasciata a me.

Ciao nonno, ti voglio bene e ti penso ogni giorno, da allora.

Chiedi chi erano gli Okies

06 venerdì Nov 2015

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Cronache e Storie d'Osteria

Okies a San DiegoNegli anni 30 –sul solco tracciato dalla Grande Depressione americana del 1929- gli Stati Uniti sud-orientali furono teatro di una migrazione interna senza pari. Una migrazione imposta dall’azione combinata di banchieri privi di scrupoli e di grandi latifondisti, che sradicarono gradualmente i coloni dai propri territori con inganno, furbizia, violenza e false promesse.

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Le tempeste di sabbia che negli stessi anni imperversarono in quei territori (causate peraltro da decenni di agricoltura dissennata) rappresentarono  il colpo di grazia per una popolazione già ridotta alla fame. L’esodo verso la California, che rappresentava il miraggio dorato in cui riporre ogni speranza, raggiunse così proporzioni immani.

Madre migranteLa fotografa statunitense Dorothea Lange (1895-1965), seguì e documentò l’epopea di alcuni fra i tanti disperati che presero la via della west coast.

Dorothea Lange - Migranti“Ed ecco che” -scrisse John Steinbeck- “d’un tratto, nel Kansas e nell’Oklahoma, nel Texas e nel Nuovo Messico, nel Nevada e nell’Arkansas, le trattrici e la polvere si alleano per spodestare i coloni e cacciarli nel West. Ed ecco formarsi ed apparire le carovane dei nomadi: ventimila, centomila, duecentomila. Varcando le montagne si riversano nelle ricche vallate: tutti affamati, inquieti come formiche in cerca di cibo, avidi di lavoro, di qualunque lavoro”.

Okie children

Tali migranti vennero denominati “Okies” per via della provenienza dall’Oklahoma della maggior parte di essi. Ma il termine assunse ben presto il significato di “buzzurro” o “cafone” per via della miseria e del degrado in cui i migranti vissero, al loro arrivo nella terra promessa: in effetti erano stipati a centinaia in tendopoli fatiscenti e prive di qualsiasi servizio igienico. Una storia che ne ricorda tante altre, in ogni tempo.

CRONACHE E STORIE D’OSTERIA

Black beauty – Duke Ellington celebra Florence Mills

04 mercoledì Nov 2015

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Cronache e Storie d'Osteria, Soundtrack

Soundtrack / Cronache e Storie d’Osteria

Nel 1928 Duke Ellington (1899-1974), uno dei maggiori compositori jazz della storia, dedicò “Black beauty” a Florence Mills, artista scomparsa un anno prima a soli 32 anni.

Duke Ellington nel 1930

Duke Ellington nel 1930

Immagino senza fatica il suono cupo di questo magnifico pezzo blues uscire dagli apparecchi radiofonici dell’epoca, immagino Ellington e la sua band suonarlo ad Harlem, in locali densi di fumo, storie e odori del passato.

 

Florence Mills (1895-1927)

The Queen of Happiness

 

 

Una poesia in musica -“Black beauty”- un omaggio alla memoria di una grande artista: la Mills, attrice, ballerina e cantante di fama internazionale, nota come “The queen of happiness” per la verve che la caratterizzava sul palcoscenico, avrebbe accennato un sorriso e spalancato gli occhi se avesse ascoltato la nobile dedica di un jazzista del calibro di Duke Ellington.

 

Ma quella musica c’è, esiste, come filo conduttore, come forma di comunicazione che trascende la sfera delle possibilità conosciute. Forse Duke e Florence se la suonano e se la ballano, in un mondo soltanto sognato, in un recesso remoto della memoria condivisa degli uomini che furono, sono, saranno. Pensarlo lo rende vero, in un certo senso.

Black beauty  – youtube
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