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La parole e l’azione: Roth versus Ibsen

28 giovedì Mag 2015

Posted by osteriacinematografo in Ibsen, J. Roth, Pensieri

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole, Pensieri

“Un migliaio di parole non lasciano un’impressione tanto profonda quanto una sola azione” – dichiarò sinteticamente il celebre drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828-1906).

Joseph Roth, talento d'Osteria

Joseph Roth, talento d’Osteria

Lo scrittore austriaco Joseph Roth (1894-1939) la pensava diversamente. O meglio la pensava diversamente Golubcik/Krapotkin, eccelso protagonista del suo romanzo “Confessione di un assassino”:

“Solo molto più tardi ho imparato che le parole sono più potenti delle azioni, e spesso rido quando sento l’amata frase: “Fatti e non parole!”.Quanto sono deboli i fatti! Una parola rimane, un fatto passa! Di un fatto può essere autore anche un cane, ma una parola può essere pronunciata soltanto da un uomo. Il fatto, l’azione, è solo un fantasma se lo si confronta con la realtà, e persino con la realtà immateriale della parola.L’azione sta alla parola press’a poco come le ombre bidimensionali del cinema stanno all’uomo vivo tridimensionale, oppure, se preferite, come la fotografia all’originale. Anche per questo sono diventato un assassassino”.

Per aver sottovalutato il potere della parola, Golubcik entra a far parte dell’Ochrana, la terribile polizia segreta della Russia zarista, evento che influenzerà tutto il corso della sua vita, fino a saggiare “la più profonda di tutte le tragedie, la tragedia della banalità”.

Henrik Ibsen, padre della moderna drammaturgia

Henrik Ibsen, padre della moderna drammaturgia

La coincidenza di interessarsi contemporaneamente a due grandi autori conduce di rado a una simile evidenza: il contrasto dei concetti summenzionati è talmente evidente da indurmi alla conclusione che non posso decidere per l’uno o per l’altro. Oltretutto vari fattori limitano la portata delle rispettive idee: nel caso di Ibsen, il concetto è stringato e privo di un contesto più ampio che potrebbe chiarirne meglio il significato: potrebbe essere -ad esempio- un’amarezza personale ad aver spinto l’autore di “Spettri” a un considerazione che denigra a tal punto il potere della parola. Nel caso di Roth invece, il concetto è filtrato dal fatto che sia un suo personaggio, e non propriamente egli stesso, a concepirlo.

In conclusione, ritengo che parola e azione siano interdipendenti: si nutrono l’una dell’altra, si alimentano vicendevolmente, traggono senso e respiro ognuna dall’esistenza e dall’essenza dell’altra, e forse si smarrirebbero entrambe se cessasse lo scambio osmotico che ne caratterizza la relazione.

Cave of the forgotten dreams – Quegli uomini siamo sempre noi o abbiamo smarrito noi stessi?

19 martedì Mag 2015

Posted by osteriacinematografo in film, Herzog, Pensieri, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Pensieri

“Inventando la raffigurazione di animali, uomini, cose” -racconta Werner Herzog con voce profonda e suadente- “nasce una forma di comunicazione tra gli umani e il futuro, evocando il passato, trasmettendo informazioni in forme superiori al linguaggio, alla comunicazione generale. E la stessa invenzione esiste oggi, nel nostro mondo, ad esempio con questa videocamera.”

Chi ha avuto, come Herzog e un ristretto staff di scienziati, il privilegio di entrare nelle grotte Chauvet, descrive l’esperienza come un forte trauma emotivo, uno shock primordiale, acuito dalla sensazione di sentirsi osservati dagli spiriti di uomini che scrutiamo attraverso le voragini del tempo, uomini scevri dalle maglie della storia che invece intrappolano irrimediabilmente l’uomo d’oggi. Il silenzio della grotta e le opere di eccellente fattura, risalenti anche a 32 mila anni fa, comunicano più di qualsiasi linguaggio il segreto del tempo e dell’evoluzione umana.

Cave of forgotten dreams

Quella grotta, che non era una casa per gli uomini, ma un luogo d’arte e di culto, si rivela una sorta di mostra dei sogni perduti, che ha resistito ai crolli della rupe che ne hanno ostruito il passaggio ma non l’intima essenza, che è divenuta eterna e imperforabile teca, finchè un alito di vento ha suggerito a Chauvet di risalire la china di un percorso forse tracciato dall’uomo per se stesso, per ricondursi a sè, per coincidere ancora con il centro, puro e adamantino, della sua natura, una natura calpestata e rinchiusa nei contenitori oblianti dell’eternità, nascosta sotto i sedimenti millenari dei nostri stessi artifici, delle nostre strutture infestanti.

Coccodrillo albino

Nel finale del film, Herzog immortala alcuni rettili che vivono in un ambiente tropicale ricreato a pochi chilometri dal sito archeologico – laddove un tempo un ghiacciaio spesso 2.500 metri dominava il paesaggio-  “grazie” ai fumi residui di una centrale atomica che insiste nei dintorni. Il regista tedesco si sofferma in particolar modo sui coccodrilli albini, nati in questo ambiente fondamentalmente tossico, e quindi adattati ad esso. “Nulla è reale, nulla è certo. Non è semplice capire se queste creature si stiano trasformando nel loro stesso alter ego. E poi, si incontrano? Oppure non è altro che un riflesso speculare immaginario? È possibile che noi, oggi, siamo i coccodrilli che scrutano un abisso temporale, quando osserviamo le pitture della grotta Chauvet?“.

Queste parole di Herzog mi turbano dalle profondità della notte scorsa e di quella grotta di sogni perduti, quasi che le due dimensioni in qualche modo convergano, come tutto il tempo coincide con un solo infinitesimale istante, grazie alle tracce e ai segni che quegli uomini ingegnosi hanno disseminato per tramandare l’essere umano.

In quella grotta riposa un sogno lungo 32 mila anni, un sogno che scorre dentro ciascuno di noi.

Le tre cose della domenica – “Ossido di carbonio”, “Smoking runner”, “A tutto gas”.

18 lunedì Mag 2015

Posted by osteriacinematografo in Pensieri, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole, Pensieri

Le tre cose della domenica mi riportano a una mattina romana, quando o dove il mio caro amico Faust mi parlò per l’appunto delle sue tre cose della domenica. Il concetto mi piacque molto all’epoca e lo riprendo ora per intitolare questo mio pensiero.

Ieri era a domenica anche qui a Jesi, la mia città. Era la domenica di “Bicincittà”. Tutti in bici. La zona fra i giardini pubblici e lo stadio comunale era pedonalizzata, addobbata a festa e popolata da centinaia di bambini. Tante iniziative e una bella festa per tutti. Ma non è questo il punto.

Ieri mattina sono andato a correre, come mi capita spesso di fare. Attraverso di corsa la zona pedonalizzata. Magnifico -penso- dovrebbe essere sempre così. Ma proseguo di poche decine di metri, neanche il tempo che quel mio pensiero si sia fuso con gli altri mille che si accavallano allegramente nella testa di chi corre, e mi ritrovo immerso nei gas di scarico.

Cosa numero 1:

di colpo sembrava quasi che la manifestazione fosse “Auto in città”, tante erano le macchine che intrecciavano i loro percorsi. Non capivo e non capisco tuttora dove andassero tutti in macchina in quella bella giornata di sole. Un vero spreco e una dannazione per me, costretto a mascherarmi con una fascia da bandito per respirare meno ossido di carbonio possibile. Forse, ho pensato, arrivano in macchina fin dietro i giardini, tirano fuori le bici e sfilano per dare l’illusione di aver percorso sulle due ruote ben 500 metri. Oppure -penso- boh!

Cosa numero 2:

continuo a correre, sono entrato in un loop immaginario che percorro abitualmente, un anello di 4,4 km. Sono all’inizio del primo giro, quando, fra le persone che incrocio, una mi incuriosisce particolarmente. E’ un ragazzo sulla quarantina (si perchè mentre una volta a 40 anni si era vecchi, oggigiorno alla stessa età si è ancora giovani): è in tenuta ginnica, ma cammina e fuma una sigaretta. Ho pensato: gente strana, davvero. O forse è un’illusione ottica, forse sono già stanco. Ma il pensiero vola via, e proseguo, finisco il secondo giro, e, a metà del terzo, incontro di nuovo quel ragazzo. Il sole inizia a battere forte, e lui adesso corre, respirando con un certo affanno. E il boh che è dentro di me inizia a veleggiare verso il cielo.

Cosa numero 3:

sempre durante il mio percorso mattutino, in un momento collocabile fra il primo e il secondo incontro con lo smoking runner, passo vicino a due automobili parcheggiate una dietro l’altra, a bordo strada. Entrambe hanno il motore acceso, e si scaldano al sole. La prima è vuota. Due portiere aperte, al suo fianco quattro persone estremamente sovrappeso mangiano dei panini e discutono. Il sudore imperla la fronte di uno dei quattro, e subito penso al Barone Arkonnen e alle sue magnifiche pustole. Nella seconda macchina, parcheggiata subito dietro la prima, c’è un uomo al posto di guida. Fuma una sigaretta e legge il giornale, con il finestrino quasi chiuso, m non del tutto, giusto per aspirare anche buone dosi del gas di scarico che gli sparano innanzi. A quel punto un alto cirro che si leva dritto davanti a me assume indiscutibilmente la forma di Grande Boh.

Cirrus sky

La sera prima mi ero trovato a riflettere sui meccanismi che inducono l’uomo -almeno apparentemente- all’autodistruzione. Forse la scintilla che ha permesso all’uomo di evolversi in modo inaspettato non è stata un bene, a conti fatti. Forse è una malattia, un agente patogeno, un virus. Forse è la prova che stiamo miseramente fallendo, che la nostra crisi d’identità è profonda quanto la tana del Bianconiglio.

La sera prima ero assalito da ogni sorta di dubbio.Ma poche ore dopo, ieri mattina appunto, quegli strani fatterelli hanno confermato i miei sospetti e fugato ogni dubbio: l’uomo si è davvero fottuto il cervello.

“L’uomo è l’unica creatura che rifiuti d’essere ciò che è”

20 lunedì Apr 2015

Posted by osteriacinematografo in film, immagini, Pensieri, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole

La guerra è un concetto che mi ossessiona. Giorni fa ho ripreso visione di “Master & Commander”, un film di Peter Weir del 2003: trattasi di un’avventura immaginaria nei mari del sud agli albori del 19esimo secolo. Il Comandante inglese Aubrey rincorre il nemico francese a bordo di una fregata, oltre i limiti geografici che la missione e la corona gli impongono, oltre i propri doveri militari, oltre ogni logica, oltre il peso imposto dalla tutela degli uomini di cui è responsabile. Il gioco della guerra spinge l’uomo oltre tutti questi limiti.

MASTER AND COMMANDER: THE FAR SIDE OF THE WORLD, 2003.Nel film deflagra -oltre l’epico duello in mare fra bastimenti- lo scontro morale e dialettico fra il comandante e il medico di bordo, Maturin, suo caro amico e naturalista appassionato. I loro punti di vista sono opposti: il primo è un predatore in senso stretto, e vive alla ricerca di una preda, o meglio di un (valido) antagonista con cui confrontarsi in mare aperto; egli brama un nemico per respirare, lo desidera come fosse la vita stessa.
MASTER AND COMMANDER: THE FAR SIDE OF THE WORLD, 2003.Maturin invece è uno scienziato, un esploratore, un uomo che vive per la conoscenza, che si nutre di curiosità, che “caccia” la diversità che in Natura dilaga. Non è un caso che la sceneggiatura conduca la fregata inglese dal Brasile alle Galapagos, dopo aver doppiato la furente Capo Horn: l’arcipelago del Pacifico è infatti il simbolo dell’evoluzionismo sancito da Charles Darwin pochi anni dopo le vicende narrate del film, e Maturin è in effetti una sorta di Darwin ante litteram, per quanto affondi le sue ipotesi sull’opera di dio e non invece sull’evoluzione delle specie animali e vegetali per selezione naturale.

MASTER AND COMMANDER: THE FAR SIDE OF THE WORLD, 2003.

I due amici condividono la passione per la musica e intrecciano i propri strumenti ogni sera, ma non riescono a toccarsi fin nel profondo, a comprendere ognuno cosa muova l’altro, intimamente.

Essi vivono

Essi vivono (e  quando scrivo “Essi vivono” non riesco a non pensare al cinema degli anni 87 e 88, a cartoni ricolmi di occhiali da sole neri e quindi a John Carpenter) -dicevo- essi vivono sulla base di criteri opposti, ma all’apice del dramma giungono a comprendersi reciprocamente, e persino a capire e carpire qualcosa dell’altro: Aubrey trarrà spunto dall’arte di camuffarsi di un insetto per impostare una strategia offensiva, mentre Maturin parteciperà attivamente all’arrembaggio finale.

Essi vivono (non resisto e non posso tralasciare che quando scrivo “Essi vivono” non riesco a non pensare al cinema degli anni 87 e 88, a cartoni ricolmi di occhiali da sole neri e quindi a John Carpenter) -dicevo- essi vivono sulla base di criteri opposti, ma all'apice del dramma giungono a comprendersi reciprocamente, e persino a capire e carpire qualcosa dell'altro: Aubrey trarrà spunto dall'arte di camuffarsi di un insetto per impostare una strategia offensiva, mentre Maturin parteciperà attivamente all'arrembaggio finale.Se riflettiamo un solo istante sulla follia che la guerra comporta, sullo spreco di tempo, risorse, energie utilizzati per giocare alla guerra, per escogitare marchingegni e strategie di morte, per porre in essere missioni, operazioni, equipaggi ed equipaggiamenti, possiamo comprendere con un discreto margine di approssimazione il retaggio di barbarie e stupidità che il genere umano eredita vita natural durante dalla sua stessa natura.

Galapagos

L’uomo a un certo punto della sua storia evolve in modo imprevedibile, un modo che non gli consente più di vedere la bellezza da cui è circondato; rifiuta di vivere in armonia con la Natura, ma anzi la rigetta e sfrutta e calpesta senza indugio, finchè il disamore e la mancanza di devozione nei confronti dell’ecosistema che gli ha offerto l’opportunità di essere divengono fattori genetici: l’uomo, il piccolo e misero uomo non “sente” più il legame indissolubile fra sé e la vita tutto attorno a sé, fino a smarrire il senso della sua stessa specie; si illude di essere il padrone del mondo che abita, e divide, distrugge, deturpa, si moltiplica a dismisura e diviene virale e pone confini che esistono solo nella sua mente, e inventa guerre per proteggere quei confini od estenderli a discapito di altri, per sfruttare selvaggiamente ogni risorsa disponibile, coinvolgendo nelle sue devastazioni tutto ciò che vive, alterando equilibri primordiali, senza giustificazioni di sorta.

L'isola dei rifiuti

Mi chiedo ogni giorno come ciò sia potuto accadere. Avidità e idiozia guidano i comportamenti umani in modo non arginabile. Abbiamo tramutato l’Eden in un’enorme discarica, viviamo in mezzo ai gas e alle macerie di una società purulenta, e per il piacere di un istante siamo pronti a sacrificare tutto, anche il futuro di chi verrà dopo di noi.

Forse -come scrisse Camus- “l’uomo è l’unica creatura che rifiuti d’essere ciò che è”: e forse questa eterna ribellione contro la bellezza, contro il pianeta, contro se stesso definisce l’uomo, la sua indole, il suo percorso, il suo scontato epilogo.

Gunter uber alles

13 lunedì Apr 2015

Posted by osteriacinematografo in Grass, Gunter, Pensieri, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole, Pensieri

Gunter Grass

Osteriacinematografo rende omaggio a Gunter Grass, padre di quel “Tamburo di latta” che sconquassò la vita dell’Oste tanto quanto gli acuti di Oskar Mazerath -leggendario treenne paranoide che impedì al proprio corpo di crescere- sconquassarono i vetri degli edifici di una Danzica sempre sognata. Che la Vistola ti porti, egregio Gunter.

“Il tempo non è che il ruscello dove io vado a pesca”

03 venerdì Ott 2014

Posted by osteriacinematografo in Thoreau

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole, Pensieri, Titoli di testa

A volte capita di leggere libri per mesi senza che nulla balzi particolarmente all’occhio, senza che nulla richiami la nostra attenzione sì da superare la consistenza d’un battito d’ali. In tali periodi capita sovente di leggere molto, di alternare le letture più svariate, di perdersi nelle storie più assurde. Il significato di queste opere si realizza nella loro compiutezza, allorquando l’ultima pagina ne sancisca l’epilogo.

In quest’ultimo anno, senza che ne avessi intenzione, sono andato a lungo per mare, solcando tutti gli oceani alla ricerca di avventure, amori, pesci giganti, solitudine, verità, Sé. Un oceano letterario.

Henry David Thoreau

Nel sovrapporsi delle vicende, sono però finito nei boschi di Walden, assieme a Henry D. Thoreau, l’uomo che vi fissa in modo assiduo e penetrante, qui alla vostra sinistra. Ho pressoché terminato la sua “Vita nei boschi”, per quanto conservi l’ultima parte per ovviare a un distacco insopportabile. Ma c’è un capitolo di “Walden”, intitolato “Dove vivevo e perché”, di cui non posso liberarmi.

In particolare, le quattro pagine conclusive di quel dannatissimo capitolo sembrano contenere tutta le risposte di cui un uomo possa necessitare, tanto da non lasciare scampo, tanto da creare dubbio e scompiglio, tanto da risvegliare il dormiente anche nei momenti di perfetta veglia.

Ne riporto qui alcuni passi, nella speranza che chiunque legga queste righe con cura sviluppi il profondo desiderio di accostarsi alle rive del lago di Walden, al limitare del bosco e di una Verità mai così vicina.

“La falsità e l’inganno vengono creduti le verità più sincere, mentre la realtà effettiva è presa per falsa. Se gli uomini osservassero continuamente solo la realtà e non si lasciassero ingannare, la vita sarebbe simile a un racconto di fate, agli intrattenimenti delle Mille e Una Notte”.

“Chiudendo gli occhi e sonnecchiando e lasciandoci ingannare dalle apparenze, gli uomini stabiliscono e confermano dovunque la loro vita quotidiana di routine e abitudine, che è tuttora fondata su basi puramente illusorie“.

“Gli uomini credono che la verità sia remota, ai confini del sistema solare, dopo la stella più lontana, prima di Adamo e dopo l’ultimo uomo. Nell’eternità c’è effettivamente qualche cosa di vero e sublime. Ma tutti questi tempi, luoghi e condizioni, esistono ora equi. Dio stesso culmina nel momento presente, e non sarà mai più divino, nel corso di tutti i secoli”.

“Morte o vita che sia, desideriamo soltanto la realtà. 

Se davvero stiamo morendo, udiamoci il rantolo nella gola e sentiamo il gelo alle estremità;

se invece siamo vivi, diamoci da fare.

Il tempo non è che il ruscello dove io vado a pesca.

Vi bevo; ma mentre bevo ne scorgo il fondo sabbioso e vedo come sia poco profondo.

La sua corrente sottile scorre via, ma l’eternità resta.

Vorrei bere profondamente, e pescare nel cielo, il cui fondo è ciottolato di stelle. Non posso contarne nessuna.

Ignoro la prima lettera dell’alfabeto.

Ho sempre rimpianto di non essere saggio come il giorno che venni alla luce.

L’intelletto è un fenditore, esso discerne e scava la sua via nel segreto delle cose.

Io non desidero lavorare con le mani più del necessario.

La mia testa è mani e piedi. Sento che tutte le mie migliori facoltà vi sono concentrate.

L’istinto mi dice che la testa è un organo di escavazione, come per alcune creature il muso e le zampe,

e con essa vorrei scavare la mia strada tra queste colline.

Penso che la più ricca vena sia in qualche luogo qua attorno;

così io giudico per mezzo della bacchetta fatata e dei leggeri vapori che sorgono;

e comincerò a scavare proprio qui”.

Le foreste di Walden si infittiscono in Singolar Tenzone

Robin Williams, un Capitano vero.

12 martedì Ago 2014

Posted by osteriacinematografo in film, immagini, Robin Williams, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Pensieri

Cronache e Storie d’Osteria

Non credo alle mille forme di aldilà che sono state inventate, modellate, dipinte, descritte nel corso della storia dell’umanità, spesso per creare aspettative di riscatto o per concedere una speranza a chi si lascia vivere fino al punto di trasformare l’esistenza in una sala d’attesa.

Credo invece che paradiso e inferno (o che dir si voglia) siano dimensioni estremamente terrene, ma non fisiche: abitano i nostri pensieri, calzano e incalzano ogni istante della nostra vita, e rispondono al nostro modo di essere, tormentando fino a dilaniare lungo la via dell’annichilimento, o sollevando fino a riprodurre forme sublimi d’estasi.

 Per puro caso, in questo istante, mi è balzato in mente “Al di là dei sogni”, nemmeno a farlo apposta.

Robin WilliamsCredo a una strana sorta di coscienza unificata, un legame ancestrale e imprescindibile che unisce tutte le forme di vita. Credo che si viva per lasciare qualcosa agli altri, e credo fermamente che se si centra questo bersaglio si possa riuscire a schivare la morte. E così si continua a vivere nelle parole, nei pensieri e nei ricordi di quanti siano stati anche solo “sfiorati” dal carisma e dall’amore degli illuminati che abbiano compreso il vero significato di questo nostro intricato e mirabolante percorso.

E cosa siamo noi se non ciò che pensiamo?

Dare agli altri, darsi agli altri, essere se stessi, regalare o comunque concedere emozioni di qualsiasi tipo, questi sono gli obiettivi per cui vale la pena vivere, queste sono le forme di grazia cui dovremmo essere devoti.

 Pochi artisti hanno concesso tanto quanto è riuscito a fare Robin Williams nel corso della sua vita: sono innumerevoli le opere cinematografiche in cui la sua umanità dirompente è stata lasciata libera di mostrarsi, senza limitazioni o formalismi. Sono talmente tante da impedire a Robin di morire, da sollevarlo da tale incombenza, da consegnarlo e consacrarlo alla sfera dell’immaginazione collettiva, dove tutto vive, dove ogni cosa è possibile.

 Ho deciso –caro Robin- di non elaborare in alcun modo queste mie parole, di scriverle di getto, per rispettare quella tua dirompente spontaneità che trascendeva ruoli e copioni. Sei stato davvero un buon amico, dai tempi di “Mork & Mindy” in poi, e mi hai fatto ridere, sognare, commuovere. Ho vissuto le tue interpretazioni come una grande possibilità, come un’ancora di salvezza contro il cinismo che caratterizza l’uomo moderno, come una stradina alternativa da percorrere per rileggere la vita a modo mio, oltre che per evitare la statale quando vado al mare.

 Tu, caro Robin, sei un artista eccelso, un personaggio straordinario, nel vero senso del termine, si evince dai tuoi occhi, dall’intensità di ciò che si portano dietro.

Robin Williams interpreta Patch Adams

 

La sensibilità che in passato ti ha creato delle difficoltà e che forse adesso ti ha ucciso e l’emotività liquida che sgorga da ogni tuo sguardo senza poter essere arginata fanno parte di te in pari misura, e come ho assorbito senza barriere ogni tua performance, non posso fare altro che rispettare le tue scelte odierne, per quanto dolorose.

Non preoccuparti, tutti ti ricordano con profondo amore ed immutata stima. Credo nel presente, e tu ci sei dentro.

Mi rivolgo a te personalmente non a causa di un contraddittorio fanatismo che mi induca a credere che ora tu “sia” da qualche altra parte, ma perché una minuscola spia lampeggiante -nascosta tra le mie intricate concatenazioni elettriche- mi ricorda che tutti siamo uno soltanto, che ogni persona è connessa all’altra in uno strano modo, che persino ogni forma di vita lo è, e che spero che lampeggerai a lungo, e che darai una mano, perché ce n’è grande bisogno, in un’epoca tanto arida ed effimera quanto quella attuale.

 Non ti dimenticherò, finchè l’oblio non mi condurrà all’incoscienza.

Frammenti d’estasi in dormiveglia

11 martedì Giu 2013

Posted by osteriacinematografo in Pensieri

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Cronache e Storie d'Osteria, Pensieri

 Pensieri e Storie d’Osteria

Non sono un amante del mare, per lo meno del mare visto e vissuto dalla spiaggia, delle vicissitudini spesso statiche e monotone cui la spiaggia induce.

Barchetta alla derivaLa dolce e basculante mollezza, la reiterata orizzontalità, l’ozio annebbiato di blandi momenti sovrapposti mi danno spesso l’idea di non vivere realmente, di essere sempre in attesa di qualcosa o di qualcuno che non arriverà mai: in tale inerzia leggo il pericolo di attendere tanto a lungo che nello spazio infinitesimale di un breve intervallo si possa compiere la vita stessa, di ritrovarmi lì a osservarla, la vita, senza la consapevolezza di averla vissuta. Una lenta traversata senza scalo.                               

Eppure la spiaggia, vissuta sotto lo scudo tutelare di un ombrellone, è l’ambiente ideale per perdersi piacevolmente nelle letture più varie, per lo meno in quei giorni in cui il respiro del mare non sia filtrato da schiere di donne e di uomini in rosolatura libera. Le pagine scorrono via e cancellano tutto il resto intorno, la mente vaga dietro l’idea che un altro uomo sembra aver creato ad hoc per quegli istanti, e la sabbia dorata e il frangersi delle onde irraggiano le parole di una luce calda e seducente.

La lettura si tramuta in traslazione.

E così al mare sono spesso rapito dalle parole che un mio simile, sospinto dal desiderio e dall’amore folle d’inventare, ha creato per me. Si, perché la lettura sovente regala l’illusione che certi personaggi stiano lì per te, vivano per te, e così una storia si tramanda, assieme alla sacra scintilla che ha consentito a un autore di forgiare dal nulla un tessuto di vite parallele, con la forza dell’immaginazione e la potenza del linguaggio e delle idee che sgorgano incessantemente dalla fantasia umana. 

Quel tessuto diviene –per così dire- “organico”.

Ma c’è una fase del primo pomeriggio in cui la spiaggia regala una piccola magia: il momento in cui ci si abbandona al dormiveglia. Quando si inizia a perdere coscienza e a vagare nei territori dell’indeterminatezza, si possono verificare le condizioni ideali per compiere un piccolo viaggio sensoriale. In quelle ore rimangono poche persone in spiaggia, e spesso un lieve venticello soffia e scappa in ogni direzione, con il mare a lamentarsi e a mormorare in sottofondo, con una cadenza tanto regolare da divenire ipnotica.

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In quella fase -di norma- i superstiti si abbandonano al sonno o alla conversazione, alla lettura o al semplice relax. Ma quando ci si lascia andare alla cantilena dei flutti e alla leggerezza ammaliante del mare, le voci degli individui tendono a sovrapporsi in modo soffuso e casuale, e le conversazioni che giungono all’orecchio del “dormiente” mutano a seconda di come incrociano il vento, che trasporta voci in successione libera lungo invisibili corridoi aerei.

Si crea così una sorta di mosaico che induce l’ascoltatore a un piacere che accosterei al solletico:  non si coglie il senso di alcuna discussione, ma i tanti puntini che tempestano l’apparato uditivo creano un insieme rassicurante, che muta al minimo mutare del vento e della propria posizione.

Frammenti d’estasi in dormiveglia.

E così una voce di donna, un bisbiglio, le risate di un gruppo di ragazzi, il pianto di un bimbo si mescolano e rimescolano in un cocktail di suoni, dialetti, espressioni che rilassa e culla chi pisola, lasciandolo a mezz’aria fra il sonno e la veglia, nel non-luogo in cui tutto risulta ambiguo e sfocato, là dove s’è posata l’idea di scrivere queste parole, che spiegano la sensazione che ho provato all’incrocio fra il vento, la sabbia e il mare.

Little Tony – 24.000 Ciao

28 martedì Mag 2013

Posted by osteriacinematografo in Pensieri

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Cronache e Storie d'Osteria

Devo essere onesto, perchè l’onestà è necessaria quando si parla dei vivi, ma lo è ancor più quando si parla di chi non c’è più: non conosco più di cinque o sei brani di Little Tony (Antonio Ciacci nella realtà), anche se tutti degni di nota, ma la persona e il personaggio mi hanno sempre ispirato una grande simpatia.

Little Tony

Little Tony

Mio padre lo conosceva e condivideva con lui la passione per le “fuoriserie”:  ricordo vagamente alcuni vecchi racconti su questo stravagante artista, che è rimasto sempre coerente a se stesso e all’icona che aveva creato, ispirata ad alcuni divi del rock’n’roll americano (come Little Richard ad esempio, da cui mutuò anche il nome d’arte). Mio padre vendette un paio di automobili di grossa cilindrata a Little Tony, fra cui una che -sembra- non sterzasse in discesa. Pare che la cosa li divertisse molto all’epoca, ma erano altri tempi, più romantici e spregiudicati. Al giorno d’oggi probabilmente un fatto simile rappresenterebbe uno scandalo.

Ero ancora un ragazzino quando capitò l’occasione di conoscerlo: io e la mia famiglia ci recammo a un pranzo di compleanno, in cui Little Tony e Bobby Solo si esibirono su un palco improvvisato in onore del festeggiato, per trattenersi poi a mangiare col resto dei conviviali. Anche se non erano più star al culmine del successo, i due artisti conservavano un fascino magnetico, il fascino del tempo che non c’è più, delle scelte fatte onestamente e portate avanti senza curarsi delle mode del momento.

Ricordo una foto, una polaroid, in cui venni immortalato in mezzo ai due interpreti, una foto che ho nascosto talmente bene da non sapere più dove. L’istinto però mi dice che a quell’epoca -poco meno di trenta anni or sono- io avessi un ciuffo simile al loro, e spero che il tempo  mi renderà il riscontro effettivo di tal reminiscenza.

E infine il fatto più importante: rammento con chiarezza gli occhi di Little Tony, che brillavano felici mentre cantava i suoi pezzi, i pezzi che amava e ripeteva da anni senza stancarsi, indipendentemente dal fatto che fossimo in pochi ad applaudirli, in quel giorno d’inverno. Bene, quegli occhi non li dimentico, per un motivo molto semplice: erano gli occhi di un uomo buono, e quel bambino che ero, e che in parte sono rimasto, ne è ancora convinto, a distanza di anni.

Ciao Little Tony, 24.000 volte.

Ciao Ray

21 martedì Mag 2013

Posted by osteriacinematografo in Manzarek, Raymond Daniel, Morrison, James Douglas, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria

Cronache e Storie d’Osteria

 

Stamattina, la notizia della scomparsa di Ray Manzarek mi ha provocato un’emozione fortissima, indescrivibile. E’ un dolore paragonabile a quello scaturito dalla perdita di una persona cara, per quanto Ray ha fatto per me, per i miei amici, per milioni di persone in tutto il pianeta.

Ray Manzarek

Correva l’anno 1965 a Los Angeles, quando Ray e Jim Morrison si incontrarono alla UCLA University, decidendo di intraprendere un sodalizio musicale che avrebbe ben presto condotto alla nascita del gruppo musicale dei Doors. Ray e Jim, Jim e Ray, questi due signori hanno fondato The Doors, creando un sogno che io e i miei amici abbiamo sognato in giovanissima età, quando le nostre macchine correvano spensierate attraverso i giorni e le notti di un passato che non se ne va.

The Doors 2

 

 

La voce di Jim e la musica di Ray ci hanno plasmati in modo irreversibile, e continuano a pervadere, venti anni dopo, lo spazio circostante, e a colorare i momenti speciali della nostra vita. I Doors rappresentano in modo fedele la nostra storia di amici, perchè ci sono sempre stati, e ci sono ancora. Jim era l’anima del gruppo, ma Ray era la mente dei Doors.

The Doors in concert

 

 

Manzarek suonava un organetto elettrico, il mitico Vox Continental, con una postura e una partecipazione indimenticabili; per sopperire alla mancanza di un bassista nella band, prese a dettare le linee di basso con un Fender Rhodes Piano Bass: così suonava l’organetto elettrico con la mano destra, e il basso, poggiato sul top del Continental, con la sinistra, regalando quelle sonorità così particolari da contribuire in modo decisivo a rendere celebre e “riconoscibile” ovunque la musica dei Doors.

Jim e Ray

 

Ray fu un grande amico di Jim, anche nei momenti più duri, e nei suoi scritti trapela la malinconica nostalgia per il tempo che condivise con Morrison, quel tempo che non finisce e che attraversa lo spazio, anche adesso, mentre ascolto “The end” , uno dei prodigi musicali che contribuiranno a rendere Jim, Ray, Robby e John immortali.

Grazie Ray, grazie davvero, ricambierò con amore e fedeltà eterni questi tuoi inestimabili doni.

Nonno Dino e il bambino che è in me

03 domenica Feb 2013

Posted by osteriacinematografo in Pensieri, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Titoli di testa

Cronache e Storie d’Osteria

Alcune scene di “Quasi amici” –un film che ho avuto modo di vedere e recensire nel recente passato- mi hanno rammentato nonno Dino, il padre di mia madre.

Quasi amiciMio nonno rimase parzialmente paralizzato in seguito a una trombosi patita sul posto di lavoro, e lo è stato per anni, finchè ha avuto modo e tempo d’essere in questo mondo.

Io non potrò mai sapere che tipo d’uomo fosse prima della malattia, nonostante ne abbia intuito la vitalità nei racconti di famiglia. Io l’ho conosciuto così, e in un certo senso è un peccato, perché mio nonno emanava un’umanità delicata e sensibile, un carattere forte e sereno e un’integrità morale che non appartiene a questo tempo; purtroppo però non era semplice comunicare, perché lui parlava con difficoltà ed io facevo fatica a comprendere il senso delle sue parole.

Nonno Dino fumava di nascosto ed era fortissimo a carte: mi ha insegnato a giocare non concedendomi mai una vittoria facile, come è raro che i nonni facciano coi nipoti.

Durante le festività, nascondeva sempre dei soldi sotto i piatti dei suoi quattro nipoti, per poi godersi la scena a capotavola.

Ma è ora di contestualizzare i miei ricordi e di appropinquarci dolcemente al dunque. Per diversi anni ho trascorso un periodo estivo nel magico incanto della Val di Non -in Trentino- con la famiglia materna. Otto persone e tre generazioni a confronto nella natura incontaminata delle Dolomiti.

I miei cugini erano più posati e cittadini di me e mia sorella: noi due eravamo un tantino più turbolenti e sfrontati, non avevamo vergogna (quasi) di nulla e possedevamo una marcata tendenza alle arti circensi e al cabaret.

Il viaggio nei miei ricordi dolomitici prosegue ne “Il Precipizio”

Rita Levi-Montalcini – Collana di Perle (Libera raccolta d’Osteria)

02 mercoledì Gen 2013

Posted by osteriacinematografo in Pensieri, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria

Rita Levi-Montalcini

Premessa

Rita Levi-MontalciniIl titolo di questo breve articolo è un titolo inventato, un titolo d’osteria.  Non so se la D.ssa Levi-Montalcini fosse avvezza a indossare gingilli simili, ma non è un fatto determinante in questa sede. Le perle rappresentano infatti le sfavillanti gemme che la celebre scienziata torinese ha lasciato in eredità alle donne e agli uomini che ne sapranno cogliere l’essenza. In questi giorni mi è capitato di rileggere alcuni brani tratti dalle sue dichiarazioni d’ogni tempo, ed è stata un’esperienza illuminante, che mi ha indotto a raccogliere le perle di Rita Levi-Montalcini in una collana di mio gradimento.

Sono una persona adulta, ma ancora più prossima e aderente alla gioventù che alla vecchiaia, sia per un dato di fatto meramente anagrafico sia per motivi che riguardano il contesto sociale in cui vivo e sono cresciuto, fin troppo propenso a far maturare tardivamente i suoi prodotti tipici. Eppure, dopo aver letto con attenzione e cura le parole di Rita Levi-Montalcini, comprendo di essere molto più avvinto e affascinato  dal suo pensiero che non da quello delle generazioni più vicine alla mia.

Rita Levi-Montalcini

Il suo è un messaggio carico di preoccupazioni, di perplessità, ma anche di speranza e positività, di significati protesi a trasmettere ai giovani il suo desiderio di conoscenza, la sua ingordigia intellettuale, un messaggio che sia monito e stimolo al tempo stesso, un invito a non temere nulla , a pensare con la propria testa, a diffidare del mare di superficialità che la modernità propina a iosa ai suoi adepti, un invito all’altruismo e alla solidarietà, all’abbandono d’ogni forma d’individualismo.

Per molti versi vedo il mondo come lei lo vedeva, lo sento come lei lo sentiva: semplicemente, e senza alcuna presunzione, condivido molti suoi punti di vista.

Rita Levi Montalcini

 

 

Queste mie righe sono quindi un atto di doveroso rispetto in memoria di una mente eccelsa e lungimirante.Sono stato sempre curioso e bramoso di leggere, capire, vedere, conoscere, vivere. Le sue parole incentivano i miei desideri in misura illimitata. E credo di aver capito che ne sarebbe felice, se solo potesse.

Va ora in scena un assaggio della Libera Raccolta d’Osteria, intitolata “Collana di Perle di Rita Levi-Montalcini”:

 

-“Credo di avere una curiosa immaginazione che mi permette di vedere quello che altri ignorano.”

-“Le mie simpatie vanno a quelli dotati di una profonda e acuta sensibilità, a quelli che sanno dimenticarsi completamente nella contemplazione dell’universo e/o dedizione agli altri e a quelli non “senza incrinature”, ma che fanno errori e sono vulnerabili… Non è l’assenza di difetti che conta, ma la passione, la generosità, la comprensione e simpatia del prossimo e l’accettazione di noi stessi.”

-“Dovremmo abolire nella nostra testa il concetto di razza. Esistono i razzisti, non le razze. E a me interessano soltanto le persone.”

Rita Levi-Montalcini

-“Oggi, rispetto a ieri, i giovani usufruiscono di una straordinaria ampiezza di informazioni; il prezzo è l’effetto ipnotico esercitato dagli schermi televisivi che li disabituano a ragionare, oltre a derubarli del tempo da dedicare allo studio, allo sport e ai giochi che stimolano la loro capacità creativa. Creano per loro una realtà definita che inibisce la loro capacità di “inventare il mondo” e distrugge il fascino dell’ignoto.”

-“A vent’anni volevo andare in Africa per curare la lebbra. Ci sono andata da vecchia, ma per curare l’analfabetismo, che è molto più grave della lebbra.”

-“Il cervello arcaico ha salvato l’australopiteco, ma porterà l’homo sapiens all’estinzione. La scienza ha messo in mano all’uomo potenti armi di distruzione. La fine è già alla portata.”

-“A cento anni ho perso un po’ la vista, molto l’udito. Alle conferenze non vedo le proiezioni e non sento bene. Ma penso più adesso di quando avevo vent’anni. Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo, io sono la mente.”

Continua a scorrere il filo di perle di Rita Levi-Montalcini in Singolar Tenzone
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