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BEETLEJUICE BEETLEJUICE Tutti a bordo del Soul Train

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Il Consiglio dell'Oste

La famiglia Deetz torna a a Winter River per la morte del capofamiglia. Lydia vive ancora a cavallo fra il regno dei vivi e quello dei morti. Nelle sue visioni i componenti dei due mondi si sovrappongono in modo allucinato e distorto. Sua figlia Astrid (una Ortega che “odora” ancora di Mercoledì), che non crede alle storie assurde della madre, si imbatte in un giovane misterioso. La voglia di innamorarsi prevale sull’evidente stranezza delle dinamiche di quegli incontri, e il disincanto rischia di travolgerla. Lydia è costretta a chiedere l’aiuto di Beetlejuice per salvare sua figlia dal regno dei morti. Beetlejuice, che in fondo è il male minore in mezzo a un mondo guasto, chiede in cambio il suo vecchio desiderio: sposare Lydia per tornare fra i vivi.

Nel sottomondo tutto procede nel solito caos di sale d’attesa e procedure allucinanti. Una donna di nome Delores rimette insieme i propri pezzi con uno scopo ben preciso: divorare l’anima del suo amato marito, Beetlejuice in persona. Il demoniaco spiritello -uno stratosferico Michael Keaton- è l’istrione indiscusso del regno dei defunti, dove la sua attività di bio-esorcismo prosegue a gonfie vele.

Le varie vicende si intrecciano in una baraonda di fughe ed effetti speciali, e se Delores succhia anime riducendo i morti alla stregua di lattine schiacciate, il Soul train conduce le anime all’oblio al ritmo funky di una danza macabra che pare quella di Thriller, mentre madre e figlia si ritrovano a scappare da un verme della sabbia di Urano in slow motion.

Nell’universo cupo ma godereccio di Tim Burton tutto è possibile, e situazioni che potrebbero comportare conseguenze drammatiche si risolvono poi in modo farsesco, come fosse un gioco, o il frutto della fantasia di un bambino che si dissolve al clic di una luce. E in effetti Burton approccia come un bambino la realtà e la rilettura artistica di essa, gioca il suo gioco liberamente, se ne frega dei canoni cinematografici, e si lascia andare a un’opera che racchiude tutto il suo estro e la sua storia d’artista. Il secondo capitolo di Beetlejuice è un vero e proprio compendio del cinema di Tim Burton, che è un cinema lugubre ma ludico e mai volgare, inaspettatamente spassoso nei numerosi passaggi in cui prende in giro se stesso ma anche tanto cinema noto.

Da sottolineare la prova di Willem Defoe, la cui natura oscilla fra quella in vita di attore di b-movies e quella trapassata di audace detective. La commistione dei due aspetti in un unico personaggio è leggendaria.

Ci sono presunte carenze di sceneggiatura, ma concedo il beneficio del dubbio al Mago Tim, perchè quello che può sembrare una crepa potrebbe essere una scorciatoia canzonatoria, uno svolazzo senza posa, persino una provocazione mirata a irritare chi proprio non riesce a scrollarsi di dosso i soliti canovacci narrativi. Nessuno -nel mondo del cinema, a parte Wes Anderson- ha la capacità di creare mondi e immagini che ha Tim Burton, e per quanto questo film non sia affatto perfetto, mi va bene tutto quanto scaturisca dalla sua mente, che mi ha insegnato a non smarrire mai la voglia di giocare e sognare. Viva Beetlejuice, viva Tim Burton.

Non lasciarmi – Never let me go

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Cronache e Storie d'Osteria, Il Consiglio dell'Oste, Parole

“Sono passate due settimane da quando l’ho perduto…vengo quì e immagino il luogo dove sia raccolto tutto ciò che ho perso fin dagli anni dell’infanzia. Se fosse così, non faccio altro che ripeterlo, forse, in fondo al campo,all’orizzonte, apparirebbe una figura…dapprima minuscola e poi sempre più grande…fino a che non riconoscerei Tommy…Tommy che mi saluta, che mi chiama…ma non voglio che la fantasia prenda il sopravvento, non posso permetterlo Continuo a ripetermi che comunque sono stata fortunata a passare del tempo con lui, quello di cui non sono sicura che le nostre vite siano tanto diverse da quelle delle persone che salviamo…tutti completiamo un ciclo… forse nessuno ha compreso veramente la propria vita, nè sente di aver vissuto abbastanza”

Man on the moon – Milos Forman

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Il Consiglio dell'Oste

Il Consiglio dell’Oste

 

Il film “Man on the moon” (1999) di Milos Forman racconta la storia dello showman Andy Kaufman (1949-1984) in modo calzante e poetico.

Jim Carrey interpreta Andy Kaufman in "Man on the moon"

Jim Carrey interpreta Andy Kaufman in “Man on the moon”

L’enigma della vita di Kaufman diventa enigma nella regia di Forman, che tiene il film sospeso fra riproduzione della realtà e rappresentazione fittizia come il migliore dei prestigiatori, come Kaufman stesso avrebbe forse desiderato:  il gioco di specchi realizzato dal genio di Forman restituisce immagini inafferrabili di Kaufman e dei personaggi che lo affiancarono, tanto che persino la sua morte diventa un fatto opinabile. Un film da non perdere, un personaggio indimenticabile.

"Man on the moon" è un film del 1999 di Milos Forman

“Man on the moon” è un film del 1999 di Milos Forman

La Storia di Andy Kaufman Impazza Oltre “Il Precipizio”, Strapiombo d’Osteria.

 

Ho ucciso Napoleone – “Io sono così”

29 martedì Set 2015

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Il Consiglio dell’Oste

Ho ucciso Napoleone

Donna di ghiaccio. Solo lavoro. Nessun coinvolgimento emotivo. E poi, l’imprevisto. L’onta del licenziamento. Il mondo crolla. Napoleone muore. Tutto cambia. Solidarietà femminile.Vendetta e restaurazione dello status quo ante. Innamoramento e amore. No. Pia illusione. Vite camuffate. Macchinazioni impercettibili. Niente è come sembra. Il nemico è alle porte. Il nemico è ovunque. Il tempo aggiusta le cose (“A tutti i mali ci sono due rimedi: il tempo e il silenzio”). La donna di ghiaccio torna al lavoro. “Eh ma sei fai così te ricacciano!” “Io non faccio così, io sono così”, e la porta si chiude in faccia allo spettatore e al lungo giro che la protagonista si era imposta per ovviare a se stessa. Lo sguardo nuovo e transnazionale di Giorgia Farina. Il suo cinema trascende i confini geografici. I confini non esistono. Ineludibile è soltanto la personalità degli individui.      Un implacabile sciabordio che conserva identità e struttura. Anche nella tempesta.

Solo gli amanti sopravvivono

30 giovedì Ott 2014

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Il Consiglio dell’Oste

“Solo gli amanti sopravvivono” –l’ultimo lavoro di Jim Jarmusch- è un’opera cupa e apocalittica che l’autore colloca in una ipotetica civiltà post-industriale. In questa cornice crepuscolare si compie la danza macabra di Adam e Eve, due vampiri che incarnano l’ultima speranza per salvare l’uomo dal degrado morale e dall’apatia spirituale.

Tilda Swinton

Adam e Eve si amano dalla notte dei tempi, pur vivendo separati, rispettivamente a Detroit e Tangeri, nell’isolamento quasi assoluto, dettato dalla desolazione che fuori dilaga e dal pesante fardello di secoli vissuti che si portano appresso. Le due nobili “creature” trascorrono le giornate nutrendosi di musica, letteratura e (raro) sangue puro, e gli uomini, che hanno smarrito se stessi fino al punto di apparire alla stregua di zombie, non destano più alcun interesse. Sono morti, perché hanno rinunciato ad essere e ad amare.

Only lovers left alive

 

Il film incanta e ammalia come un mantra ipnotico, sin dalle battute iniziali, in cui Jarmusch escogita un movimento lento e circolare per introdurre la narrazione e i protagonisti. Lei glaciale regina delle nevi, lui faustiano Edward mani di forbici. La colonna sonora regala un’atmosfera estatica all’opera, che seduce e concede ancora una volta fascino alla stirpe vampiresca, immortalata stavolta quale depositaria di ogni forma di sapere, a cospetto di un’umanità sbiadita, inaridita e contaminata persino a livello sanguigno.

Adam e Eve rappresentano gli ultimi baluardi dell’intelletto, dell’amore, dell’arte, di tutto quanto l’uomo abbia smarrito nei secoli.
Only lovers left alive

Nel momento in cui il destino li restituisce alla notte, i due vampiri -infiacchiti dalla cattività e disabituati alla caccia- sembrano sul punto di smarrire ogni brama o speranza, ma in extremis l’istinto e l’amore li salvano. Nella notte la loro natura predatrice e selvaggia risorge, deflagrando a ridosso di una coppia di zombie che rappresenta l’altra faccia di quell’amore necessario ad alimentare l’eternità.

 

Only lovers left alive

 

 

Il film di Jarmusch è pervaso da un romanticismo gotico e decadente: l’amore come forza ingovernabile, che tutto muove e a cui tutto tende, è al centro dell’opera e delle possibilità che ha l’uomo per tentare di uscire dalla crisi profonda che ne contraddistingue il presente. Soltanto chi è capace di amare può farcela, “solo gli amanti sopravvivono”.

Philomena

06 giovedì Mar 2014

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Il film di Stephen Frears narra la storia vera di Philomena Lee, una donna irlandese con un passato doloroso, che riemerge in seguito all’incontro rivelatore con il giornalista inglese Martin Sixsmith.

Philomena

 

Sixsmith ha appena perso il suo impiego di consulente governativo presso il partito laburista di Tony Blair ed è in cerca di un’idea per riprendere a lavorare. Incontra per caso la figlia della signora Lee e viene a conoscenza della storia che la donna ha tenuto segreta per anni:  Philomena –di famiglia cattolica- rimase incinta in giovane età, e per ovviare allo scandalo venne rinchiusa nel convento di Roscrea, luogo di segregazione per ragazze madri.

Philomena

 

 

Il cinico e miscredente Sixsmith si avvicina con diffidenza ai modi semplici e genuini di Philomena, ma i particolari di grande interesse legati alla vicenda convinceranno il giornalista ad insistere: in effetti Philomena patì sofferenze terribili a Roscrea, dal parto affrontato a 16 anni in condizioni disumane, ai turni di lavoro massacranti, fino al distacco dal figlio di 3 anni, vissuto improvvisamente e nella totale impotenza.

Philomena

 

 

Sixsmith in un primo momento vede soltanto l’opportunità della grande storia: Phliomena infatti ha trascorso una vita intera nel ricordo –segreto ed estenuante-  di quel giorno del 1955, in cui suo figlio Anthony venne adottato contro la sua volontà da una famiglia ignota. Ma ben presto l’uomo inizierà ad appassionarsi alla vita della signora Lee e scoprirà, indagando sulle suore di Roscrea, che si cela un mistero dietro le adozioni dei bambini e tra le fiamme del rogo che avrebbe cancellato ogni prova documentale dell’accaduto. Le tracce conducono negli Stati Uniti ed è lì che la strana coppia si dirigerà per cercare il figlio perduto di Philomena.

Philomena

 

Judy Dench regala una prova eccelsa, forse la migliore interpretazione femminile della stagione:  l’attrice inglese indossa la maschera disperata ma imperturbabile di Philomena con maestria, equilibrio, e un coinvolgimento emotivo tale da incarnare realmente il dolore di una madre tradita. Steve Coogan (co-autore della sceneggiatura) è uno sparring partner perfetto, grazie a un aplomb dai risvolti comici e ad una compostezza che non cede nemmeno nei momenti di maggior tensione. Fra i due protagonisti si instaura un duetto spassoso e commovente: si parte da posizioni lontanissime, proprie di due tipi umani contrapposti, fino ad arrivare a un punto d’incontro, il punto in cui Sixsmith comprende intimamente il dramma silenzioso e l’umanità prorompente di Philomena.

Philomena

 

Frears realizza un buon lavoro dopo alcune battute a vuoto. La struttura del film è solida e la storia coinvolgente. Da segnalare in particolare l’utilizzo dei flashback che si alternano alla narrazione principale, posando sull’opera una patina nostalgica: i sogni ad occhi aperti di Philomena sulle sorti del figlio si tramutano in divenire nella vita vissuta realmente da Anthony, e così realtà e dimensione onirica si sovrappongono fino a confondersi in una danza lenta ed agrodolce.

 

Il film narra quindi di un figlio strappato a sua madre con violenza inaudita, una violenza generata da una casta ed eterna obbedienza che si traduce drammaticamente in livore e risentimento nei confronti di chi ha ceduto alle tentazioni della carne, di chi ha assaporato l’ebbrezza dell’istinto. Suor Hildegarde, ultima depositaria del segreto di Philomena e di tante altre ragazze madri cresciute senza conoscere i propri figli, è l’incarnazione del male più radicato e profondo, un male capace di occultare la verità e di generare danni irreversibili. E’ una storia irritante e inaccettabile, che andava raccontata, una storia necessaria per fare luce e dare una speranza ad altri figli dispersi.

Il film è tratto dal libro dello stesso Martin Sixsmith, “The lost child of Philomena Lee”.

Un’estate da giganti

12 lunedì Nov 2012

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“Un’estate da giganti” è il secondo lavoro dietro la macchina da presa, dopo “Eldorado”, di Philippe “Bouli” Lanners, artista belga versatile e originale.

Il film narra la storia di Zak e Seth, due fratelli di tredici e quindici anni, e del loro inconsueto ed isolato soggiorno nella casa di campagna del nonno defunto. Annoiati e squattrinati, i due ragazzini trascorrono giornate allo sbando, senza una guida che non sia il loro istinto adolescenziale, tanto vitale quanto impreparato alle cose della vita.

 

Il loro unico contatto familiare è la voce di una madre perennemente lontana, che annuncia e proroga in modo sistematico la propria assenza, nel corso di brevi e rarefatte comunicazioni telefoniche.  Zak e Seth conoscono poi Dany,un ragazzino del luogo che vive il loro stesso stato di abbandono,per via di genitori anziani e di un fratello violento e psichicamente instabile.

L’improvvisato terzetto sviluppa così uno spirito di sopravvivenza sui generis, fatto di piccoli espedienti quotidiani, assecondando in modo ingenuo ma democratico le idee più bizzarre di ciascuno dei componenti, compiendo scelte spesso avventate e inadeguate, al cospetto di adulti insulsi, in cui non si può riporre alcuna fiducia: “i grandi” vengono infatti descritti nel film come persone insensibili e indifferenti, prive di etica e scrupoli, di amore e identità, come titolari di esistenze squallide e asettiche, quasi fossero essi stessi il prodotto dell’abbandono.

I tre ragazzini, che sono i giganti della storia, comprendono in fretta di non avere speranze o prospettive nell’incivile squallore degli uomini, dato che sono gli adulti stessi a schiacciarli e ingannarli, a imporgli angherie d’ogni sorta, ad esasperarli, a costringerli all’emarginazione.

 

I pensieri di Zak, Seth e Dany sono precoci, liquidi, cortisonici, come quando comprendono scientemente di rappresentare una minaccia per l’unica persona che li ha soccorsi e accuditi, una donna che per pochi, immacolati istanti sostituisce ai loro occhi quella figura materna che è così tanto assente nelle loro vite da apparire come una condanna atavica, come un’ineluttabilità ontologica imprescindibile.

 

I piccoli protagonisti del film decidono quindi di vivere allo stato brado nella natura, di mimetizzarsi nel bosco, di seguire il corso del fiume, di immergersi nel mondo naturale, tanto spietato e imprevedibile quanto per lo meno leale.

L’opera di Lanners è contemplativa e si dipana attraverso ritmi lenti e compassati: il regista indugia a lungo e in senso pittorico sul paesaggio, sui particolari del mondo naturale, in cui i tre giovani trovano la giusta dimensione e la necessaria collocazione. E’ un racconto di rottura più che di formazione, e, come è forte il senso di abbandono e di disperazione dei protagonisti, sono altrettanto rilevanti la forza e la libertà dei tre adolescenti, che scelgono con senno una vita selvaggia e incontaminata, lontana dai dettami e dalle imposizioni di una società irrimediabilmente chiusa e inquinata.

I tre ragazzi non hanno bisogno degli adulti, soprattutto di certi adulti, ma di una zattera e dell’acqua, del fiume e del bosco, che dominano il paesaggio a perdita d’occhio:  sul finire dell’opera, Zak, Seth e Dany recidono l’ultimo cordone ombelicale in un gesto definitivo e liberatorio, e la natura li inghiotte, accogliendoli senza celebrazioni o cerimoniali di sorta, quasi a lasciar intendere che sarà lei a crescerli, al di là del bene e del male.

Womb

20 giovedì Set 2012

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Il Consiglio dell'Oste

Il Consiglio dell’Oste

 

“Womb” è il primo lungometraggio in lingua inglese di Benedek Fliegauf, un giovane e talentuoso regista magiaro che ha scelto di trattare il tema della clonazione non dal punto di vista prettamente scientifico, ma da quello della sua potenziale applicabilità alla quotidianità, dell’abuso in cui l’uomo potrebbe incorrere nel caso di libera fruibilità di un simile strumento, e delle conseguenze che potrebbero derivarne.

Il film narra la storia di due ragazzini che s’incontrano per caso in riva al Mare del Nord. Tommy e Rebecca si piacciono nel modo in cui capita ai bambini,e creano d’impulso una sinergia fatta di idee e osservazioni comuni,di giorni trascorsi fra le loro rispettive abitazioni e le spiagge battute dal vento;si scrutano reciprocamente e con garbo,trascorrendo assieme un tempo dolce e intorpidito,nell’armonia di un rapporto autosufficiente che si alimenta con grazia e spontaneità. Ma d’un tratto accade che Rebecca debba partire,costretta a raggiungere la madre al settantaduesimo piano di un palazzone di Tokyo: sono così tanti quei piani nelle fantasie di Tommy,da costituire la reale distanza incolmabile fra lui e la sua giovane amica,quanto e più del Giappone stesso.

Rebecca, prima di partire, s’immerge nell’ultimo bagno caldo a casa del nonno, e quel bagno è una macchina del tempo, perché la bambina di allora riemerge da quella vasca -sotto forma di donna- senza che passi un istante.

 

E così il tempo, che il regista manipola come una fisarmonica, si assottiglia, nonostante siano passati dodici anni, e Rebecca torna, e cerca Tommy, e lo trova quasi senza accorgersene, e subito i due ragazzi si riconoscono, e si sfiorano, e ricominciano la lenta danza del corteggiamento, come se nulla fosse accaduto, come se la prolungata lontananza non fosse altro che un’insulsa e inconsistente parentesi.

E così tutto intorno scompare, e l’ambiente, ostile e squallido a tratti, non esiste, non conta, non c’è al cospetto dell’unione ritrovata dei due amanti.Ma  improvvisamente Tommy muore, travolto da un’auto in corsa. Rebecca sembra impassibile dinanzi al dramma , ma in realtà accarezza un’idea che rasenta la follia, spinta forse dal dolore, forse dal senso di colpa, ma è così ferma e risoluta nel suo proposito di riprodurre l’amore perduto, l’unico amore possibile, da farsi impiantare in grembo il clone di Tommy.

Rebecca partorisce (il cesareo è un indizio più che un dettaglio), allatta e cresce un nuovo Tommy, e ne ripercorre la vita, lo protegge in ogni modo, allontanandolo dalla comunità nel momento in cui trapela il segreto sulla natura del bimbo: la scena si trasferisce così in una cadente e grigia palafitta a due passi dal mare, dove la donna fissa la nuova dimora di una famiglia sui generis, dove i due individui vivono serenamente finchè Tommy diviene adulto e Rebecca non pare più in grado di rispettare il suo status di madre.

 

La vita dei due inizia così a correre su un doppio binario in picchiata, finchè sopraggiunge un’inevitabile e doppia  crisi d’identità, in cui Tommy mostra segnali sempre più evidenti di disorientamento e Rebecca osserva nel dolore e nel silenzio quel ragazzo che cresce e amoreggia con una coetanea, finchè in lei prende corpo una forma ossessiva e impronunciabile di gelosia, fino alla consapevolezza di un amore impossibile, che l’ha spinta forse a sacrificare la vita stessa in luogo di un sogno irrealizzabile, di una ripetizione che va contro il tempo e contro natura, che produce un duplicato di colui che amava, ma non dell’epoca e del contesto in cui il loro amore si era collocato.

I protagonisti smarriscono gradualmente se stessi, fino alla rivelazione che cancella ogni ruolo, ogni identità (“Non so più chi sono io, e non so più chi sei tu”), e l’unica soluzione possibile è la fuga, l’ennesima separazione che ribadisca quanto la morte aveva sancito in passato.

Il linguaggio cinematografico utilizzato da Fliegauf concede poco alle parole e molto all’espressività istintiva e silenziosa degli interpreti, ed  Eva Green, così splendidamente distante dai modelli classici e usuali d’attrice, se la cava in modo egregio, riempiendo ogni angolo dell’opera di sguardi intensi e pregni di significato, tanto da rimanere impressa negli occhi dello spettatore.

“Grazie”- dice infine Edipo a una maliziosa Giocasta, prima di andarsene per sempre, e una luce illumina l’imbrunire, nella fredda e scheletrica sagoma di una catapecchia sul mare.

Take shelter

23 giovedì Ago 2012

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Il Consiglio dell'Oste

Il Consiglio dell’Oste

“Take shelter” , opera seconda del giovane regista americano Jeff Nichols, è ambientato fra le grandi pianure dell’Ohio.  Curtis LaForche è impiegato come capocantiere presso una ditta della zona, e il suo lavoro consente a lui e alla sua famiglia di vivere con serenità, e di affrontare –grazie a una vantaggiosa copertura assicurativa-  le costose cure di cui necessita la figlia Hannah, una bambina affetta da sordità.

Curtis è un uomo responsabile e tranquillo, che vive in funzione di sua moglie Samantha e di sua figlia, finchè il suo equilibrio non viene improvvisamente minato da una serie di incubi terribili, che s’insinuano e si fissano nella sua psiche, fin quasi a divenire reali.

Nella mente di Curtis si instaura così il seme di una paura incontrollabile, la paura della fine sua e dei suoi cari, che germoglia poi sotto forma di allucinazioni apocalittiche, tali da non consentirgli più di vivere in modo normale, e da porlo ai margini di una società civile che bolla come folle quanti non siano ben allineati al sistema che quella follia ingenera.

Progressivamente, Curtis perde il controllo della propria vita, e mentre i segnali nefasti proliferano, egli si concentra su unico obiettivo, la costruzione di un bunker sotterraneo che consenta a lui e alla sua famiglia di salvarsi dall’imminente disastro.

 

L’angoscia si tramuta in qualcosa che ha corpo, una sorta di ossessione per una natura che mostra segnali di imminente disfacimento. Il sentore della fine è ovunque, e labile è la linea di demarcazione lungo cui si sviluppa il balletto fra le intuizioni di Curtis e le percezioni che ne hanno gli altri.

Il protagonista avverte ciò che sarà come un animale in gabbia, e l’inquietudine è dentro e fuori e ovunque, e non ci sono vie di fuga, e tale forma di paura è un’interferenza implacabile, che distorce e involve la mente dell’uomo: Curtis proietta fuori un terrore che cresce e si muove e prende forma, e scivola all’esterno attraverso l’eco di una paura ancestrale che è poi insita come memoria collettiva in ogni individuo, come erbaccia che persiste e prospera nei giardini nell’inconscio.

 

Il bunker diviene dimensione psicologica, in cui si chiude a chiave la paura, un buco nero claustrofobico che risucchia e azzera ogni cosa, che toglie respiro e significato a tutto il resto, che al tempo stesso annichilisce e salva il protagonista.

 

La follia viene riletta come una forma acuta di sensibilità che consente di osservare e sentire la natura senza il filtro della razionalità, di recuperare l’istinto animale, di dilatare le barriere che l’uomo ha posto fra sé e l’ambiente in cui vive, di abbattere in un colpo solo le porte della percezione di Blake, Huxley e Morrison.

 

La sensazione è che affiori un ricordo lontano nel tempo, popolato da una serie di immagini fissate mnemonicamente, un richiamo primordiale che si presenta in modo brusco, mostrando l’antico legame fra uomo e natura, tanto intenso da insidiare e travolgere la mente umana; è un’illuminazione che spaventa e produce l’effetto contrario, che trasforma il rifugio sotterraneo in chiodo fisso da piantare in profondità.

 

Michael Shannon e Jessica Chastain sono credibili e atterriscono nei rispettivi ruoli; la fotografia del film è imponente e squarcia l’orizzonte visivo dello spettatore a tal punto da rappresentare essa stessa la paura e non soltanto un semplice strumento. Gli uccelli del film di Nichols ricordano gli uccelli di Hitchcock nel loro oscuro e inesorabile sciamare; il linguaggio utilizzato da Nichols somiglia a quello di “The tree of life” di Malick, e le due opere hanno un peso specifico simile sotto molti aspetti;  invece, il senso opprimente dell’ineluttabile che agita e terrorizza Curtis in “Take shelter” sembra avere la stessa matrice di quello che consegna a una fredda e distaccata rassegnazione il personaggio della Dunst nel “Melancholia” di von Trier.

Paura dentro e paura fuori, il cielo che incombe, la perdita di lucidità, la coscienza della follia che si risolve nel gesto innocente di Hannah, che materializza e fissa al presente l’inquietudine del protagonista.

Shame

18 mercoledì Lug 2012

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Il Consiglio dell'Oste

Il Consiglio dell’Oste

“Shame”, opera seconda del regista inglese Steve McQueen, è l’impietosa e glaciale rappresentazione cinematografica della vita di Brandon, un controverso single newyorkese: da un lato è un brillante e disinvolto uomo d’affari, dall’altro una persona arida e solitaria, incapace di coinvolgimenti emotivi, dedita al sesso in modo compulsivo e incontrollabile. Brandon conduce un’esistenza asettica e squallida, in cui il sesso viene vissuto e “utilizzato”come valvola di sfogo, come unico linguaggio possibile, come via di fuga da un tempo che diviene schiavitù, come frenesia di colmare un vuoto costante e impossibilità di affrontare affettivamente una relazione. L’uomo riduce ogni cosa all’atto sessuale, atto nel quale inizia e termina ogni suo rapporto con il prossimo (e forse con se stesso).

 

Brandon posa il suo sguardo languido su ogni donna, e, nella “maledizione” che lo condanna, l’impersonale universo femminile cui si rivolge capta inevitabilmente quel suo contorto e irresistibile magnetismo di segno negativo. Le prostitute rappresentano la spezia ideale, che concede di vivere rapidamente e intensamente la carnalità senza il boomerang di un rapporto umano che lui non potrebbe sostenere.

 

 

Egli tollera a stento perfino il torbido rapporto con la sorella (Carey Mulligan), una giovane e fragile donna, il cui bisogno estremo di affettività la spinge a concedersi a uomini cui vorrebbe affidare la vita stessa. Anche lei utilizza il sesso in modo istintivo, ma le sue motivazioni sono opposte rispetto al fratello:  per Sissy, questo tipo di approccio rappresenta uno strumento di accesso facilitato alle persone cui vorrebbe legarsi, in un procedimento illusorio che diviene l’anticamera dell’autolesionismo.

 

Michael Fassbender interpreta magistralmente il protagonista del film, prestando ogni singola piega espressiva del viso e del corpo a un personaggio complicato, fastidioso, irrisolto.

Il sesso, in “Shame”, diventa dolore e assuefazione, impedisce di sentire, amare, corrispondere, costringendo ai gesti più estremi, agli ambienti più infimi, all’evidenza del rischio, alle prove più assurde, a visi sconosciuti e inconoscibili, in una città come New York che tutto permette e nasconde, che non pone limiti di coscienza, che muta ad ogni angolo, che consente di agire senza pause, di non smettere mai, di indossare ogni giorno una nuova maschera senza complicazioni di sorta.

McQueen mostra Brandon e Sissy come le due facce arrugginite della stessa medaglia, che nasconde a fatica i segni di un’usura profonda e remota, legata forse all’infanzia, che s’intravede appena, come un’ombra pallida e indefinibile.

 

Il finale resta sospeso nello sguardo tentennante e metropolitano di Fassbender e in un corpo femminile che vacilla e freme, prima che la vicenda sprofondi nel tetro abisso della solitudine da cui era emerso.

Pollo alle prugne

18 mercoledì Apr 2012

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Il Consiglio dell'Oste

Il Consiglio dell’Oste

La scena si svolge a Teheran, all’imbrunire degli anni cinquanta. Nasser Ali è un violinista di talento, che ha girato il mondo fino all’età di 40 anni, riscuotendo successo in ogni angolo del pianeta. Al presente, Nasser è un marito e un padre distratto, completamente assorto in un passato d’artista che ne assorbe ogni istante. La moglie, esasperata dalla situazione, in un accesso d’ira distrugge il prezioso strumento dell’uomo, donatogli decenni prima dal suo maestro.

Nasser tenta inutilmente di reperire un violino che possa sostituirlo, ma invano. Sua moglie, con quel gesto definitivo, ha distrutto il sogno e la passione di Nasser, privandolo del motivo stesso della vita, tanto che l’uomo decide di lasciarsi morire in una lenta e penosa agonia.

Nella penombra solitaria di una stanza polverosa, Nasser ripercorre la sua vita: emerge così un passato tormentato da un amore negato ed eternamente rimpianto.  Si delinea il dolore di un uomo che non dimenticherà mai Iran, la donna di cui rimarrà innamorato per sempre. Fra sogno e realtà si rivela poi il passato più recente di Nasser, il ritorno a Teheran, il matrimonio imposto da una madre ingombrante, l’indifferenza nei confronti di una moglie mai amata, il rapporto ondivago coi figli, nel fumo denso e ininterrotto che segna la continuità fra sua madre, lui stesso e la figlia (memorabile in tal senso la scena del funerale della madre).

 

E, come per incanto, da quello stesso fumo emerge il futuro dei figli, un futuro che pare ricordo, che si tramuta in memoria visionaria e premonitrice. Mentre l’avvenire iraniano della figlia si rivela tetro e affumicato, quello americano del figlio si delinea come una sorta di farsesco e critico Truman Show. Nell’irreversibile inedia, l’angelo della morte si presenta al limitare della vita di Nasser, battendo insistentemente gli artigli sulla consapevolezza dell’uomo, quasi a segnare gli ultimi istanti di un conto alla rovescia che rappresenta la nera spirale dell’ineluttabile.

 

Dopo Persepolis, Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud si ispirano ancora una volta a una graphic novel della stessa Satrapi, realizzando in tal caso una versione cinematografica e non un semplice adattamento: ne risulta una formula ibrida (forse una fase di passaggio dell’artista iraniana) di estremo interesse, in cui si mescolano cinema e fumetto, realtà e immaginazione, sonno e veglia, passato e futuro.

 

Il film è un racconto onirico di grande impatto visivo, che ricorda Tim Burton in alcuni passaggi, fra sfondi dipinti e humor nero, animazioni improvvise e personaggi stilizzati (Maria de Medeiros somiglia a “La Sposa Cadavere”), il fumo delle sigarette e dell’anima, in omaggio all’Iran e alle sue tradizioni e a un metodo narrativo non lineare, cupo e avvincente.

 

 

Tutto il cast (fra le cui fila spiccano Golshifteh Farahani, Isabella Rossellini e Chiara Mastroianni) si presta in modo calzante a quest’opera così diversa, e in particolare Mathieu Amalric è strepitoso nel ruolo di Nasser Ali: l’attore francese interpreta l’altalena emotiva del protagonista sfoggiando una rara collezione espressiva, che dimostra per l’ennesima volta la crescita del cinema transalpino e dei suoi interpreti.

 

Il violino e Iran rappresentano i motori della vita di Nasser, una vita preziosa come tutte le vite, cui Nasser decide di rinunciare. Quando è troppo tardi (è sempre troppo tardi), Nasser si pente di quella scelta tanto azzardata, ma nel delirio animato del commiato finale sarà un’antica leggenda orientale a mostrargli l’impossibilità di quell’ultima fuga d’amore e musica.

La kryptonite nella borsa

28 mercoledì Mar 2012

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Il Consiglio dell'Oste

Il Consiglio dell’Oste

Napoli, 1973. Il film esplora le vicende domestiche della stravagante famiglia Sansone: Antonio, un marito adultero e distratto; Rosaria, una moglie devota e dolcemente rassegnata a una vita semplice; gli anziani genitori di lei; i tre fratelli della donna, due dei quali –Titina e Salvatore- dediti agli eccessi del mondo hippie, ed uno eternamente impegnato nella preparazione di un esame che non verrà mai; Peppino, un bimbo di nove anni che nasconde uno sguardo curioso e arguto sotto i grandi occhiali dell’epoca; e lo zio Gennaro, strambo personaggio convinto di essere Superman.

 

Due sono gli eventi che rompono la routine familiare: Rosaria scopre i tradimenti del marito e si chiude in se stessa, nel silenzio dei ricordi e delle occasioni perdute, e lo zio Gennaro muore improvvisamente, travolto da un tram. L’improvvisa depressione di Rosaria ne sancisce la temporanea assenza, e scombina in particolare la vita del piccolo Peppino.

 

 

Il bimbo si trova ben presto privo di punti di riferimento, tra il saltuario rapporto con un padre che sostituisce l’affetto paterno con tre malcapitati pulcini, e quello con gli zii Titina e Salvatore, cui sarà affidato per un periodo breve ma sufficiente a inserirlo nel mondo folle e strabiliante dei figli dei fiori, fra camicie tagliatissime e multi colore, pantaloni a zampa e promiscuità sessuale, fra corpi nudi, ottima musica, manifestazioni femministe e feste in cui le droghe impazzano.

 

 

Mentre Rosaria affiderà il proprio dolore al Dottor Matarrese, un affascinante psichiatra, Peppino riuscirà a uscire dalla centrifuga del caos familiare grazie al dialogo segreto che instaura con lo zio morto, unica ancora di salvezza possibile,l’eroe incompreso in cui il bimbo riflette e risolve i propri impacci, tra uno strambo consiglio e un volo sulla splendida Napoli degli anni settanta.

 

 

Ivan Cotroneo, scrittore e sceneggiatore, esordisce alla regia portando in scena “La kryptonite nella borsa”, tratto dal romanzo omonimo, di cui egli stesso è autore. Buone le prove di Luca Zingaretti, Fabrizio Gifuni e  Cristiana Capotondi, calata finalmente in un ruolo più interessante del solito; ottimi il piccolo Luigi Catani nel ruolo di Peppino e Valeria Golino, che interpreta con fascino e sensualità il doppio volto di una donna solare e verace prima, depressa e rabbuiata poi.

 

La forza dell’opera, pur imperfetta, risiede nell’elogio della diversità: è una commedia che affronta in modo leggero e surreale una quotidianità sofferta, capace di utilizzare un linguaggio nuovo rispetto al panorama nazionale di un genere che ripete sempre gli stessi schemi senza mai sorprendere, di sapersi distinguere sia dal punto di vista del metodo cinematografico sia da quello della storia in sé, che privilegia la prospettiva particolare di un bambino che vive in modo complesso una diversità che si tramuta e traduce ben presto in ricchezza.

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