
La famiglia Deetz torna a a Winter River per la morte del capofamiglia. Lydia vive ancora a cavallo fra il regno dei vivi e quello dei morti. Nelle sue visioni i componenti dei due mondi si sovrappongono in modo allucinato e distorto. Sua figlia Astrid (una Ortega che “odora” ancora di Mercoledì), che non crede alle storie assurde della madre, si imbatte in un giovane misterioso. La voglia di innamorarsi prevale sull’evidente stranezza delle dinamiche di quegli incontri, e il disincanto rischia di travolgerla. Lydia è costretta a chiedere l’aiuto di Beetlejuice per salvare sua figlia dal regno dei morti. Beetlejuice, che in fondo è il male minore in mezzo a un mondo guasto, chiede in cambio il suo vecchio desiderio: sposare Lydia per tornare fra i vivi.

Nel sottomondo tutto procede nel solito caos di sale d’attesa e procedure allucinanti. Una donna di nome Delores rimette insieme i propri pezzi con uno scopo ben preciso: divorare l’anima del suo amato marito, Beetlejuice in persona. Il demoniaco spiritello -uno stratosferico Michael Keaton- è l’istrione indiscusso del regno dei defunti, dove la sua attività di bio-esorcismo prosegue a gonfie vele.

Le varie vicende si intrecciano in una baraonda di fughe ed effetti speciali, e se Delores succhia anime riducendo i morti alla stregua di lattine schiacciate, il Soul train conduce le anime all’oblio al ritmo funky di una danza macabra che pare quella di Thriller, mentre madre e figlia si ritrovano a scappare da un verme della sabbia di Urano in slow motion.
Nell’universo cupo ma godereccio di Tim Burton tutto è possibile, e situazioni che potrebbero comportare conseguenze drammatiche si risolvono poi in modo farsesco, come fosse un gioco, o il frutto della fantasia di un bambino che si dissolve al clic di una luce. E in effetti Burton approccia come un bambino la realtà e la rilettura artistica di essa, gioca il suo gioco liberamente, se ne frega dei canoni cinematografici, e si lascia andare a un’opera che racchiude tutto il suo estro e la sua storia d’artista. Il secondo capitolo di Beetlejuice è un vero e proprio compendio del cinema di Tim Burton, che è un cinema lugubre ma ludico e mai volgare, inaspettatamente spassoso nei numerosi passaggi in cui prende in giro se stesso ma anche tanto cinema noto.

Da sottolineare la prova di Willem Defoe, la cui natura oscilla fra quella in vita di attore di b-movies e quella trapassata di audace detective. La commistione dei due aspetti in un unico personaggio è leggendaria.

Ci sono presunte carenze di sceneggiatura, ma concedo il beneficio del dubbio al Mago Tim, perchè quello che può sembrare una crepa potrebbe essere una scorciatoia canzonatoria, uno svolazzo senza posa, persino una provocazione mirata a irritare chi proprio non riesce a scrollarsi di dosso i soliti canovacci narrativi. Nessuno -nel mondo del cinema, a parte Wes Anderson- ha la capacità di creare mondi e immagini che ha Tim Burton, e per quanto questo film non sia affatto perfetto, mi va bene tutto quanto scaturisca dalla sua mente, che mi ha insegnato a non smarrire mai la voglia di giocare e sognare. Viva Beetlejuice, viva Tim Burton.







































