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NAMIBIA FAMILY ADVENTURE DAY 11 – The Elephant Day

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art, Cronache e Storie d'Osteria, letteratura, news

APOLIDE

Sorge un sole magico fra le piccole alture che circondano il Lodge Damaraland. E’ un risveglio morbido, scevro da affanni. Siamo privi della solita lena organizzativa. Osserviamo gli zaini da ricostruire come fossero di chissà chi altro. Non sono ancora le otto e ci trasciniamo mollemente verso il buffet, che somiglia a un miraggio. La cucina propone piatti interessanti, tanto che la colazione si trasforma ben presto in pranzo. In effetti non avremo più fame prima di sera. Sento parlare italiano, e provo d’istinto un terrore vacuo, ma cerco di restare indifferente, imperturbabile, apolide.

Siamo rigenerati, ma Iri oggi ha una marcia in più. Quando si sveglia in queste condizioni diventa incontenibile, trasformandosi in una bomba di energia e ilarità per tutta la famiglia.

Vicky è sempre accanto a noi, e quando scoccano le nove ed è ormai ora di salutarsi, il dispiacere è reciproco. I suoi occhi buoni e luminosi sembrano quelli della Namibia. Li porteremo con noi. Non in senso letterale, naturalmente.

PETRIFIED FOREST

Oggi le nostre tappe sono disseminate lungo la C39, una strada sterrata, ma godibile. Dopo un’ora di marcia arriviamo nei pressi della Petrified Forest. I tronchi fossili che vi sono conservati risalgono a milioni di anni or sono, deposti da canali fluviali che da questo lato del tempo possiamo soltanto immaginare. Non sono molti, ma due di essi misurano fino a quarantacinque metri e hanno mantenuto la foggia originaria, nonostante siano in parte frammentati.

ARIZONA DREAM

Quindici anni fa io e Franci visitammo la Petrified Forest in Arizona. Il sito americano è molto più esteso di quello africano, ma non mi pare ci fossero tronchi fossili di queste dimensioni. Rammento quel luogo più che altro perchè fu la tappa intermedia fra due meraviglie americane: il Canyon de Chelly, sito nel cuore della Riserva Indiana Navajo, uno dei luoghi che più c’è rimasto nel cuore; il Meteor Crater di Wislow, un’enorme depressione nel deserto, il cui cratere fu generato dall’impatto di un asteroide del diametro di cinquanta metri.

Canion de Chelly

Canyon de Chelly

U.S. Petrified Forest

Meteor Crater

ATTRAVERSO LO SPAZIO E IL TEMPO

La Foresta pietrificata di Khorixas rende l’idea della genesi del fenomeno che qui si verificò 280 milioni di anni fa. Lo scioglimento dei ghiacciai che coprivano l’Africa centrale provocò inondazioni immani, che travolsero e trasportarono ogni cosa per centinaia di chilometri, incluse queste grandi conifere ormai estinte.

Quelle acque, ricche di minerali come la silice, sostituirono gradualmente la materia organica delle piante, pietrificandole. Ed oggi possiamo ammirare tronchi di cristalli di quarzo perfettamente conservati, come in un fermo immagine che attraversi lo spazio e il tempo, e trascenda il senso stesso delle cose. E’ in effetti impressionante riflettere sulla trasformazione della materia, sul quarzo che sostituisce la lignina e la cellulosa concedendo che le forme restino tutto sommato inalterate; sull’indefinita vastità delle ere che si sono succedute prima di noi, su quante ancora verranno dopo l’età dell’uomo; su questo tempo possente che pare inafferrabile; su quanto tutto sia infinitamente grande e infinitamente piccolo e perciò impossibile da concepire.

Il tempo è proprio qui davanti ai nostri occhi, allucinante, pietrificato.

WELWITSCHIA MIRABILIS

Qui abbiamo anche l’opportunità di osservare da vicino la Welwitschia Mirabilis, una pianta straordinaria, un organismo talmente antico da essere considerato un fossile vivente. Essa è uno dei simboli della Namibia: è infatti raffigurata nello stemma nazionale, per via della sua longevità e della sua tenace resistenza all’ambiente arido e alle condizioni avverse di un deserto che la bracca e cinge d’assedio da ogni dove. Alcuni esemplari di Welwitschia vivono su questa terra da migliaia di anni, e sono annoverabili fra gli esseri viventi più vecchi al mondo. Le foglie che la caratterizzano si snodano contorte ai lati del tronco tozzo che ne costituisce il cuore. La pianta si nutre grazie a una radice profonda e alla nebbia carica dell’umidità dell’oceano. Un capolavoro di ingegneria naturale.

PARALLELE

La prossima tappa è la vallata di Twyfelfontein. Dopo un breve tratto di C39 svoltiamo a sinistra per la D2612, che si rivela ben presto insidiosa. E’ una strada di terra e pietra, modulata su più livelli paralleli molto stretti, e con lastricati taglienti che impongono ben più di una preoccupazione. Più ci avviciniamo alla meta e più la strada diventa impraticabile. Mi sposto a destra, a sinistra, poi sopra e sotto per trovare la via migliore. Ma non c’è scampo. A un certo punto una jeep del parco mi sorpassa a velocità sconsiderata. Arriviamo a destinazione tirando un sospiro di sollievo.

URI-AIS o TWYFELFONTEIN?

E’ mezzogiorno. Parcheggiamo sotto un telo di stoffa leggera ma efficace e in pochi minuti siamo a spasso con la guida di turno. Andiamo alla scoperta dei dipinti rupestri e dei graffiti dell’età della pietra che hanno reso famoso questo posto. Il nome originario della valle è Uri-Ais (“sorgente che zampilla”). I primi coloni bianchi, non trovando traccia della sorgente citata dai Damara, ribattezzarono il luogo Twyfelfontein (“sorgente incerta”). Spesso le cose hanno nomi tanto semplici quanto significativi. E possono mutare al variare di determinate condizioni. Come nel caso di una fonte d’acqua prosciugata.

LAVAGNA PRIMORDIALE?

Il sole adesso inizia a picchiare forte ma il clima resta secco e gradevole. Le incisioni rupestri di Twyfelfontein sono state realizzate dagli antenati dei San, un popolo di cacciatori-raccoglitori che viveva nella zona. Queste incisioni, che raffigurano animali, figure umane e simboli risalenti a oltre 1000 anni fa, sono considerate fra le più importanti collezioni di arte rupestre in Africa. In certi casi gli animali vengono raffigurati vicino alle proprie impronte, come se si trattasse di una sorta di mappatura delle specie utile a collegare un dato animale alle tracce lasciate sul terreno. Chissà che non servisse a educare i più giovani? E’ una passeggiata molto gradevole, in cui Irene, che si era svegliata con un piglio positivo e travolgente, inizia a dare piccoli segnali di cedimento e follia. Ciò verrà confermato dalle performance attoriali nelle ore successive.

90 KM ORARI CONTRO L’ATTRITO

Tornati al rover, faccio due chiacchiere con un ragazzo del luogo. Vorrei visitare Organ pipes ma mi spiega che la strada peggiora ulteriormente poi. E così rinuncio. Mi chiarisce anche che per ovviare alle lastre che tagliano trasversalmente la carreggiata dovrei procedere a una velocità minima di 90kmh. Mi sembra una follia ma decido di provare a seguire il suo consiglio. La velocità è sostenuta per una strada simile, ma attutisce notevolmente l’attrito col terreno. Occorre fare attenzione in curva, dove il rover derapa allegramente, ma in effetti così è un’altra vita. Resta la paura di bucare, sempre.

Riusciamo a scamparla, e arriviamo sani e salvi al Twyfelfontein Elephant Drives & Campsite. Ho prenotato un’escursione nel deserto la sera prima. Una signora è lì ad attenderci. Nella zona vivono alcune famiglie di elefanti del deserto. Ho letto da qualche parte che avvistarli sia un’esperienza magnifica, e non ci lasciamo sfuggire l’occasione.

Mentre attendiamo l’inizio del tour, incrociamo la famiglia di italiani che avevamo percepito al lodge Damaraland. Hanno appena terminato l’escursione. Ci raccontano che in mattinata hanno bucato in due occasioni; che la prima volta hanno sostituito lo pneumatico e che la seconda hanno dovuto chiamare un gommista locale. Chissà poi dove l’avranno trovato? Stento a credere alle loro parole, e poi rifletto sui rischi che abbiamo corso in quelle strade assurde percorse pochi istanti prima, strade da cui i nostri connazionali (non sono più apolide) si erano peraltro tenuti alla larga. Bucare in Namibia spesso non rappresenta un’opzione.

GLI ELEFANTI DEL DESERTO

Arriva la nostra jeep. Ci piazziamo dietro, ma quattro turisti nord europei niente affatto simpatici chiedono con forza un cambio di posto. Per non mettere in difficoltà il giovane e sorridente autista, veniamo incontro alle loro richieste. D’altronde noi siamo viaggiatori, non banali turisti.

Accanto all’autista c’è un ragazzino di 10 anni al massimo. E’ un bimbo sveglio, che credo dia una mano al driver ad individuare gli animali di cui siamo in cerca. Girovaghiamo in mezzo al deserto entrando e uscendo da piccole alture circondate da arbusti, in cerca del giusto punto di avvistamento. Dopo pochi minuti notiamo i primi esemplari. E’ un gruppo di 4-5 elefanti. Sono a pochi metri da noi, e l’emozione di vedere da vicino e in libertà questi animali meravigliosi è unica.

Per Gim e Iri è la prima volta. Osservo i loro volti prima di perdermi nella contemplazione degli elefanti. Sono fiero dei sacrifici fatti per mostrare ai nostri figli il lato più autentico della natura. Spero conservino a lungo in memoria le immagini di queste creature libere e selvagge.

Gli elefanti sono un po’ infastiditi dalla nostra presenza, per quanto l’autista utilizzi tutte le cautele del caso. Sembrano di dimensioni minori rispetto a quelli avvistati in Sudafrica. Rispettiamo un silenzio sacro per non spaventare o innervosire i pachidermi. Gli giriamo un po’ intorno, senza mai impedir loro il passaggio.

AMALGAMA

Il loro amalgama con l’ambiente appare profondo, anche sotto il profilo cromatico. Li osserviamo ancora un po’ prima di lasciarli andare. Il nostro è un modesto drappello privo di vessilli, al cospetto del passaggio dei Re. Li vediamo allontanarsi come navi maestose sopra un desertoceano, oltre il cui orizzonte svaniscono, fondendosi con la sabbia e il sole.

V8 INTERCEPTOR

A questo punto Mad Max aumenta i giri del V8 Interceptor, segno che ci stiamo spostando in un’altra zona. La caccia entra nel vivo. L’uomo ci spiega che una comunità più grande di elefanti si è spostata altrove. Ne chiede conferma agli abitanti di minuti villaggi che troviamo lungo il percorso. Alcuni ragazzini gli fanno distintamente cenno con la mano di proseguire per la rotta che stiamo seguendo. Siamo circondati da fiumi di sabbia e piccole oasi verdeggianti. Poi il deserto si fa via via più selvaggio e desolato.

UNA GIRAFFA IN SOGNO

D’un tratto avvistiamo una giraffa, elegantissima e imperturbabile. Non sembra vera, come tutto il resto. Ci osserva curiosa, senza perdere compostezza. E’ un animale spettacolare. Sembra scivolare via davanti ai nostri occhi, tanto i suoi passi sono aggraziati e leggeri. Si è alzato il vento e la sabbia si solleva in leggeri mulinelli che danzano in controluce attorno al corpo della giraffa. Le colline perdono consistenza in lontananza. Sembra una magia, un frammento unico in cui il tempo si spezza e tutto tace alla vista di siffatta bellezza.

Nel frattempo il vento ha preso a tirare sempre più forte. E’ un fattore che non abbiamo calcolato. Iniziamo a patire il freddo. La jeep è aperta su tutti i lati e ci prendiamo quello che viene, nonostante il nostro alloggiamento sia più riparato rispetto a quelli degli altri passeggeri.

REGATANDO SULLA SABBIA

A un certo punto la strada inizia a salire e a ridursi in ampiezza. C’è roccia ovunque. La salita s’impenna, finchè scavalliamo e ci troviamo di fronte un panorama che lascia senza fiato. Dinanzi a noi dilaga una valle spettacolare. Sembra di essere in avanscoperta su un pianeta alieno, a bordo di un mezzo rudimentale e futuristico allo stesso tempo. Incrociamo un elefante solitario, che si lascia avvicinare senza problemi.

Mad Max a questo punto pare indeciso, prende una direzione, poi un’altra. Imbocca una pista immaginaria e poi sterza repentinamente. Si consulta a più riprese col socio di scorribande. Non sembra avere le idee chiare sul da farsi, e noi iniziamo a soffrire sempre più il freddo. Ci stringiamo, coprendoci coi foulard e con gli zaini, ma non basta. L’esplorazione del pianeta prosegue implacabile. Non ci sono tracce, e il vento ulula. Andiamo a vela adesso. Regatiamo fra le onde di sabbia dell’ignoto. I marosi ci sollevano in cielo per poi farci planare sul pelo del deserto.

Sono quasi le 16, e inizio a pensare alla strada di ritorno. Stanotte dormiremo nel Kunene, siamo distanti e dobbiamo rifare tutto questo percorso a ritroso, oltre al viaggio fino alla nostra nuova casa. Il sole cala rapidamente in Namibia, e viaggiare di notte non è mai una buona idea da queste parti.

LA SCORTA

Finalmente avvistiamo una parte della famiglia di elefanti che abbiamo cercato a lungo. Sembrano nervosi, e capiamo ben presto perché. Hanno un cucciolo con sè, e lo scortano in modo organizzato, proteggendo con cura il lato “debole” della missione.

LA VARIANTE UMANA

Avverto distintamente la sensazione di rappresentare una minaccia per questi pachidermi, e ripenso ancora una volta al modo in cui ci siamo illusi di uscire dal mondo naturale, di pensare ingenuamente di poter essere altro da esso, di ergerci ad archetipo fra le forme di vita, quando rappresentiamo soltanto una delle innumerevoli varianti dell’esistenza sul pianeta.

Siamo minute ed estemporanee scintille in un incendio che divampa dalla notte dei tempi.

PICCOLI COLPI DI TOSSE

Osserviamo ancora un po’ la famigliola compatta e poi filiamo via. Sarei rimasto a lungo ad osservarli, ma la strada da fare è tanta. Il nostro mezzo inizia a dare qualche segnale di malfunzionamento fra le dune. Piccoli colpi di tosse. Il giovane namibiano scende, da un occhio al motore, controlla il telefono, ma non c’è campo e ripartiamo. Mad Max si dimostra abile e rapido su un terreno totalmente dissestato. Procediamo a grandi passi, subendo anche meno il vento in questa direzione. Risaliamo la vasta conca e torniamo nella parte più guidabile.

PIT STOP

Sono quasi le 17 quando il V8 Interceptor inizia a perdere potenza. Sembra ingolfato. Borbotta, e poi si spegne in mezzo all’ennesimo sconfinato nulla. I nostri eroi riaprono il cofano, armeggiano un attimo e poi chiamano qualcuno. Sembra ci sia un problema con la batteria. Non ci voleva. Per fortuna, dopo un quarto d’ora arriva una macchina. Un tizio scende, attacca i cavi, e torniamo in sella. Il mezzo ora sembra procedere bene. Vedo a pochi km il ranch da cui siamo partiti, osservo il sole calare inesorabilmente. Il fuoristrada borbotta ancora, tira colpi di tosse a ripetizione, sembra sul punto di morire, ma tiene duro e ci conduce esanime a destinazione.

Sono le 17e30. Fuori tempo massimo. Siamo grati ai ragazzi che ci hanno accompagnato. E siamo anche gli unici a ringraziarli per l’impegno profuso con un piccolo extra. Non mi stupisco, visto l’altezzoso distacco degli automi che erano con noi.

CORSA CONTRO LA NOTTE

Sgommiamo via veloci verso nord. La nostra destinazione è nei dintorni di Palmwag, nella regione del Kunene. Per fortuna la C39 e la C43 sono ottime strade. Posso percorrerle a buon ritmo, pigiando sull’acceleratore ma senza mai superare certi limiti. Guidare di notte in Namibia è pericoloso per via della fauna e della visibilità pressochè azzerata. Quindi devo anticiparne le mosse.

Il navigatore impazzisce ma verso le 19 avvistiamo una sorta di sbarramento, in cui due uomini in tenuta militare fanno sostanzialmente da filtro. Gli chiediamo informazioni e il tizio ci spiega che siamo arrivati. Il Palmwag Camp sembra spartano al punto giusto. Qui ho prenotato una notte in tenda per vivere un’esperienza diversa. Ma un upgrade automatico e gratuito implica che dormiremo fra quattro muri anche stanotte. E’ tardi, abbiamo fame e accettiamo l’upgrade.

CAOS CROMATICO CREPUSCOLARE IN ZONA TORRIDA

Ci diamo una ripulita e andiamo verso il ristorante. Ceniamo in una bella terrazza in legno, affacciata sul tramonto del Kunene. Abbiamo davanti un’Africa diversa adesso, più verde e misteriosa. Ci immergiamo nel caos cromatico crepuscolare della zona torrida. In dieci giorni non avevamo mai visto una vegetazione tanto densa. Le palme aggiungono un tocco esotico al contesto: sembra di essere Altrove per l’ennesima volta, rispetto a ieri, rispetto a una settimana fa, rispetto a ogni momento vissuto.

L’unica pecca della terrazza è di essere all’aperto. Non c’è vento, ma il freddo è pungente e si fa un po’ fatica a godersi la cena, anche se il vino supporta quanto meno noi adulti.

“HOW MANY OF YOU KNOW THAT YOU’RE REALLY ALIVE? BULLSHITS!!”

Facciamo due passi e poi ci ritiriamo. Prima di rientrare osservo la chioma di una palma lattea che si staglia nella notte nera, con miriadi di stelle a far festa tutto intorno, lungo le distese interplanetarie.

Quella chioma somiglia a Val Kilmer nei panni di Morrison, quando sale sul tetto di una macchina davanti al Whisky a go-go e grida: “Quanti di voi pensano di essere vivi? Quanti di voi sanno di essere veramente vivi?”

Alzo la mano nell’oscurità, osservo la palma Jim ridere di me, e chiudo a chiave la porta del nostro rifugio, sigillando un’altra giornata di grande valore.

Namibia Family Adventure Day 7 – Capricorn day

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blog, Cronache e Storie d'Osteria, letteratura, mare, Viaggi

Sveglia alle 7e30. Gim ha già le antenne dritte, come un cerbiatto. Iri ha ancora i sogni mezzi aperti, gli occhi liquidi e carichi di visioni notturne. Io e Franci ci muoviamo rapidamente dentro la capanna. Dobbiamo raccogliere le nostre cose, oggi lasciamo Sesriem per avviarci verso la costa atlantica. Il rover piazzato a un passo dalla porta di casa è un toccasana per chi, come noi, fa e disfa bagagli continuamente.

TRAIETTORIE DI VIAGGIO

Le nostre dinamiche di viaggio rappresentano pura follia per tante persone. Per noi è la norma. Facciamo così da prima che i bambini nascessero, abbiamo continuato a farlo quando i bambini avevano pochi mesi, e non abbiamo mai smesso. Non sapremmo impostare un viaggio diversamente, e, dal canto nostro, non riusciamo a capire chi si ferma a lungo in un posto. Il viaggio è una delle rare opportunità che abbiamo per metterci in gioco, per scoprire e inventare il mondo, ogni giorno. Capita di incontrare viaggiatori simili a noi lungo il cammino, di condividere racconti ed esperienze, o di provare a farlo, quasi che un certo approccio al mondo tracci un sentiero comune. Le traiettorie di certi viaggiatori sono destinate a incontrarsi prima o poi, in un dato luogo, momento o circostanza.

LE FORME DEL VENTO

Passiamo in reception, dove salutiamo i gestori o presunti tali e Franci fa notare loro che il vento non ha mai smesso di soffiare. “You’re in the desert”, risponde uno di loro, laconico. E in effetti avremo a che fare col vento anche nei giorni a venire. Non dimenticherò il Desert Quiver Camp: luogo essenziale, caratterizzato da architetture minimali, nate per ridurre al minimo l’attrito del vento. Somiglia a un set, e non mi stupirei se domani smontassero tutto per rimontarlo Altrove. Mangiamo senza risparmiarci al Sossusvlei Lodge, e poi ci mettiamo in cammino.

Oggi dobbiamo percorrere la C13 fino a Solitaire, e a seguire la famigerata C14, una delle strade che la società di noleggio ci ha segnalato il giorno del ritiro del mezzo. Il vento solleva la sabbia in ogni direzione, tanto che i granelli a un certo punto disegnano le forme, la direzione e i ghirigori del vento, gli danno corpo, lo rendono percepibile.

SOLITAIRE

Fra svolazzi e mulinelli aerei arriviamo a Solitaire, un crocicchio fatiscente noto per essere uno degli ultimi avamposti utili a far rifornimento prima della costa e per la McGregor’s Bakery, una botteguccia che sforna torte di mele leggendarie, a quanto si narra. Solitaire sembra l’insediamento di un film western. Uno di quei luoghi a ridosso del nulla, in cui rifornirsi di generi di prima necessità e far riposare i cavalli prima di avviarsi verso l’ignoto.

Lungo la breve lingua di sabbia che l’attraversa sfilano una pompa di benzina, un forno, un piccolo lodge, un negozio di souvenir e generi alimentari. Null’altro. Una girandola segnavento arrugginisce sotto il sole cocente. Qualche relitto automobilistico affonda lentamente nella sabbia: il deserto corrode e ingloba lentamente le lamiere di Cricchetto e di altri mezzi abbandonati. Fuori il vento imperversa, e le ragazze decidono di restare al riparo.

LO SPAZIO MAGICO

Io e Gim facciamo fatica a reggerci in piedi e a camminare. Ci facciamo incartare due porzioni di torta di mele, facciamo un giro nel negozietto adiacente e acquistiamo una specie di maraca per pochi spicci. In Africa ci è capitato di rado di restare da soli, ed è dolce il ricordo di quei pochi minuti con mio figlio a Solitaire, come fosse uno spazio magico, una nicchia mnemonica, la nostra oasi minuta nel tempo oceanico. Corriamo a zigzag verso la macchina, ridendo e derapando a causa del vento che disorienta e destabilizza. E’ un vento carico di follia, un vento infestante, che spazza un paesaggio surreale e stralunato.

TROPICO DEL CAPRICORNO

Riprendiamo il cammino. Dopo un’oretta superiamo il Tropico del Capricorno, entriamo nella zona torrida. Ogni tanto mi fermo e scendo per fare qualche foto. Verso mezzogiorno vediamo un po’ di gente passeggiare su un piccolo promontorio e decidiamo di scendere per andare a dare un’occhiata.

GLI SPECCHIETTI RETROVISORI DELLA MENTE

E’ il Kuiseb river viewpoint, ma del fiume Kuiseb ovviamente non sembra esserci traccia. E’ un altro corso d’acqua effimero, come questa terra, che sembra esserci e non esserci, che rappresenta un’illusione, un gioco di prestigio, un frammento onirico di spazio tempo, una dimensione che forse abbiamo soltanto sognato, un istante che nasconde un altro istante nuovo di zecca, lo specchio effimero della caducità della vita degli individui al cospetto della vita del cosmo. Vedo questo quando riguardo la Namibia dagli specchietti retrovisori della mente.

Il vento ci trasporta a destra e a manca, si insinua fra noi come fosse vivo, e gioca e spinge e ci agguanta e poi concede giravolte e ricomincia il giro, incessante, senza mollarci mai. La luce è travolgente, la camera del mio smartphone sorride quando inquadro il mondo illuminato dalla nostra stella. Ci arrampichiamo sulle rocce, scattiamo altre foto, facciamo scorta visiva della meraviglia che ci avvolge, e poi torniamo al rover per proseguire il cammino verso il mare.

La strada inizia a diradare verso la pianura, ma non richiede né sforzi né particolari abilità: la C14 è priva di asfalto ma doma, imbrigliata com’è dalle livellatrici e dai rulli stradali che la rendono docile e piacevole al cospetto delle strade ben più insidiose del recente passato. Chissà perché la inseriscono fra le strade a rischio.

DANZE AEREE

Alle 14 entriamo a Walvisbay. Prima di arrivare a destinazione ci fermiamo nella Flamingo lagoon, una baia stracolma di fenicotteri rosa. Li osserviamo nella loro elegante magnificenza. Si nutrono, chiacchierano, battibeccano, si sollevano concedendosi danze aeree prodigiose. Un immenso aquilone rosa che dispiega ali a profusione sopra le rive dell’Atlantico del sud.

APPENDICE INDUSTRIALE

Poi andiamo in città. Ci sistemiamo nel grande appartamento che sarà la nostra casa per due notti, ci rilassiamo un attimo e ripartiamo alla volta di Swakopmund, graziosa cittadina costiera a mezzora di macchina da lì. In effetti Walvisbay non ha alcun fascino, sembra una sorta di appendice industriale di Swakopmund, ma abbiamo scelto questa località per essere più vicini a Sandwich Harbour, la destinazione di domani. Col senno di poi, lo avrei evitato con tutte le forze, ma non è ancora il momento di spiegare perché.

L’ASSALTO

A Swakopmund parcheggiamo il rover nei pressi di un ristorante a picco sul mare. Ci avviamo a piedi verso l’Open Craft Market, un grande spazio in cui i locali vendono pezzi di artigianato. Il posto è carino, ma non siamo preparati all’assalto che avverrà di lì a poco. E’ impossibile fermarsi per più di pochi istanti a osservare la merce, perché i venditori ci assalgono letteralmente, con veemenza. Ci mettono in mano tutto quel che osserviamo o indichiamo, si ostacolano a vicenda, non ci consentono di goderci il momento, un po’ perché siamo quasi gli unici ad aggirarci fra i vari espositori e un po’ perché probabilmente per loro vendere non rappresenta un dettaglio, ma la vita stessa. Individuiamo una cornice di legno guarnita da  sculture filiformi. La acquistiamo e scappiamo via.

HEMINGWAY

Pochi passi e siamo sul mare. La forza dell’acqua è possente, la spiaggia bella e selvaggia. Tanta gente fa il bagno, cosa che stranamente i nostri bambini, che hanno già assaggiato le acque gelide dell’Atlantico del nord, si astengono dal fare. Il sole rosso fuoco incombe e furoreggia, scende verso la linea dell’orizzonte stendendo i propri raggi fra le onde e tutto intorno. E’ un luogo di pace e relax, che sa di Hemingway. Il frusciare e l’infrangersi del mare sono gli unici elementi sonori disponibili. Ci concediamo piaceri semplici. Gelato per i bimbi, flights di birra per mamma e papà.

Poi le animelle trovano il modo di litigare su una parete da arrampicata e per sbollire li trasciniamo verso la fine del molo, senza l’intento di gettarli a mare, ma per ripristinare la pace. E funziona. Osserviamo in silenzio il sole divampare e poi inabissarsi nell’oceano sterminato, in un gesto di pura contemplazione. Al cospetto delle forze immani che governano l’universo il tempo stesso pare fermarsi. Dentro momenti simili riesco a scovare l’unica accezione della parola “sacro” che sono in grado di concepire.

Decidiamo di tornare al parcheggio passando dalla spiaggia.

TERMINATOR

Osservo Franci e i bambini, i miei tesori più preziosi, mentre giocano sul ciglio del mare a rincorrersi con le onde. E’ un’immagine preziosa, che conservo ben stretta in memoria. Quei tre bei ceffi rappresentano il mio motore, il motivo per cui ogni sacrificio diventa accettabile, e ogni cosa sensata. Nell’esaltazione auto-celebrativa del momento, sento la voce di Sarah Connor dire di me: “Il terminator non si sarebbe mai fermato, non li avrebbe mai lasciati, gli sarebbe stato sempre accanto e sarebbe stato pronto a morire per loro”.

A volte penso che il motore delle nostre avventure sia una certa follia. Penso però  che sia una pazzia misurata e sotto controllo, e sento che questa sorta di dissennata leggerezza, mia e di Franci insieme, sarà utile a Gim e Iri in qualche maniera. Rifletto sul peso della responsabilità che ho avvertito nella settimana appena trascorsa, penso alle buche e ai crateri schivati e a quelli ancora da schivare, penso che non vorrei essere da nessun’altra parte, penso ai prossimi viaggi, a quanto ancora i nostri bambini ci seguiranno in giro per il mondo, penso alla vita e a quel ristorante a picco sul mare, che sarebbe il luogo ideale in cui cenare con la mia famiglia.

DAVID LYNCH – UNA STORIA VERA

La famiglia mi rammenta David Lynch, morto due giorni fa, proprio mentre rielaboravo i miei diari africani. Penso a uno dei suoi film, “Una storia vera”, che ieri ho rivisto insieme a Gim e Iri, che hanno ovviamente gradito, e alle parole del buon vecchio Alvin: “Quando i miei figli erano molto piccoli, facevo un gioco con loro. Gli davo un bastoncino, uno ciascuno, e gli chiedevo di spezzarlo. Non era certo un’impresa difficile. Poi gli dicevo di legarli in un mazzetto e di cercare di romperlo, ma non ci riuscivano. Allora io gli dicevo: vedete quel mazzetto? Quella è la famiglia.“

REGGAEMAN

Siamo fortunati. Il Tug è quasi pieno, la terrazza a picco sul mare è stracolma, ma alle 19e30 rimediamo un tavolino perfetto per noi. Mangiamo del buon pesce, ma siamo stanchi e la branda chiama. Alle 21 usciamo. C’è un cantante reggae all’uscita.

Il suo sorriso è raggiante, la sua voce calda. Lo ascoltiamo per un paio di minuti. Lo abbraccio, ci facciamo una foto insieme e lo salutiamo. Mentre guido nella notte verso Walvisbay penso che non sono la stessa persona di sempre. Penso che il me viaggiatore compia azioni e scelte diverse da quelle del me di tutti i giorni. Penso che se avessi incontrato quel reggae man a Jesi non lo avrei degnato di particolari attenzioni. Mi chiedo perché in viaggio sono una persona migliore, o quanto meno più recettiva. Probabilmente, viaggiare mi rende in un certo senso libero di essere chi vorrei essere davvero, sempre.

Nel frattempo ci avviciniamo alla città e gradualmente avvertiamo un odore acre, chimico, che punge occhi e polmoni. Per fortuna in casa l’aria è pulita, ci addormentiamo rapidamente, cullati dai dubbi di sempre e dagli spiragli di bassa marea in cui ci infileremo domani.

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