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Gilles Villeneuve – L’Aviateur

11 giovedì Ott 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

Cronache e Storie d’Osteria

 

Alcuni anni fa, Enzo Ferrari disse: “Quando mi guardo indietro, vedo tutti quelli che ho amato. E tra loro vi è anche questo grande uomo, Gilles Villeneuve”. Il Drake amava Gilles come si può amare un figlio.

Capita a tutti di guardarsi indietro, e di fare un bilancio sulle persone: chi è stato più o meno importante, chi ha significato qualcosa, chi ci ha fatto in qualche modo sognare, chi non si può in nessun modo dimenticare.

Gilles è stato uno degli eroi della mia infanzia. Sapete quel modo che hanno i bambini di vedere le cose, quel modo che poi si ricorda proprio come fosse un sogno, con i contorni mal definiti e una forma ellittica, quasi impalpabile?  Io mi ricordo così di Gilles Villeneuve, quasi fosse l’eroe di un film d’avventura, e così a tratti mi sembra vero e a tratti no, per quanto ho mitizzato lui e il suo ricordo, per quanto egli faccia parte da sempre del mio immaginario.

Gilles l’aviatore, o l’acrobata, come lo definì il suo amico e rivale Renè Arnoux, Gilles l’eroe romantico e spericolato, che prese il posto di Niki Lauda in Ferrari sul finire del campionato di formula uno del 1977. Da quanto mi hanno raccontato, pare che “Nicco Lauda” fosse una delle prime parole strane da me proferita, e ciò non mi sorprende, visto che le automobili a casa mia la facevano da padrone.

Ricordo macchine di ogni tipo: una Maserati biturbo blu notte, alcune vecchie Porsche 911 e Ferrari GTO, l’Austin Healey, una fantastica Morgan bianca con una sorta di cinta in pelle sul cofano, una Jaguar E-Type bianca, la mitica Nissan Datsun 240Z (in cui forse sono nato), una Jeep Laredo Golden Eagle, una De Tomaso Pantera, una delle prime Nissan Patrol (cui ero particolarmente affezionato), ricordo una magnifica Renault Alpine blu elettrico, ma soprattutto una Lotus Seven bianca con cui spesso io e mio padre andavamo a divertirci la domenica mattina; all’epoca avevo un casco nero e la divisa originale della Ferrari, ed ero convinto di essere Gilles Villeneuve, anche se al volante non potevo esserci io, per forza di cose.

 

Gilles Villeneuve mi è piaciuto sin dal primo momento: aveva un’aria un po’ svagata, un velo malinconico disteso sugli occhi, e sembrava essere costantemente Altrove; Gilles aveva la sfrontatezza dei Guasconi e un sorriso dolceamaro che conquistava tutti. Ma soprattutto Villeneuve era un pilota eccezionale, uno che arrivava sempre al limite, che non alzava mai il pedale dall’acceleratore: per tutti questi motivi, in poco tempo conquistò l’amore e la passione di tantissimi tifosi, che lo seguivano come un idolo assoluto, nonostante poi non abbia avuto i risultati sportivi che meritava.  Ma, come disse Juan Manuel Fangio di lui: “Gilles Villeneuve non correva per finire la gara. Non correva per i punti. Lui correva per vincere. Era piccolo di statura, ma era un gigante” .

Un personaggio del genere non può passare inosservato, non può lasciare indifferenti, perché in pista era una furia, e finiva ogni gara con la sua Ferrari piuttosto malconcia. Ricordo come fosse ieri la volta in cui riprese a correre dopo aver perso completamente uno pneumatico: proseguì il giro su tre ruote, finchè il cerchione e la sospensione cedettero; Gilles continuò lo stesso a spingere con la Ferrari numero dodici che andava di traverso, arrivando ai box con la parte posteriore della vettura divelta e scintille che sembravano fuochi d’artificio. Per colpa di quell’avventatezza, perse il mondiale, ma conquisto la gente per il suo stile di guida spericolato, per la sua geniale “follia” al volante.

 

E ricordo ancora meglio il suo duello con Arnoux nel Gp di Francia del 1979 (avevo solo quattro anni, quindi forse è uno dei miei primi ricordi in assoluto): Gilles sembrava un tarantolato , e il suo avversario non era da meno (la Renault fra l’altro viveva anni d’oro), e i due si sorpassarono fino a toccarsi più volte, fino a rischiare tutto, con mezzi che non avevano di certo le misure di sicurezza che hanno le auto moderne. Alla fine la spuntò Villeneuve, e quel duello viene ricordato ancora oggi come uno dei più appassionanti della Formula Uno di sempre.

 

Sopraggiunse poi la rivalità col suo compagno di squadra Pironì, e lo smacco di Imola, col sorpasso sleale di Didier, e poi il Gp successivo a Zolder, in Belgio, e la voglia di Gilles di riacciuffare l’antagonista, una voglia matta, incontrollabile, che lo spinge a tentare un giro eccezionale nella qualifiche: la sua Ferrari esce velocissima in curva, ma sulla stessa maledetta curva procede lentamente la March di Jochen Mass; è un attimo, un millesimo di secondo, un’incomprensione, il contatto è inevitabile, la March è un trampolino di lancio per Gilles, che vola con la sua Ferrari che si disintegra, e viene disarcionato, e il suo corpo si libra e volteggia fra le macerie, compiendo movimenti innaturali, per finire poi la sua corsa e la vita stessa a bordo pista.

Gilles muore l’otto maggio 1982. Avevo compiuto 7 anni da tre giorni, e da quel giorno non ho mai avuto dubbi: Gilles Villeneuve, vinse pochi Gran premi e nemmeno un mondiale, ma per me rimarrà per sempre il più grande pilota automobilistico di tutti i tempi; e un eroe nel senso romantico del termine, un eroe indimenticabile, che mi ha insegnato la follia, il coraggio, il desiderio di sognare.

“Non c’è alcun dubbio, Gilles era straordinariamente coraggioso. Era il più gran bastardo contro cui si potesse correre e che io abbia mai conosciuto, ma era assolutamente leale. Un pilota grandissimo” (Keke Rosberg)

 

Arcobaleno turco sulle lande dei Basotho

24 lunedì Set 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

Cronache e Storie d’Osteria

 

Narra una strana storia che, alcuni anni or sono, due inseparabili amiche si trovassero ad Istanbul.  Pare che la Cacciatrice di taglie e Donna Maya vagassero tra le vie di un mercato turco, accecate dai sapori variopinti e dal caos di quel crocevia di spezie.

D’un tratto un refolo improvviso catturò l’attenzione della Cacciatrice, come un solletico, un pizzico, o il sentore di uno starnuto; la giovane donna seguì la brezza con lo sguardo, e quando questa si posò fra le sottili maglie di un banchetto policromo, intravide il luccichio di un foulard dispettoso: il fazzoletto dapprima oscillò con gesto di sfida, e poi sgusciò via, sull’invisibile scia dello zefiro, fra le mani e sul collo dell’ignara fanciulla.

Quell’alchimia di colori, quell’impalpabile velo dell’est, adornò il collo della ragazza negli anni a seguire, destreggiandosi con disinvolta levità fra la borsa di turno e la pelle delicata della Cacciatrice.

Le tinte del rosa, dell’arancio, del violetto, e l’allusione intermittente di filigrane dorate illuminarono il viso di lei e del suo futuro compagno di viaggio al sibilare del vento.

L’Atlantico, Lisbona e Cadiz, Granada e l’Andalusia, Las Alpujarras e la Isla del Viento, il monte Ida e i saliscendi cretesi, le dolomiti e la dorsale appenninica, il Pacifico, San Francisco ed L.A., Las Vegas e la Death Valley, l’infuocato Arizona, le bianche sabbie del New Mexico, Big Fish e lo Utah tutto, l’arcigno Colorado, i canyon profondi e le sconfinate pianure, il tufo e il verde di Scozia, il Paklenica e le sue derive allucinatorie, Pag e le sue disinibite sorelle, i venti gradi sotto lo zero del meridione polacco, e infine il bushveld africano e le sue praterie, l’arida savana, lo Swaziland e il calore della sua gente, l’oceano indiano e la Elephant Coast, fino alle aspre e selvagge alture del Lesotho, dove l’anziana e lo sciamano di una tribù di Basotho stregarono l’oste e la sua compagna con una pozione segreta. 

L’oste bevve l’intruglio che la vecchina gli porse, bevve senza pensare, e nella trance ipnotica la sciarpa volò via, fra rami spogli e fiori rosa, fra vacche marchiate a fuoco e piedi nudi di bambini che tuttora giocano e danzano col velo liso e sforacchiato di quell’oggetto prezioso.

L’amato fazzoletto adesso colora e ritaglia i visi di bimbi che sembrano un sogno, mentre le luci del tramonto si posano distrattamente sulle capanne di quella valle dimenticata. All’oste e alla cacciatrice non sembra vero d’esser stati lì, tanto quel giorno appartiene alla dimensione onirica, ma quella sciarpa vagabonda, così cara ai due, è rimasta in quella terra, forse per sua scelta, e lì si ferma, a raccontare il loro passaggio, la loro presenza, come un filamento ribelle e sfibrato della memoria.

Lord Byron, Villa Diodati, Inland Empire

22 venerdì Giu 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

Cronache e Storie d’Osteria

I Diodati furono un’eminente famiglia di Lucca.

A causa della loro adesione alla riforma protestante, nel sedicesimo secolo furono costretti all’esilio a Ginevra, assieme ad altri intellettuali lucchesi.

La loro residenza svizzera è conosciuta come Villa Diodati.

Nell’aprile del 1816 , il poeta inglese George Gordon Byron, meglio noto come Lord Byron, fu costretto a lasciare l’Inghilterra, a causa degli scandali provocati da una relazione incestuosa prima e da una omosessuale poi. Iniziò a viaggiare per l’Europa, accompagnato da John Polidori, suo medico personale. I due, nello stesso anno, giunsero a Ginevra, dove Lord Byron prese in affitto Villa Diodati. In quel periodo si trovavano a Ginevra anche il poeta Percy Bisshe Shelley, la fidanzata Mary Godwin Wollstonecraft e la sorella di lei, Claire.

Accadde così che l’assortito quintetto si trovasse sovente a trascorrere del tempo insieme a Villa Diodati; durante il soggiorno in questione, Claire rimase incinta di Byron: nacque così Allegra, che venne ben presto lasciata dal padre in un convento romagnolo, dove morì in tenera età.

Ma non è la vicenda che ci interessa in questa sede. Come detto, le succitate persone trascorsero discreti lassi di tempo nella dimora dei Diodati: riempirono quel tempo leggendo romanzi dell’orrore . In una sera di giugno una tempesta li costrinse in casa, e Byron, forse per ovviare alla noia,  propose ai suoi improvvisati coinquilini di scrivere di proprio pugno delle storie surreali.

John Polidori, ispirandosi allo stesso Byron, scrisse una storia che sarà poi intitolata “Il vampiro”, la prima opera letteraria di sempre a narrare delle affascinanti creature della notte: l’invenzione di Polidori  inaugura un genere che verrà poi riprodotto, ripensato, riscritto nelle forme più disparate fino ai giorni nostri, fino a divenire uno dei soggetti più popolari e riletti nella storia della letteratura e del cinema. Il successo de “Il vampiro” sarà immediato, ma mitigato in Inghilterra della falsa notizia che l’autore fosse Byron stesso, all’epoca contestatissimo in patria.

In quella magica e fertile notte, la signorina Mary Godwin Wollstonecraft, appena diciannovenne, ideerà l’altrettanto celebre personaggio di Frankenstein; poco tempo dopo, la medesima signorina sposerà Percy Bisshe Shelley, divenendo Mary Shelley, il nome con cui è giunta fino a noi.

E’ curioso pensare che le figure del vampiro, capostipite di Dracula e Nosferatu, e di Frankenstein vennero partorite nell’arco di poche ore e nello stesso luogo, una villa svizzera abitata dagli esuli di terre diverse in epoche fra loro lontane, un luogo in cui cinque persone condivisero un tempo brevissimo ma significativo.

John Polidori e Mary Shelley non potevano sapere, allora, quanto fossero rilevanti  le loro invenzioni per l’immaginario collettivo del presente e del futuro: le storie che scaturirono da quella notte in tempesta continuano ancora oggi a popolare ogni possibile forma artistica, dopo aver nutrito incessantemente il lato più oscuro e recondito delle fantasie umane.

L’impero della mente, il potere che tutto muove.

Viaggio ad Auschwitz – Parte Terza

13 martedì Mar 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

Cronache e Storie d’Osteria

Riprendiamo da Birkenau, al capolinea dei vagoni della morte. Riporto fedelmente il racconto della graziosa guida polacca.

 

 

 

Chi non era ritenuto abile al lavoro veniva immediatamente condotto alle camere a gas. Qui si cercava di mettere a proprio agio le persone, con una serie di subdoli stratagemmi. Ai prigionieri veniva infatti detto di ricordare il numero identificativo, di spogliarsi completamente, di sistemare con cura gli abiti, di allacciare tra loro le proprie scarpe in modo da non spaiarle; i prigionieri venivano poi forniti di sapone e asciugamani, così da rendere ancor più credibile la messinscena.

 

 

Le stanze delle docce –nel frattempo- venivano riscaldate grazie al calore prodotto dai forni sovrastanti, di modo che la macchina di distruzione di massa potesse sfruttare un ciclo continuo e redditizio. Una volta entrati, i locali venivano sigillati; il passo successivo era spegnere le luci, così da creare panico, iperventilazione e consumo abbondante di ossigeno. Dopo di che era la volta dello Zyklon-B (creato in origine come antiparassitario), un gas che produce rapidamente i suoi effetti mortali a una temperatura di circa 25 gradi, giusto quella prodotta dal calore dei forni. Il gas veniva sparato dall’alto sui corpi di persone ignare: alcuni soffocavano subito, mentre le più tenaci si aggrappavano con le unghie alla vita e ai corpi degli altri, in una disumana scalata che formava colonne d’uomini straziati. In pochi minuti i cadaveri erano pronti per essere cremati: infilati in un montacarichi, venivano bruciati in massa al piano superiore. Il cinico meccanismo teutonico prevedeva infine che la polvere umana, perfino quella, venisse in un certo senso utilizzata e venduta come concime ai contadini polacchi dei dintorni, così da non sprecare nulla.

Un film dell’orrore sceneggiato da menti fuori controllo.

 

 

La guida ci mostra i resti semi-demoliti dei forni, e le targhe commemorative scritte nelle lingue delle tante patrie che hanno perso dei figli in questo luogo immondo. Affondiamo nuovi passi in una neve compatta, oltrepassiamo le recinzioni di filo spinato elettrificato seguendo lo stesso tragitto dei morituri di allora, rendendo onore nella processione silente alla memoria di quanti vennero annientati senza motivo.

 

 

 

 

Quanti avevano una sufficiente forza lavoro per sopravvivere alcuni giorni o poche settimane proseguirono il tour nazista all’interno di Birkenau e vennero alloggiati in un serie di baracconi rossicci, di cui alcuni risultano intatti. Entriamo in uno di essi.Queste gabbie contenevano centinaia di persone in condizioni precarie: le persone dormivano ammassate in terra o in letti di legno, paglia e sporcizia, fra i ratti che si nutrivano di porzioni della loro carne senza che i prigionieri avessero la forza di reagire, a maggior ragione nel prosieguo debilitante della loro permanenza.

 

Ho tentato di immaginare il punto di vista di quanti alloggiarono realmente in tali luoghi. Guardando fuori dalle finestre appannate dal freddo, ho tentato di osservare coi loro occhi, di sentire la paura, di immedesimarmi nella prospettiva claustrofobica di uomini, donne e bambini spaventati, attoniti, smarriti nell’attesa inerme di eventi atroci e inesorabili per sé e per gli altri.

 

 

 

 

Cosa poteva significare essere lì, vivere l’angoscia e la preoccupazione per i familiari di cui s’ignoravano le sorti, osservare quanto avveniva fuori, sistematicamente, nell’indifferenza planetaria? Cosa avranno pensato quelle persone? E riuscivano a guardarsi l’un l’altro, a specchiarsi nella reciprocità degli sguardi  trasfigurati dei propri simili?

 

Qui a Birkeanu i prigionieri vennero costretti ai lavori forzati, stremati, spolpati, supportati soltanto da scarne e inconsistenti brodaglie, finchè non funzionavano più e venivano sostituiti.

 

 

I nazisti li demolirono psicologicamente, privandoli dei loro beni, della libertà, degli affetti, della dignità, della forma umana stessa; e, per fare questo, utilizzarono cinicamente i deportati di origini ebraica più forti fisicamente, costituendo i Sonderkommandos, delle unità speciali che collaborarono con le autorità nazionalsocialiste all’interno dei campi di sterminio, e che , in cambio di alcuni privilegi, interfacciarono l’azione nazista, divenendo delegati di morte e inganno ai danni dei propri fratelli.

 

 

Prima di uscire da Birkenau, la guida ci conduce nelle latrine, che poi sono stalle riadattate. “I prigionieri” –ci racconta- “avevano pochi istanti per le proprie incombenze. In queste latrine putrescenti si accumulavano enormi quantità di escrementi, e penzate che molti ambivano a lavorare qui, in mezzo a odori insopportabili e in condizioni igieniche inesistenti, perché questo era considerato un buon lavoro, dato che non si stava all’addiaccio e non si rischiava di morire. Se questo era un buon lavoro, penzate cosa erano gli altri.”

Lucio Dalla, una Nissan Sanny, ed Amsterdam

02 venerdì Mar 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

Lucio Dalla mi ha dato modo di ricordare che sono cresciuto sulle note e le parole delle sue canzoni. Mi ha ricordato un lungo viaggio fatto idealmente insieme a lui e realmente con la mia famiglia. Erano i primi anni ottanta quando mio padre, mia madre, mia sorella ed io partimmo alla volta di Amsterdam, a bordo di una sgangherata ma affidabile Nissan Sanny 140 y color rosso vino.

 Ho dei ricordi abbastanza confusi e sconnessi, ma rammento le grandi e desolate autostrade tedesche in cui le Porsche di Stoccarda ci sorpassavano a velocità supersonica; lungo quelle highways fatiscenti mi divertii a contare le macchine che riuscivo a contare, segnandole su un block notes apposito: l’obiettivo era di annotare marca e colore; lo facevo sempre nei vari viaggi compiuti in Italia con mio padre, ma all’estero fu molto più difficile, a causa dei modelli diversi che mi capitò di vedere e che complicarono non poco le mie indagini statistiche. Comprendo bene che questa bizzarra attività possa ricondurre al Raymond Babbitt di “Rain man”, ma così era, e così mi piaceva trascorrere il tempo dei tragitti automobilistici più consistenti.

Ricordo poche cose anche di Amsterdam: la prima è un volo improvviso di uccelli neri cui corrispose una reazione di paura mista a stupore; la seconda riguarda un tizio che da tergo ci propose di comprare ogni tipo di droga; la due/bis la fuga che improvvisammo in seguito a tal iniziativa commerciale; la terza concerne la sensazione di decadente squallore che la città e alcuni suoi abitanti malconci mi trasmisero; la quarta una puttana che mi guardò, facendomi strani gesti con la mano destra dalla vetrina in cui lavorava; la quattro/bis mia madre che subito dopo l’indecente proposta mi trascinò via pregandomi di non guardare; la quinta un fantastico negozio di dischi in cui comprammo la musicassetta “Like a virgin” di Madonna e un mangianastri modernissimo (per l’epoca).

Credo infatti che nel viaggio di andata si fosse guastata l’autoradio antidiluviana della Nissan, e così mio padre e mia madre provvidero a dotarci di una colonna sonora improvvisata per il tragitto di ritorno. Quando venne il momento di ripartire alla volta dell’Italia, piazzammo lo stereo in prossimità del lunotto posteriore, e mentre mia sorella dormiva o giocava ai suoi giochi di bambina, io intrapresi la mia breve carriera di disc jockey.

Non ebbi grande scelta: c’era questa cassetta nera e nuovissima di Madonna (c’era soprattutto una fantastica copertina che la vedeva ritratta con una specie di corpetto bianco e aderentissimo), “True blue”, un altro splendido album della cantante italo-americana, e un doppio album di un certo Lucio Dalla, intitolato “Dallamericaruso”: ricordo come fosse ieri queste due cassette bianche, ricoperte da un’etichetta fra l’arancione e il rosso, col marchio della RCA ben visibile.

Iniziai naturalmente da “Like a virgin” che per me rappresentava una novità nonostante fosse antecedente a “True blue”; dopodiché cominciai ad ascoltare con attenzione e interesse Dalla, che normalmente mi annoiava, forse perché mio padre –a casa- lo sparava a tutto volume ogni domenica: il fatto di metter su quella cassetta con le mie mani fu il primo passo di un cammino che mi condusse ad amare quel cantante un po’ matto ed eccessivo ma vero, talmente vero da riprodurre in musica il verso della strada e delle persone che la popolano, senza censurarne mai gli aspetti più sgradevoli o sconvenienti, fregandosene di una certa estetica buonista e delle maschere che la società impone.

Lucio Dalla mi ricorda la parte più esaltante della mia infanzia, mi ricorda gli odori e i sapori di viaggi e tinelli, le follie e le risate di una famiglia di matti e di artisti, in cui la sua voce si è calata alla perfezione, accompagnando inconsapevolmente le strambe e intense dinamiche di una vita che è un film intitolato “Big Fish”.

Viaggio ad Auschwitz – Parte Seconda

24 venerdì Feb 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

La guida di cui non ricordo il nome, di cui forse non ho mai saputo il nome, ci fornisce una serie di informazioni generiche in merito al nostro “piano di volo”. Il campo di concentramento era così suddiviso: il campo di prigionia di Auschwitz era il reparto principale, e fungeva anche da sede amministrativa dell’intero complesso; Birkenau era il campo di sterminio in senso proprio; chiudevano il folle cerchio il campo di lavoro di Monowitz e altri 45 sottocampi costruiti durante l’occupazione tedesca in Polonia.

Indi saliamo su un bus navetta. I soliti viaggiatori italiani, che all’estero amano armarsi di banalità, sghignazzano dicendo: “ma dove ci staranno deportando?Ah ah!”. Non so perché, ma in tutta onestà, forse per una forma di idiozia patriottica e solidale, accenno un sorriso. E’ un sorriso muto, che non si sente e si vede appena, ma c’è, e non posso negarlo adesso, limitandomi a catechizzare un comportamento ingenuo che con quel tenue gesto del viso ho –in un certo senso- appoggiato e condiviso. Comunque, mentre vi parlo di tal fatterello in questione siamo arrivati.

Scendiamo. Birkenau, campo di sterminio. Una scala stretta e consunta ci conduce alla torretta d’ingresso: dall’alto della postazione di vedetta prendiamo visione della vastità della struttura: non si può evitare di pensare che quello è lo stesso punto di vista da cui alcuni vili e cinici nazisti osservarono compiersi “la soluzione finale del problema ebraico”; non si può fare a meno di pensare di essere nello stesso luogo in cui, decine di  anni prima, uomini come me, uomini come tutti noi, controllarono in tempo reale, coi propri occhi e la propria coscienza, che lo sterminio di milioni di persone inermi avvenisse senza intoppi di sorta.

 

Furibonde recinzioni in filo spinato corrono e s’intersecano sotto di noi per centinaia di metri e in ogni direzione. In mezzo alla neve compatta s’intravede la corsa di alcuni binari più o meno paralleli: quelle rotaie terminano nello stesso punto in cui cessarono per sempre le speranze e i sogni di una moltitudine di persone. Lo spettrale panorama propone poi una serie di edifici rossastri in successione, più o meno conservati, più o meno fatiscenti, a costellare come macchie scure la distesa bianca di Birkenau.

 

 

Entriamo nel campo, e la guida assume un contegno rispettoso e un tono sommesso, nonostante la rilevante distanza fra noi e le numerose comitive che si muovono in quello spazio sconfinato. Una serie di pannelli e fotografie interrompe di tanto in tanto un tragitto silenzioso. Più ci si inoltra nel campo, e più si avverte il peso imponderabile dell’orrore: soltanto i respiri affannati delle persone e la voce appena accennata della guida scandiscono un cammino doloroso.

 

 

La gentile signorina ci mostra un vagone originale dell’epoca, ed è subito chiaro il motivo dei decessi che avvenivano durante la deportazione: quei vagoni  non erano che gigantesche stie prive di spiragli, adibite al trasporto di carne da macello. Per assurdo, ho immaginato che fosse quasi un sollievo morire lungo il tragitto, così da scampare all’orrore che attendeva i deportati.

 

 

Ma ecco, mi distraggo un attimo e non mi accorgo che siamo sul punto esatto in cui i prigionieri toccarono uno dietro l’altro il suolo di Birkenau. Proprio qui, la gente, gente vera, scendeva, subendo dopo pochi passi le prime drammatiche cernite. Anziani e malati erano inconsapevolmente in possesso di biglietti di sola andata per la gassificazione. I nazisti usavano separare immediatamente le madri dai figli, per terrorizzare i nuovi arrivati. “A quale madre piacerebbe separarsi dai propri figli, soprattutto in un posto così? Io penzo…nessuna”- sottolinea la nostra guida, e la parola “nessuna” , che chiude la sua frase, risuona come se avesse chiuso a tripla mandata una porta blindata, quasi fosse il portone di una certezza così massiccia da attraversare il tempo dagli anni 40 alla sua coscienza, e dalla sua coscienza alla mia, come sedimenti trasportati dal corso fluttuante della memoria.

 

Ma torniamo a noi. Le camere a gas furono la prima e l’ultima tappa polacca per molti deportati. Vecchi e malati –dicevamo- ma anche donne e bambini, a seconda dell’umore delle isteriche SS naziste. E sembra persino che quanti sopravvivevano a questo “passaggio” preliminare finissero poi col rimpiangere di non aver subito la stessa sorte istantanea, così da evitare le disumane atrocità che rivivranno nel prossimo passo di questa triste cronaca.

Viaggio ad Auschwitz – Parte Prima

16 giovedì Feb 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

16 gennaio 2012

A Cracovia splende il sole. Io e Francesca camminiamo veloci, animati da una sana e inflessibile voracità, come sempre quando abbiamo poco tempo per vedere più cose. Passi e sottopassi si avvicendano  in un percorso ghiacciato e vagamente tetro. Tram azzurri e il blue bus di Morrison sfrecciano fra polacchi affaccendati. Spacci di liquori a ottanta gradi e un negozio di giocattoli spuntano allegri dalla facciate grigie dei palazzoni in successione; un ostello tira l’altro lungo la strada che costeggia la parte centrale della città, che vanta una delle piazze più grandi d’Europa, un’anima blues e un’eccelsa vitalità sotterranea.

Quei locali clandestini in cui ci si accalca, in cui si beve gomito a gomito con il locale tutto, in cui eccellenti e variegate jam sessions musicali si alternano su palchi minuscoli, trasmettono la sensazione di vivere nel passato (Midnight in Krakow), al riparo da una guerra all’arma bianca che fuori impazza e che per contrasto scalda il cuore di chi è dentro.

Ma ecco la stazione, luogo popolato dai polacchi più scontrosi di Polonia, luogo di disinformazione e del “vai per tentativi che prima o poi qualcosa trovi, anche se non voglio sapere cos’è che cerchi”. Scansato l’ostacolo ferroviario, d’un tratto veniamo catapultati in uno strano corridoio di chioschi colorati: sembra d’essere sul posto di confine di un vecchio film di fantascienza, dove persone e merci transitano confusamente, dove t’aspetti di trovare da un momento all’altro un mutante , un cyborg, un lavoro in pelle, o un cacciatore di taglie che controlla i codici a barre di chi passa di lì. L’atmosfera umida e scarsamente illuminata mi ricorda gli esterni di “Blade Runner”, ma con uno sforzo d’immaginazione mi convinco di essere sul Pianeta Tatooine di “Guerre stellari”, ed esattamente nel porto spaziale di Mos Eisley, in cerca dello Ian Solo di turno e di un’astronave che faccia al caso nostro.

Un astro pullman sgangherato e arrugginito pare attenderci in quella stazione fatiscente. Saliamo sul mezzo diretto ad Oswiecim. Il pilota del Millennium Falcon somiglia più a Chewbecca che a Ian Solo: anzichè parlare emana grugniti gutturali, non ride mai, ha un broncio bronzeo e stampato. Ma Ciube è tagliato per il suo mestiere, e trasmette sicurezza ai passeggeri.

Partiamo dunque. I palazzi diminuiscono, cedono prospettiva al mondo naturale, si diradano fino poi a scomparire al cospetto delle distese rurali polacche. Neve ovunque e i vetri irrimediabilmente appannati dall’incuria e dall’escursione termica con l’esterno fanno filtrare immagini dai contorni incerti, figure oniriche, affusolate e concilianti. Un maestoso zuccherificio che pare un mostro precipita sul paesaggio immacolato. Dai brevi spiragli di nitidezza trapelano le deformi sagome di imponenti manieri diroccati sulle cime di aspre colline. Fermate d’autobus improvvisate nel nulla scivolano lungo la pellicola che scorre dinanzi ai nostri sguardi sonnolenti; nello spazio di pochi tornanti il tempo muta inesorabilmente e il sole lascia il palco a un cielo plumbeo e pesantissimo, che in breve scatena una cascata di neve in fiocchi grandi e corposi. Il cielo opprime con la sua densità, quasi fosse un presagio, e più c’inoltriamo e più la neve s’irrobustisce, aumentando in volume e frequenza.

Siamo ad Oswiecim. Scendiamo dal pullman. Fuori, l’atmosfera è irreale, la neve attutisce ogni suono, voce, pensiero; camminiamo sulla faccia bianca ma oscura di una luna ignota. Il campo di Auschwitz è davanti ai nostri occhi adesso, ma non ce ne rendiamo conto per via della fittissima nevicata. Svolgiamo le pratiche d’ingresso. Una graziosa guida polacca, avvolta da un piumino viola e da uno sguardo malinconico, ci attende in fondo alla hall. Le andiamo incontro.

Storie di navigazione

24 martedì Gen 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

Racconti d’Osteria

A volte, storie di uomini e rotte marittime s’incrociano fra le nere increspature oceaniche.

Come le storie di Donald Crowhurst (1932-1969) e di Bernard Moitessier (1925-1994).
Il primo, commerciante e velista amatoriale inglese, si trovò a un certo punto della sua vita sull’orlo del fallimento. Il secondo, eccelso navigatore e scrittore francese, fu il primo a circumnavigare il globo senza scalo, nel ’65.

I loro destini s’incrociarono nel 1968, in occasione della Golden Globe Race -gara velica senza precedenti- la prima regata intorno al mondo in solitario. I partecipanti salparono da diversi porti inglesi, con l’obiettivo di passare i Tre Capi -Buona Speranza, Capo Leeuwin e Capo Horn- e la (buona) speranza di tornare.

Moitessier partì da Plymouth il 22 agosto 1968 a bordo di Joshua, imbarcazione amica e fidata; Crowhurst iniziò la propria avventura blu dal porto di Teignmouth due mesi dopo, il 31 ottobre 1968, a causa dei ritardi che subì l’allestimento della Teignmouth Electron, con cui salpò nonostante i numerosi avvertimenti circa la non adeguatezza del mezzo.

Un francese mosso dalla innata passione per il mare e un inglese spinto dalla disperazione e dal desiderio di stupire iniziarono così la marcia acquatica verso la gloria.

Moitessier ebbe naturalmente i favori dei pronostici fin dal primo giorno, e dopo aver doppiato i Tre Capi con largo anticipo sugli altri concorrenti, invece di tornare in Europa, si diresse nuovamente a sud, rinunciando alla vittoria e a 5000 sterline, in onore dell’amore per il mare –un valore non monetizzabile– che ne guidava l’istinto: superò per la seconda volta il Capo di Buona Speranza, e raggiunse la Polinesia francese nel giugno del ’69, dopo quasi un anno e circa 37.500 miglia di navigazione.

Crowhurst, dal canto suo, non venne mai accreditato come possibile vincitore della competizione, ed ebbe enormi problemi già nei primi giorni di mare. In realtà non doppiò alcuno dei Capi, rimase sempre entro i confini invisibili dell’Oceano Atlantico, ma la necessità di recuperare i soldi investiti lo spinse a comunicare via radio false comunicazioni alla giuria per mantenere comunque viva la speranza di vincere, nonostante la consapevolezza che sarebbe stato impossibile falsificare i diari di bordo. Il 29 giugno del 1969 -in concomitanza con lo sbarco di Moitessier a Tahiti- terminò le trasmissioni radio, e la sua imbarcazione venne ritrovata dieci giorni dopo al largo delle Bermude. Crowhurst non era a bordo, e il suo corpo non venne mai ritrovato. A quanto pare si suicidò, accecato dall’ennesimo fallimento e da una smisurata ambizione. Ma siamo nel campo delle ipotesi.

La regata venne poi vinta da Robin Knox-Johnston.

Ecco come le storie di due uomini si possono intersecare, sovrapporre quasi, ai confini del mondo.
Due tipi umani ben diversi, che si sono imbarcati nel medesimo viaggio con spiriti diametralmente opposti. Crowhurst muore nell’affannoso tentativo di un’impresa impossibile per un velista dilettante, forse a causa dell’ossessione del premio e del denaro, che tolse lucidità a una mente già indebolita e disorientata dal forzato isolamento. Lo stesso denaro a cui Moitissier rinuncia, quel denaro che il francese ignora in favore della libertà che gli si prospetta innanzi, una libertà fatta di acqua e cielo e solitudine.

Il mare che inghiotte, ingloba e seppellisce, e non sempre rende indietro.
Il mare mostro e il mare bambino.
Il senso romantico della scoperta in assenza di supporto tecnologico.
L’inaffidabilità della navigazione, senza sapere il dove e il quando.
E claustrofobici spazi a disposizione.
E trimarani erranti in balia degli elementi.
La voglia di vincere e il desiderio di scappare fluttuano nel barcamenarsi ondivago.
Varie personalità e un solo uomo oscillano e si avvicendano al timone.
E c’è chi cerca Dio. E chi trova se stesso.

Fabbrica di nuvole

19 giovedì Gen 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

 

Tempo fa mi trovavo nei pressi di Page, angusta cittadina al confine fra Arizona e Utah. Ero a bordo di una jeep indiana diretta all’Antelope Canyon, luogo sacro dei nativi d’America.

Tutto intorno un deserto di sassi e sabbia a perdita d’occhio, interrotto soltanto da un orrendo opificio grigio, grigio come il fumo che le ciminiere sparavano nel cielo terso e sconfinato degli Stati Uniti. Incuriosito, chiesi all’Indiano Navajo (la cui anima con ogni probabilità è schizzata nella mia) alla guida del mezzo: “What is it?”- ed egli, sorridendo, rispose: “Oh… it makes clouds!”.

In seguito scoprii che quel mostro di cemento genera energia per una vastissima porzione di territorio, e che forse per questo motivo il ragazzo ne accettava con ironia l’ingombrante presenza, quasi fosse il minimo di quanto è stato imposto -nei secoli- a un popolo espropriato progressivamente delle proprie origini e dei propri territori dagli spietati conquistatori europei.

Marty Feldman

18 mercoledì Gen 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

 

Martin Alan Feldman (1934-1982) è stato un grande attore e regista londinese.

Di origini ucraine, si formò e crebbe nel mondo della comicità d’oltremanica.

Il suo aspetto bislacco fu conseguenza dell’azione combinata di un incidente stradale patito in gioventù e di una malattia alla tiroide che lo colpì a 28 anni; lo sfortunato evento fu in realtà la chiave della sua definitiva consacrazione: il suo accentuato strabismo lo trasformò in un’icona, in una maschera inconfondibile. Ebbe grande successo alla radio e in alcuni show televisivi, in cui collaborò con i futuri membri dei Monty Phyton (John Cleese, per citarne uno).  Impossibile dimenticarlo nei panni dell’assistente Igor in “Frankenstein Junior”, che gli diede il meritato riconoscimento internazionale quale indiscusso talento comico.

Morì all’età di 48 anni a Città del Messico, durante la lavorazione di un film, a causa delle complicazioni di un attacco cardiaco. E’ sepolto a Los Angeles, accanto al suo idolo Buster Keaton.

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