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NAMIBIA Family Adventure – Day 2

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Kalahari Day

NOTTE INTERCONTINENTALE

La notte in aereo si conferma piuttosto tormentata. Il freddo glaciale e la scarsa possibilità di muovermi diventano presto un problema. Spazio ce ne sarebbe anche, ma il mio e quello di Franci risultano limitati dalla priorità di far riposare i bambini in vista del primo giorno in Namibia, in cui dovranno essere freschi e riposati, onde evitare crisi di sorta. In effetti il primo giorno in terra straniera per il viaggiatore rappresenta sempre un test importante. Ci si deve ambientare in una nuova terra, si deve prendere confidenza con strade e macchina nuove nel modo più rapido e funzionale possibile. I bambini in questa fase devono essere a posto. Avremo modo poi di torturarli a dovere. Magari persino prima del previsto.

L’APPRENDISTA ESPLORATORE

Ulteriori elementi di insonnia aerea mi vengono forniti da un tedesco alto due metri, con un viso grande e squadrato e uno sguardo indagatorio: indossa pesanti scarpe da trekking, dei pantaloni cachi da esploratore e una maglia rosa, come parecchi ragazzi a bordo; è probabilmente a capo di una comitiva, o forse di una setta, e per gran parte del viaggio se ne starà in piedi davanti a me, rivolto verso i ragazzi che siedono alle mie spalle, perlustrando con gli occhi tutta la superficie disponibile, così da poter dissipare i sospetti di cui la sua natura si nutre. La sua posa è curiosa, dato che è costretto a inclinare leggermente il capo per posizionarsi in uno spigolo incastonato fra il bagno e le cappelliere. Non apre mai bocca, non cambia espressione, scruta il perimetro in modo rigoroso e persistente alla ricerca di chissà che cosa, ma a lungo andare s’intravede un che di stolido e inanimato nella sua espressività, tanto da farmi pensare che sia un ripetente trentennale alla disperata ricerca di quel diploma da esploratore che gli sfugge sul campo da una vita. Forse stavolta ce la farà.

HOSEA KUTAKO

Verso le 7 del mattino del 21 giugno atterriamo all’aeroporto Hosea Kutako di Windhoek, che è poco più di una pista in mezzo al deserto. Scesi dall’aereo, il percorso per entrare nel minuto aeroporto ci viene indicato da una decina di operatori dislocati fra l’aereo e l’ingresso. Questa segnaletica umana -non particolarmente sorridente peraltro- sostituisce i bus di collegamento aeroportuale, le insegne luminose, e i percorsi obbligati cui siamo abituati. Nel frattempo un gruppetto di circa 30 uomini vestiti in tuta da lavoro blu e gilet giallo catarifrangente corre accanto a noi intonando un motivetto in stile Full metal Jacket. Credo faccia più o meno così: “Crepi Ho Chi Minh, Viva il corpo dei Marines!!” Che sia un’esercitazione? Troppo causale per avvenire in concomitanza dall’unico atterraggio previsto per qualche ora. Più probabile che i ragazzi si dirigano in modo folkloristico a ritirare i bagagli dei passeggeri. Ma questo lo capirò soltanto poi, quando mi renderò conto di quanto sia scarso il traffico aereo da queste parti.

IL BIGLIETTO D’ORO WONKA

Non appena entrati, ci accolgono il suono delle percussioni e il canto e le grida di un gruppo di donne del luogo. Poi la musica prende forma e si mostra nel trambusto danzante e nel colore fucsia dello sparuto drappello che intrattiene i nuovi arrivati in Namibia. Effettuiamo i controlli piuttosto rapidamente, e anche qui ci chiedono il famigerato certificato di nascita, che però non è in lingua inglese. Indichiamo loro i nomi nostri e dei nostri figli sul magico lasciapassare, un pezzo di carta che per noi vale quanto un biglietto d’oro Wonka. Passiamo oltre e i bagagli stivati tornano rapidamente nella nostra disponibilità. Un altro vantaggio del dover liberare le viscere di un solo aeroplano alla volta.

KEEP CALM

Cerchiamo poi il banco dell’Avis, la compagnia di noleggio scelta in base al solito e unico criterio, il rapporto qualità/prezzo. Il ragazzo con cui effettuiamo le pratiche di ritiro è gentile e sorridente, e non esercita il consueto pressing per rifilarci un upgrade non appena gli spiego che siamo già assicurati oltre misura. Andiamo fuori, dove ci mostrano la macchina, una splendente Toyota Fortuner bianca.

Prima di andare, ci chiedono 15 minuti per mostrarci delle slide in ufficio: ci spiegano che l’85% delle strade è dissestato, che gli incidenti (anche mortali) sono enne volte più frequenti che in Europa, che le strade sono classificate da A a D a seconda dello stato in cui versano, che le probabilità di bucare qui sono tra le più alte al mondo, che non avremo mai rete né possibilità di comunicare se non abbiamo un satellitare (e non abbiamo un satellitare), che ci sono 5 strade dannatamente insidiose (a una rapida occhiata, dovremo farne necessariamente 3, ma me lo tengo per me), che dobbiamo andare piano (ma non troppo), che dovrò fare molta attenzione ai tir che arrivano sparati da dietro.

Insomma ci forniscono solo belle notizie e ci tranquillizzano prima di salire a bordo del nostro nuovo mezzo.

La Fortuner è molto più grande del mezzo con cui mi muovo di norma nella dorata campagna marchigiana. Prendo un attimo mano con la guida a destra (è la mia terza volta), e nell’arco di due rotatorie il rodaggio è completo. Oggi dobbiamo precorrere una strada molto buona, una B, per circa 3 ore e 30. Ho studiato un percorso facile per ammortizzare le fatiche del viaggio. Andremo verso ovest fino a Windhoek, dove potremmo fare un giro a piedi, e poi proseguiremo verso sud, fino a una fattoria nel deserto del Kalahari, dove ho riservato un breve tour esplorativo sulle dune.

LA SVOLTA

Questo approccio soft alla Namibia, studiato per evitare traumi il primo giorno, subisce una battuta d’arresto imprevista dopo pochi km. Premetto che utilizziamo Google map con le mappe off line, scaricate giorni prima sul mio smartphone. In questa declinazione, la app funziona bene comunque, ma è prudente evitare deviazioni consistenti. Ebbene, Francesca nota che il navigatore ci suggerisce un percorso alternativo: si tratta di svoltare prima di Windhoek, per la C23, con un risparmio netto di oltre un’ora sul tempo di percorrenza previsto. Non sono d’accordo, e lo ribadisco con forza due volte, per i motivi già espressi. Ma Franci si impunta, non vuole sentire ragioni, siamo stanchi e un’ora in meno di strada è un vantaggio da sfruttare. Così, quando arriviamo alla svolta e vediamo che la strada è asfaltata, cedo ma con preoccupazione, perché una C può essere insidiosa al battesimo. La strada procede regolare per circa 45 minuti, finchè non deviamo brevemente su una strada di terra per fare rifornimento d’acqua.

Riprendiamo la via principale e d’un tratto la strada diventa di rocciosa. Dapprima è una roccia abbastanza levigata e piatta, poi frastagliata da solchi orizzontali via via più profondi; infine la strada si trasforma in un dilaniante percorso a ostacoli per evitare buche e massi d’ogni tipo. A quel punto il navigatore impazzisce, e di colpo il tempo di percorrenza aumenta fin quasi a raddoppiare. Mi fermo accanto all’unica jeep che incrociamo per km e un uomo mi spiega che ho imboccato una parallela della strada principale (ma questo lo sapevo già), una via più immersa nel Kalahari, che la strada è tutta così, e che ormai è troppo tardi per tornare indietro: devo proseguire il mio calvario fino a destinazione.

FAR WEST

Ora, cari lettori, capirete bene che uno che si è fatto un volo transcontinentale dormendo poco e male, con le magagne patite in aeroporto a Bologna, la scarsa lucidità e gli oltre 30 gradi su una pista dissestata, al volante di un mezzo nuovo con guida a destra e le corsie che in quella strada sono solo un’idea, possa scoppiare improvvisamente come una bomba a orologeria. Ed è proprio ciò che capita, perché sono nervoso e provato e guidare senza preavviso su quella superficie immersa nel nulla mi crea ansia e difficoltà. E continuo a ripetere che l’avevo detto e che non bisogna mai andarsele a cercare.

E così per un’ora scatta una specie di Far west in macchina, un tutti contro tutti che non vede né vincitori né vinti, nè caduti o feriti sul campo di battaglia, finchè finalmente la strada diventa più dolce grazie a uno strato leggero di sabbia e alle buche in graduale diminuzione. Franci continua a scusarsi e a ripetere che ha rovinato la vacanza (non ci riprenderemo più! Il viaggio è rovinato!!), io sono stanchissimo, vedo doppio e non parlo più, i bambini sono frastornati, ma poi superiamo la soglia del dramma quando capiamo che il navigatore si è stabilizzato, e che la nostra fattoria non è più lontana. Il panorama ci regala scorci più colorati e scoscesi, i nodi si allentano per poi sciogliersi definitivamente in prossimità della meta.

IL RANCH

Arriviamo quando sono le 15e30, con un paio d’ore di ritardo, e in un istante tutto è calma e quiete, come al termine di una poderosa tormenta. Ci rassereniamo, facciamo pace (facciamo sempre pace), solleviamo una sbarra ed entriamo nella Janssen Kalahari Guest Farm come fosse il nostro ranch, nel modo che mi è spesso capitato di sognare a bordo di un libro che mi ha spinto a veleggiare al confine fra Montana e Wyoming, o più verosimilmente -in tal caso- fra Arizona e New Mexico. Come ogni struttura che ci ospiterà in terra selvaggia, anche questa è pressochè invisibile ad occhio nudo, tanto è immersa nel paesaggio. La intuiamo gradualmente, fra piccole dune e scalcagnate insegne di legno. Scesi dall’auto possiamo avvertire il silenzio, profondo come il deserto che digrada all’orizzonte. Qui il tempo sembra rallentare improvvisamente, o cambiare direzione e girarti intorno, una sensazione frequente in queste lande desolate. Qui il rapporto fra spazio e tempo è in certo senso tangibile.

IL DELIQUIO

Una solare namibiana ci accoglie alla reception, ci indica il lodge, ci rifornisce di acqua e birra. Sistemiamo le nostre cose, ci rinfreschiamo, e io affondo nelle cavità più profonde dell’incoscienza, fino a perdermi in un sonno che è morte pro tempore, in un modo e in un mondo che mi rammenta la scena in cui uno dei protagonisti di Trainspotting viene inghiottito nel pavimento dopo un brutto viaggio. Il risveglio è altrettanto cinematografico: mezz’ora dopo, ma sembrano due giorni, uno dei miei mi scuote e mi dice: dobbiamo andare! E io mi vedo come Jim a LA nel film di Stone, quando Ray o chi per lui lo scuote dal sonno dicendogli: Jim, così perderai l’aereo! Non c’è nessun aereo, ma una jeep che alle 17 ci condurrà nel Kalahari.

SUL PICK UP

Saliamo sul cassone di uno dei due pick up insieme a una coppia svizzera con cui avremo modo di condividere il nulla assoluto. La luce è calda e avvolgente, e il colore della sabbia attraversa tutte le tonalità del giallo, dell’arancio e del rosso, adeguandosi mutevolmente all’inclinazione dei raggi solari e ai nostri gusti calcistici.

Mister Janssen guida uno dei pick up, noi siamo sull’altro in coda. Facciamo un po’ di strada immersi in un vento piacevole e rigenerante, e di tanto in tanto ci fermiamo all’ombra di un albero per ascoltare i racconti del padrone di casa sulle origini della fattoria, sugli allevamenti e sulle coltivazioni possibili grazie a una fonte sotterranea di acqua dolce che rappresenta la fortuna degli Janssen, una delle tante famiglie tedesche che vive in Namibia da generazioni, in certi casi dagli inizi del 900.

Avvistiamo gazzelle, zebre e una giraffa, e poi ci fermiamo sotto un nido di uccelli enorme, abbarbicato come altri a un grosso ramo. Questi nidi contengono uccelli a centinaia, e i piccoli passaggi posizionati nella parte sottostante somigliano al ventre gravido di una specie aliena. I volatili producono un concerto celestiale, composto di suoni e motivetti che inducono all’allegria e alla spensieratezza. Ce li godiamo per qualche istante, prima che il motore venga riavviato. Ci hanno raccontato che questi nidi durano finchè il ramo non cede sotto il peso eccessivo. Capiterà poi di vederne tanti accasciati qua e là nei giorni a venire.

IL TRAMONTO DELLA SCIALBA RAGIONE

La gita è rilassante, per una volta è stupendo lasciar guidare altri e andare a passo d’uomo senza pensieri. Quando il tramonto si avvicina ci fermiamo sul crinale di alcune dune dorate, da cui la vista del deserto sconfina oltre l’impercettibile. Mentre Mr Janssen e il suo collaboratore allestiscono un piccolo banchetto, noi contempliamo e perlustriamo a piedi quel luogo magico. I bambini corrono su e giù nella sabbia soffice: è bello vederli sorridenti e leggeri dopo una giornata complessa. Ma ormai lo sappiamo, il viaggiatore è incline alle turbolenze, alle frequenti oscillazioni che rendono il cammino imprevedibile. Senza quella imprevedibilità saremmo semplici turisti, indaffarati soltanto a riempire uno spazio recintato da altri.

Il viaggiatore ha giornate buone e altre meno, ma quando sbuca dall’ennesimo banco di nebbia, la sensazione di libertà è impagabile: poter sbagliare è un privilegio enorme, soprattutto in terra straniera, a maggior ragione quando i punti di riferimento si diradano, quando le certezze sono poche. A quel punto, rientrare la sera in una zona di comfort assume i contorni di una conquista, di qualcosa che si è guadagnato sul campo, a furia di scelte indipendenti e improvvisate. Penso quindi, mentre brindiamo con un vino un po’ dolciastro per i nostri palati avvezzi al Verdicchio dei Castelli di Jesi, che la scelta forse poco lucida di Franci alla fine abbia avuto senso, regalandoci l’ennesimo brivido. Ci confermiamo viaggiatori poco convenzionali, che privilegiano (quasi sempre) l’istinto al calcolo. La scialba ragione separa l’infinito da noi.

OMBRE DEL PASSATO

Torniamo nella notte e i fari delle jeep disegnano figure allungate e spaventose sulle dune circostanti, utili ad alimentare i misteri ancestrali della terra che ha dato i natali alla specie umana. L’Africa sembra nascondere qualcosa, come se tante delle risposte che cerchiamo siano scritte qui, da qualche parte, fra gli elementi. L’aria adesso è fresca, il cielo terso. Arriviamo direttamente per cena.

Osserviamo la famiglia Janssen al completo, con figli e nipoti giunti dai 4 angoli nella Namibia per le ferie estive. Sembrano persone semplici e ben amalgamate a questa terra. Il personale namibiano si occupa di noi con rara gentilezza, forse perché anche qui i nostri sono gli unici bambini, come spesso capita. Ma chissà cosa nasconde la storia, chissà cosa c’è alle origini di questo coacervo di culture ed etnie?

Ci penso mentre osservo un cielo stellato che illumina a giorno le mie elaborazioni. Penso al tempo, a come si costruiscano e si sviluppino le storie e le vicende fra le sue maglie, a come il presente sembri spazzare via tutto, a come invece tutto in realtà sia ben visibile nei segni della terra e nei comportamenti e negli usi delle persone e dei popoli che la abitano. Arrivo in camera senza accorgermene. Cediamo al sonno immediatamente, con l’Africa a dilagare tutto intorno e dentro ognuno di noi. Siamo ansiosi e fiduciosi per domani. Chissà come sarà.

PORTOGALLO ON THE ROAD Racconto di viaggio a puntate

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Cap.6 – Zezere – Evora – Il set- Il Mago di Beja – As Roma – Albufeira – Portimao – Benagil – Piratas – La crisi – Vila do Bispo – Sagres

E’ lunedì , ci svegliamo a Manteigas di buon mattino e procediamo in macchina verso la Valle do Zezere, una delle più profonde valli glaciali d’Europa. L’ultima traccia del glorioso regno di ghiaccio è per l’appunto il Rio Zezere, un fiumiciattolo che trasporta acqua purissima a 5-6 gradi, e che da qui percorre ben 200 km prima di confondere la propria anima con quella del Tago e finire assieme a lui nell’Oceano Atlantico.

Abbandoniamo la macchina senza nome nel nulla e facciamo circa 5 km a piedi verso fondo valle, senza forzare. Non c’è nessuno in giro, a parte un’escursionista solitaria. Giochiamo più che passeggiare. Proviamo a entrare nel fiume, il freddo è glaciale e doloroso, ce la ridiamo, improvvisiamo una gara di resistenza e alla fine la spunta Francy in un modo che non esito a definire eroico.

Terminati i giochi olimpici di Zezere, si parte in direzione Evora, città bianchissima e assai accogliente, in cui incrociamo il secondo set cinematografico del nostro viaggio (il primo era uno spot nei pressi di Praca do Comercio a Lisbona): in una piazzetta si gira un film di cui non comprendo il titolo. Una macchina è incastrata nel fianco di un pullman a seguito di un incidente mai avvenuto, e un gran numero di poliziotti affronta dei malviventi, per motivi oscuri.

Dopo l’ultimo ciak è divertente osservare guardie e ladri festeggiare insieme, con tanto di bollicine e cori da stadio. C’è sempre un lieto fine, oltre la fine. Gelato per i bimbi, vino fresco per noi e di nuovo via in macchina. Dopo un’ora siamo a Beja, cittadina dell’entroterra ormai prossima all’Algarve. Mangiamo cibo paradisiaco nella taverna Pulo do lobo, il Mago di Beja, che per il resto ci pare una cittadina dimenticabile.

Martedì partiamo presto perché alle 12e30 dobbiamo trovarci a Portimao, dove ci attende una gita in motoscafo fino alle grotte di Benagil. Siamo nei tempi, il taglio dell’escursione è oltremodo turistico, ci sembra tutto troppo facile, quasi banale, e noi da bravi e sprovveduti lupacchiotti ci infiliamo una visita al ritiro della Roma, che si trova ad Albufeira proprio in quei giorni. Non si può resistere al fato, e arriviamo alle 11e30 allo stadio municipale, dove il pullman della magica svetta da lontano, dominando l’orizzonte. Attendiamo, chiediamo informazioni, e alla fine spuntano giocatori e allenatore.

L’impatto è emozionante, io sono il peggiore fra tutti i presenti in loco quanto a esagitazione, ci facciamo qualche foto, parliamo coi ragazzi e col mister, ne stanno per uscire altri ma è tardissimo, dobbiamo andare, tipo immediatamente, e sgommiamo via in una nuvola di sabbia da cui comunque riesco a scagliare un fragoroso “Forza Roma”, che rimane sospeso a mezz’aria per qualche istante in una sorta di vignetta animata.

Arriviamo d’un soffio a Portimao, il tizio all’accoglienza scorre il suo schermo e mi domanda: Simòn? E io: si, come lo sai? E lui: perché mancavi solo te! Ah ecco. Ci accodiamo e come in ogni fila le nostre ragazze scompaiono per le loro necessità, e io e Gim stiamo lì ad aspettarle come due bachalau. A proposito, ciò è accaduto sistematicamente dal primo all’ultimo giorno di viaggio. Attendere le ragazze nei momenti cruciali è consuetudine per noi maschi. Mi ricordo per una spennata di prendere la xamamina, che dai tempi del travaglio di stomaco davanti alle Cliff of Moher è mia fedele compagna in mare aperto.

Fra i nostri accompagnatori c’è una ragazza parecchio matta ed estroversa. Grida a squarciagola al passaggio di un bel galeone (“Ehiiii Pirataaaaas!”), e sostiene di essere la moglie di Jack Sparrow. E’ plausibile, a onor del vero. Si rivela ben presto una bella persona, appassionata del suo lavoro. Ci racconta tante storie e ci consiglia dei luoghi idonei ai bambini. L’escursione è canonica ma divertente, piena di scorci mozzafiato e di rocce interessanti, che in molti casi somigliano ad animali o mostri di foggia varia, in altri ci ricordano l’antro nascosto di Willy l’orbo e i tanto idolatrati Goonies. Ci bagniamo completamente a ogni virata, e Gian Marco ha persino il coraggio di tuffarsi in mare aperto per poi tornare a bordo in stato di congelamento nello spazio di un nanosecondo. Avremmo potuto anche venderlo a tranci in un mercato del sud a quel punto, ma decidiamo di tenerlo con noi.

Tornati a terra, andiamo a scoprire una spiaggia lì nei pressi. In mare ci sono dei gonfiabili che i bambini dovrebbero raggiungere nuotando per parecchi metri. Gim è un toro, se ne frega del freddo e della corrente avversa, nemmeno ci pensa, prende e in poche bracciate è già là a giocare.

Iri entra in crisi, l’acqua è fredda, si arrabbia, è furiosa, vorrebbe che qualcuno portasse i gonfiabili a riva probabilmente. Noi le prendiamo un’aranciata, un gelato, le promettiamo una casa nuova e tutta una serie di benefits, nonché la risoluzione di alcune criticità di portata planetaria.

Superata la crisi, partiamo alla volta di Vila do Bispo, paesino vicino Sagres, nell’estremo ovest dell’Argarve: frammenti di tramonto in spiaggia, vento che soffia da e verso tutte le direzioni, sopa do dia e pesce per cena, deliquio di gruppo nel grazioso appartamento di turno, e buonanotte.

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5 – Quinta de Cumieira – Vila Real – Casa de Mateus – Alvao National Park – Arouca – Passadicos do Pavia – Esposa – Manteigas

E’ già venerdì, la prima settimana è andata, siamo (o crediamo d’essere) viaggiatori e le nostre soste sono sempre brevi, faccio una doccia e ripartiamo. Devo guidare parecchio, la strada oggi non è il massimo, e nemmeno io. Arranco pesantemente, i miei sensi di ragno non sono i soliti al volante, percepisco la ragnatela del traffico e la strada in modo distorto e i miei navigatori mi supportano guidandomi e annaffiandomi al bisogno, e dopo un paio d’ore arriviamo in un paradiso intitolato Quinta de Cumieira, una masseria dell’800 con quattro stanze per gli ospiti. E’ un posto probabilmente incantato, di certo bellissimo, dove solo una lieve brezza rompe il silenzio inducendo il viandante al riposo e al sonno. Non sembra vero d’essere qui, dopo uno sforzo simile.

Le vigne circondano ogni cosa e ci avvolgono, un passaggio verdeggiante fra di esse conduce a una piccola piscina. L’ombra di un nocciolo ci tiene al riparo dalla luce e dal mondo fuori, la febbre scende ma non passa, però quel luogo gradualmente mi guarisce, cullandomi in una dimensione di pace rara. I gestori vanno e vengono, ci sono e non ci sono, ogni loro apparizione è discreta, estemporanea. Assaggiamo i loro vini, ci rilassiamo, i bambini trovano in questo luogo rurale e idilliaco una dimensione che incredibilmente li acquieta. La natura ci asseconda, e noi assecondiamo lei.

Passiamo ore nella quinta, eccezion fatta per la visita alla Casa de Mateus, una residenza settecentesca cinta da una flora rigogliosa e variegata, e per una piccola sortita alla cascata de Galegos da Serra, nel parco di Alvao: non è nostra abitudine stazionare tanto a lungo nelle strutture in cui pernottiamo, ma questo sembra il posto ideale per infrangere alcune regole di viaggio.

Quinta de Cumieira e le sue vigne raccontano storie antiche, storie di lavoro e di fatica, di vita e di benessere bucolici. Il tempo sembra essersi fermato perchè non c’è traccia delle sovrastrutture della modernità, eppure è chiaro che qui c’è tutto ciò di cui un essere umano abbia bisogno per vivere bene. Forse all’ingresso un filtro invisibile trattiene e tiene lontane le impurità e le tempeste mediatiche che oltre il recinto si diffondono senza ritegno e interruzioni. Forse questo luogo è una parentesi spazio-temporale, un buen retiro utile a ritrovare e ricomporre se stessi.

Dentro la quinta c’è una fonte di acqua fresca e purissima, arrivano gli amici dei gestori, si scambiano saluti e abbracci, si riforniscono. La loro posa, le movenze, e le parole, che pure non comprendo, sono di un’affettuosità reciproca e musicale che mi colpisce intensamente, infondono tranquillità. Decidono di fermarsi a cena, e anche noi, a pochi passi da loro. Stiamo davvero bene, tanto che quello stare bene si può sintetizzare, distillare e chiudere nella boccetta magica dei ricordi da portare sempre con sé.

La quinta ci regala due giorni magnifici, non la dimenticherò, come il succo delle arance che il gestore coltiva vicino a un rio che non vediamo, tanto è estesa la proprietà di questi signori d’altri tempi, o come la mano esile della mamma 92enne dei gestori, che ci saluta prima di partire. Se ripenso all’anziana signora, l’immagine che mi restituisce la memoria è quella della spassosa madre di George Jefferson, il mitico re delle lavanderie newyorkesi.

Domenica. Ci aspetta Arouca e il Passadicos che costeggia il fiume Pavia per 9 km. La strada per arrivarci è stretta e tortuosa ma panoramica, è divertente guidarla. Un mix fra le anse maestose che condussero me e Fra a Las Alpujarras in Spagna, più di 15 anni fa, e gli altopiani della Mesa Verde in Colorado, dove lasciammo il cuore nel 2010. Dopo anni di viaggi, i luoghi si mescolano, si confondono, si sovrappongono come se gli uni sfumassero per poi dissolversi negli altri, un sito te ne ricorda un altro o tanti altri per i motivi più disparati, e forse fa bene Francy a ritenere di aver fatto un solo grande viaggio che li comprende tutti, in questi anni e negli anni a venire, dato che il futuro del viaggiatore è comunque segnato.

Ad Arouca c’è uno dei ponti sospesi più lunghi d’Europa, ma qualcuno in famiglia soffre di vertigini da un po’ di tempo, e per solidarietà rinunciamo. Il percorso del Passadicos do Pavia è bello e articolato ma alcune salite sono faticose, ci impieghiamo 3 ore, i bambini sono esausti ma non deludono nemmeno oggi. Le loro possibilità e la loro prospettiva si allungano ogni giorno, sotto i nostri occhi. Acquistano indipendenza, iniziano a capire il valore del nostro modo di viaggiare (affascinante, ma faticoso), cominciano a intuire che tipo di viaggiatori vorrebbero e potrebbero essere, smaltiscono ogni forma di timidezza ma conservano il rispetto (più o meno), sanno quando è il momento di dare tutto e quando è tempo di ricaricarsi, imparano l’arte di arrangiarsi e le usanze dei popoli, lussi che gli sarebbero preclusi se in questi anni li avessimo rinchiusi nei villaggi in cui spopolano forme di turismo omologato e artificiale.

Un taxi pronto all’uso ci riporta alla macchina. Durante il tragitto, sullo schermo dello smartphone dell’autista compare la scritta “Esposa”. Giusto uno squillo. Sono curioso, e il signore di una certa età mi spiega che lui vive proprio sopra la strada, e che la moglie gli fa uno squillo quando lo vede passare. Mi racconta che vivono una bella vita, che l’aria è pulita e il cibo molto sano. Non stento a credergli. Ci ripuliamo, tento di fare pipì nel nulla, fra alberi e arbusti, ma come sempre quando tocca a me passano carovane di mezzi di ogni tipo, parate commemorative chilometriche e persino le frecce bicolori portoghesi.

Mi ricompongo, ripartiamo, abbiamo parecchia strada da percorrere in direzione Manteigas, un villaggio incastonato nel cuore della Serra de Estrela. Gim e Iri si sono meritati l’ipad e un bel film per trascorrere le oltre due ore di tragitto. Arriviamo tardi, il tempo di cenare e mangiare di nuovo benissimo. Forse troppo, rispetto al solito. Guardiamo le stelle e la luna, che gioca a nascondino con la valle, prima di sprofondare nel sonno profondo e scuro della montagna.

Robert De Niro – 80 anni spesi bene

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C’è poco da dire su questo mostro sacro del cinema e dell’arte, e le parole lasceranno presto spazio alle immagini, perché nulla può raccontare la storia di De Niro meglio delle immagini. Chiunque ami il cinema non può non aver sognato grazie a lui, i personaggi che ha interpretato sono tanti e tali da ritrovarlo ovunque, nei vostri film preferiti, nel vostro immaginario, in quello che potremmo definire mito. Robert De Niro è senza dubbio un mito del nostro tempo, un’icona capace di adattarsi negli anni ai ruoli più disparati, e di farlo con tali classe, maestria e risolutezza da lasciare stupefatti. I più importanti registi del pianeta lo hanno scelto e lo scelgono da 60 anni a questa parte, e non potrebbe essere diversamente. Cercherò di onorare questo spazio con la sua presenza, cercherò di riprodurre qui il suo sguardo denso, scuro e penetrante, senza avere la pretesa di aggiungere alcunchè alla grandezza di quest’uomo prodigioso. Tanti auguri Bob, ti amiamo alla follia.

PORTOGALLO ON THE ROAD Racconto di viaggio a puntate

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3- CABO DE ROCA, WACKY RACE A SINTRA, L’OVERLOOK, NAZARE’, OBIDOS E LA TRATTORIA FANTASMA DI AVEIRO

Lunedì, ritiriamo la macchina in Praca do Restauradores, dove sbrighiamo le solite pratiche estenuanti di noleggio presso Ok mobility, su cui il giudizio rimane tuttora sospeso. Probabilmente non la consiglierei . Il Portogallo si rivela subito facile da guidare, le strade sono buone, esordiamo visitando Boca do Inferno e Capo de Roca, il punto più occidentale dell’Europa continentale, luogo significativo e scenografico.

Poi tentiamo la sorte per Sintra. Non siamo in formissima, ne ignoriamo i motivi, e Sintra è un’altra trappola per turisti. Le persone ci arrivano a cataste, le automobili sbuffano una sull’altra, sembra di partecipare alla Wacky race, ma mancano Peter Perfect e Penelope Pitstop, non incrociamo nè il diabolico coupè né la multiuso di quel genio di Pat Pending. Entrare o trovare parcheggio è opera da contorsionisti kazaki a riposo, e non possiamo permetterci un altro errore, e per quanto siamo consapevoli di rinunciare a una delle principali attrazioni portoghesi, cerchiamo -con fatica- di uscire dal girone infernale che circonda le mura del sito e decidiamo di farci raccontare Sintra da Francy, che l’ha già visitata anni fa.

Filiamo via verso Nazarè, nelle cui acque un lunghissimo canyon sottomarino profondo fino a 5 chilometri garantisce ai surfisti i più grandi cavalloni al mondo. Quando arriviamo il mare è mansueto, e piccoli surfisti in erba assaggiano onde docili, facili da domare.

Ammiriamo un tramonto dirompente prima di cenare a Vinha d’alhos, una trattoria di Valado dos frades, un paesino dell’entroterra che pare il Messico anche se non hai mai visitato il Messico. Qui il gentilissimo gestore di cui ricordo bene il viso ma non il nome ci fa assaggiare una guancia spettacolare. La nostra dimora odierna è a due passi.

Quinta do campo è un‘antica tenuta gestita dal brillante discendente di una storica famiglia portoghese (“I’m the seventh generation of my family, i’m so proud”). Sarà anche uno dei rari gestori con cui riusciremo a parlare in inglese. In proposito, Irene continua a ribadire con forza a chiunque si rivolga a noi -sorridendo del suo sorriso travolgente e sdentato- che possono esprimersi nel modo che preferiscono, ma tanto “noi parliamo italiano”. Insomma, Iri non accetta di buon grado la varietà linguistica che la strada ci concede, nonostante viaggi da quando è in fasce. Eppure ogni idioma possiede una sua musicalità e custodisce la cultura e la storia di un popolo. Forse una quasi settenne non è abbastanza matura per comprenderlo?

Ma torniamo per un attimo dietro le quinte della quinta. I fasti della famiglia del nostro originale amico sono ben visibili nell’arredamento magnificente e negli antichi volumi presenti nella biblioteca da sogno cui consente generosamente agli ospiti di accedere in qualsiasi momento. Chiedo subito di pagare e l’uomo mi dice di rilassarmi, ora sono a casa (“Thiiis is your hooome nooow!”), non siamo in uno di quei posti in cui la gente e le procedure sono automatizzate, in cui tutto è ridotto a documenti carta di credito pin pulsante 2 in ascensore e tanti saluti. No, questo è un luogo in cui una certa disumanità è stata ufficialmente bandita.

Martedì. La colazione è servita in cantina, i cui interni trasudano tradizione e cultura. La maestosità complessiva di questo posto mi rammenta l’Overlook Hotel, senza un motivo particolare. Il mattino ha l’oro in bocca, ma non noto Jack o Danny Torrence aggirarsi per saloni e corridoi, né tantomeno il bancone ammaliante di Mr. Grady, ma Quinta do campo -soprattutto di notte- sembra nascondere storie oscure e imperscrutabili sotto la sua pelle bianca.

Alla fine si paga, perché alla fine si paga sempre, al di là di fughe poetiche e giravolte, e si riparte. Facciamo un passo indietro (attività inconsueta per la mia famiglia) per visitare Obidos, le sue mura e il suo grazioso centro storico bianco e giallo, costellato sovente da botteghe ciocco-artigianali e dal viola furoreggiante delle bougainville.

Il negozio che mi colpisce di più è un’eccentrica orto-libreria, dove ortaggi freschissimi convivono con una nutrita collezione di libri. L’impatto visivo è conciliante e il profumo dei libri si mescola a quello delle verdure.

Maciniamo poi un po’ di km verso nord, facciamo una pausa nella struttura di turno, dove le animelle si divertono in piscina, e poi andiamo a bivaccare sulle sabbie soffici di Praia da Costa Nova, dove noi assaggiamo il vino locale e i bambini saltano saltano come non ci fosse un domani. I nordici fanno il bagno come se niente fosse, come se l’acqua fosse calda, il guardaspiaggia è agitato sul suo quad, il suo fischietto è in fermento, come i marosi che aumentano col passare dei minuti.

Scende la sera e ceniamo da Pelucha, storica trattoria di Aveiro, che in base al romanzo di viaggio di Saramago non era più presente in città, quarant’anni fa. “Quando al viaggiatore viene un po’ di appetito, verso l’ora di pranzo, dai confini della memoria gli sovviene un ricordo. Tanti anni fa, ad Aveiro, ha mangiato una zuppa di pesce che fino ad oggi gli è rimasta nella ritentiva dell’olfatto delle papille gustative. Vuole appurare se i miracoli si ripetano e va domandare dove sia il “Palhuca”, come si chiamava l’osteria dove era avvenuta l’apparizione. “Palhuca” non c’è più, adesso “Palhuca” sta cucinando per gli angeli, o forse per la principessa Joana, sua patrizia, al di là di questo cielo grigio. Il viaggiatore china il capo, vinto, e va a mangiare da un’altra parte”.

Scopro il fatto curioso leggendo la parte del libro dedicata ad Aveiro dopo cena, e mi convinco di aver mangiato in una trattoria fantasma. Continuo a pensare ancora adesso, mentre sistemo gli appunti e scrivo, se sia stata magia o meno, se il Palhuca in cui abbiamo mangiato fosse reale o fosse invece una trattoria ai confini della realtà, nascosta com’era fra vicoli di scarso fascino e una serie infinita di piccoli cantieri e costruzioni decadenti. Che sia stato il frutto della nostra immaginazione? Se tornassimo da quelle parti, la ritroveremmo? Certo, il bacalhau e i camaroes erano veri, e anche buoni, e forse ciò basta per dissolvere le fitte nebbie del mistero. O forse no.

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2 LISBONA

Arriviamo a Lisbona nel tardo pomeriggio per via del volo in ritardo ma anche perché i ritmi portoghesi si rivelano subito piuttosto blandi. Inizialmente non la mando giù, non accetto un sistema che mi pare disfunzionale, reagisco con stizza, un po’ come mi capitò pochi mesi fa a Istanbul, in cui il fenomeno era persino più accentuato. Ma non faccio fatica a trovare il giusto assetto, che mi consente di intuire in modo graduale la forma mentis del popolo di cui saremo ospiti nelle prossime due settimane. Capiremo ben presto che il lato migliore del Portogallo è rappresentato proprio dalla sua gente.

Ci sistemiamo in appartamento nel quartiere di Alfama, valzer di docce e poi usciamo rapidamente verso Baixa e il Barrio Alto, ci concediamo la solita birra propiziatoria d’inizio viaggio, diamo un’occhiata preliminare, passeggiamo senza meta, mangiamo qualcosa, ascoltiamo della buona musica in un locale sotto casa, e poi andiamo a dormire sufficientemente stremati da una giornata che pare un mese, dato il calvario patito in patria.

Sabato. Ci alziamo presto, assaggiamo i pastel de nata in una pasticceria in zona, e poi saliamo al Castello di Sao Jorge, che ci godiamo quasi in completa solitudine, perché gli Alfacinhas (letteralmente, lattughe), ovvero gli abitanti di Lisbona, si svegliano tardi. Il mattino si rivela il momento migliore per evitare sovraffollamenti e spostarsi velocemente.

Lisbona è una bella città, e Alfama è il suo cuore più limpido e autentico, un reticolo di vicoli in saliscendi che nascondono e custodiscono gemme colorate e musicali. “Vediamo Alfama, ma non sappiamo cosa sia. Eppure continuiamo a girare, a salire e scendere senza poterci fermare”. Ovunque ci accolgono sorrisi e kapirinha, e capiamo ben presto che quel sorriso è il marchio di fabbrica del Portogallo, un fattore costante che ci accompagnerà -insieme alla kapirinha- per tutta la durata del nostro soggiorno. Ce la giriamo a piedi, in tram e in bus per tutto il giorno, cerchiamo di capire questa città contorta e attorcigliata su sè stessa, che somiglia alle montagne russe per come sterza impetuosamente e si getta a capofitto in mare, per poi atterrare e riposare placida a bordo oceano.

Di norma sono felice dove l’opera dell’uomo è meno evidente. Ma l’anima di Lisbona è grande, protesa com’è verso l’Atlantico e verso il resto del mondo. Questa città ha un cuore puro, generoso, romantico, somiglia a una sensazione, restituisce il desiderio di scoperta e conquista del popolo portoghese, desiderio che non può non appartenere a chi nasce in un luogo che garantisce una tale prospettiva e una finestra d’acqua di simili dimensioni. L’oceano deve aver rappresentato l’ignoto e un richiamo irresistibile per chi si è spinto al di là del mare, secoli fa.

Lisbona sembra tantiluoghinsieme, e probabilmente è ovunque ognuno desideri sia. Induce il viaggiatore a condividere, elimina il riserbo che regna nel nord del mondo. Ti fa sentire a casa. Soprattutto se si è liberi al punto da non avere un’idea radicata di casa.

Di sera cerchiamo la trattoria di Ti Natercia, la Maria de culo bello de Lisboa, ma troviamo la Velha Taberna. Zia Natercia, una signora assai loquace di una certa età, oggi è chiusa e ci affidiamo ai dirimpettai. Ci accomodiamo per errore, a onor del vero. Avevo scelto Natercia leggendo di lei a casa, e osservando le immagini di quell’umile e accogliente osteria, che non potrebbe non evocare in chiunque abbia avuto un’infanzia niente affatto sofisticata il ricordo di nonne affaccendate e tinelli dalle luci soffuse. Scopriamo poi, quando Natercia si presenta a sorpresa al nostro tavolo, carica di racconti incomprensibili e di gesti affettuosi per Francesca e i bambini, che avremo comunque l’onore di mangiare il suo sublime bachalau, dato che prepara vari piatti anche per la taverna in cui ci troviamo. Inutile ribadire che anche qui abbiamo trovato casa, ma lo scrivo lo stesso. Dopo cena assistiamo alle acrobazie di vari artisti di strada, e come da tradizione ci ritiriamo prima che sia tardi.

Ma è già domenica. Ci svegliamo presto, per muoverci d’anticipo sulla città, che inizierà a stropicciarsi gli occhi e a sgranchirsi le tortuose, affusolate leve un paio d’ore più tardi. Scegliamo la linea retta per il terzo giorno e noleggiamo le bici per costeggiare o forse inseguire il Tago fino all’oceano lungo l’Avenida do Brazil, una ciclabile nuova di zecca che forse si chiama così perché punta verso il Brasile, terra storicamente significativa per i portoghesi.

Di primo acchito assistiamo al degrado della solita periferia urbana, che nei porti spesso è persino accentuato. Gim ne soffre intimamente, pensa che sia inconcepibile che tanti uomini siano costretti ai margini con tale evidenza. Lo capisco, ma non riesco a consolarlo come vorrei, perché so che ha ragione lui. Superati gli ultimi relitti dei bagordi della notte, che in alcuni casi ballano ancora alla grande in qualche angolo sospeso sul molo, si apre un percorso di luce e acqua a perdita d’occhio, che ci condurrà fin quasi a Cascais.

Intercettiamo i mercatini e una parata di cavalieri tambureggianti nel parco adiacente il monastero di San Jeronimo, poi ci fermiamo in una spiaggia semi deserta a saggiare il mare, che è bello ma gelido, e di ritorno compiamo l’errore che al viaggiatore ogni tanto (di rado per fortuna) capita di compiere: pensiamo da turisti e ci mettiamo in fila per visitare il Palazzo di Belem, una trappola di proporzioni cosmiche in cui la prima fila è soltanto propedeutica alla seconda e così via a salire, fino all’ultimo anonimo piano di una struttura di cui sarebbe stato sufficiente leggere la storia e osservare gli esterni.

Devo ammetterlo, la parte esposta della torre ha il suo fascino, procura l’illusione di essere sul ponte di una nave in mare aperto, ma prego il lettore di fermarsi lì, di limitarsi a contemplare quel gioco visivo e di non proseguire oltre, nel caso capitasse da quelle parti. Perdiamo più di un’ora -tempo prezioso per il viaggiatore – e poi pedaliamo di buona lena verso il centro per concederci l’ultima sera in Alfama, dove chiudiamo in bellezza concedendoci una cena di prelibatezze angolane e capoverdiane da Sao Cristovao.

I nostri figli giocano con la figlia di una coppia di ragazzi polacchi, di cui mi colpiscono il sorriso e la spensieratezza. E poi c’è la solita sensazione che non è nuova all’estero, quella cioè che mi induce a pensare che quei ragazzi potremmo essere noi, in versione polacca. Lo so che non siamo esattamente ragazzi, ma voglio concedermi questo lusso dialettico. Fuori dall’Italia ci si rende sempre conto della moltitudine e della varietà infinita di persone e tipi umani, delle innumerevoli caratteristiche, modalità, usanze e abitudini che differenziano gli uomini e le donne e i bambini del pianeta, e si acquisisce la facoltà di mettere in discussione tutto, di non dare nulla per scontato, di capire che il nostro sforzo di pensare, di acquisire certezze o presunte tali, di confezionare verità o presunte tali è una stilla dispersa nella vastità oceanica dei punti di vista.

E’ forse questa la ricchezza principale che si acquisisce viaggiando: si esce dall’orticello, dai sentieri che battiamo ogni giorno, dai binari delle conversazioni convenzionali, e si può dare uno sguardo oltre, laddove è possibile intercettare il flusso incessante delle idee e dei pensieri del mondo.

Ma ora basta divagare. Domani prenderemo la macchina in centro, dovremo essere freschi, ma ci attardiamo ugualmente nei soliti localini, per salutare Lisbona ed Alfama nel modo che meritano.

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1- PROLOGO

“Queste terre costiere sono predilette dal turismo. Il Viaggiatore non è un turista, è un Viaggiatore. C’è una grande differenza. Viaggiare significa scoprire, il resto significa semplicemente trovare”.

Josè Saramago – Viaggio in Portogallo

Formazione: Francy, Gim, Iri e me.

Parto preparato ma non troppo per il Portogallo, felice ma non così eccitato, come spesso mi capita in prossimità di certi viaggi. I bambini sembrano contenti di poter fare una vacanza in maniche corte, dopo un po’ di tempo. Noi adulti siamo più sul chi va là. L’impostazione del viaggio mi soddisfa a metà, in effetti somiglia troppo a una vacanza per certi versi, e l’impressione è che ci sia parecchio da scoprire, si, ma anche tanto che non faremo fatica a trovare. E’ un viaggio semplice, senza particolari punti interrogativi, senza l’ansia di doversi preparare fisicamente o di dover studiare accuratamente il territorio o infine di allestire il bagaglio nei minimi particolari. Ma viaggiare è anche ritrovarsi e condividere con la famiglia lo spazio e il tempo che la quotidianità spesso ci nega. E’ andare lontano per sentirsi più vicini l’un l’altro. E questo, al di là dello spazio, del tempo e dei modi che scegliamo per farlo, non cambia mai. Inoltre è stato un anno faticoso, e per una volta non guasta non doversi caricare di quella sana inquietudine che in certi viaggi si traduce in adrenalina costante. Siamo rilassati, fin troppo direi, tanto da far tardi la sera prima con gli amici, da non lesinare brindisi e abbracci, con le valige ancora a metà e la partenza fissata il mattino seguente.

E così è venerdì. Partiamo lenti, talmente lenti che rischiamo seriamente di perdere l’aereo a Bologna. In fondo siamo nei tempi (ancora), procediamo di buon passo, poi gradualmente il traffico rallenta, il navigatore ci segnala un incidente, un brutto incidente, i tempi di percorrenza si allungano mostruosamente, siamo fregati (forse). Si, ma questo racconto non avrebbe alcun senso se non fossimo arrivati in aeroporto, giusto? Decidiamo rapidamente di uscire dall’autostrada, prendiamo l’uscita di Faenza su due ruote, ma troviamo coda inevitabilmente anche sulla nazionale, fra mille crocevia intasati e tanti guidatori acciambellati sul volante a causa della calura intensa del mezzodì. Io inizio a prendermela con tutti, coi guidatori acciambellati, con la nostra supponenza, coi nostri ritardi, col fatto che non valutiamo mai ma proprio mai la possibilità di un imprevisto, con l’incoscienza che ci caratterizza e che poi è il nostro segreto ma adesso no, adesso è dannazione eterna e viaggio a rischio, e sbraito e mi agito contro la mia stessa superbia che mi ha lasciato credere di essere un viaggiatore navigato e quindi infallibile. Per fortuna rientriamo in autostrada a Imola, posso smettere di pensare e dare di matto.

Ci fiondiamo verso Bologna. Stiamo per arrivare al parcheggio ma la strada è interrotta (fatto senza precedenti, anche questo) e perdiamo altro tempo. Un passante vuole per forza fornirci indicazioni dettagliate per raggiungere in fretta la nostra destinazione, ma la sua flemma mi impone una fuga impertinente. “Eh ma allora” – lo sento lamentarsi mentre evaporiamo. Infine congediamo Zelda, la nostra macchina. La navetta ci carica su, l’autista bolognese- che ci tiene a mostrarsi simpatico più di ogni altra cosa- si prodiga in un percorso alternativo. Era un pilota, e nessuno ha mai perso un aereo per causa sua -dice. Mi toccherei se non fosse per la signora accanto a me. Scendiamo e iniziamo a correre verso l’aeroporto per imbarcare la valigia, la coda è corposa ma di lì a poco chiamano al banco i passeggeri diretti a Lisbona, manca mezzora alla partenza di un volo che poi tarderà il decollo per motivi ignoti.

Usciamo a fatica dalla fila, lanciamo la valigia alla gentile signorina muta, corriamo al gate, beviamo un litro d’acqua a testa per evitare di sprecare il bene più prezioso al mondo, attraverso i controlli di sicurezza a pedi nudi perché i mie consunti Birkenstock non vogliono saperne e perchè i calzari sono tutti mezzi rotti, il tempo di un breve ma significativo crollo emotivo scaturito dalla tensione e di una sosta in bagno e siamo in aereo. Insomma, un incipit stressante per un viaggio che di stressante poi avrà ben poco.

Infinitamente Zia Gina

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​​​​​Utilizzo questo spazio alla deriva ma intimo per ricordare mio zio. E’ un luogo ispirato a lui e ai suoi microcosmi ludici, alla sua voglia di giocare e curiosare, di non essere mai contento in fondo. Zio Gino era un genio, un pazzo furioso, un artista totale, un uomo meraviglioso. Era un visionario, un sognatore indomito, un santo bevitore, un compagno di giochi, un saltimbanco, un oste d’altri tempi, un impudente latin lover, un immenso amico, un gran baciatore in bocca, un cantastorie, un principe del convivio, un intrattenitore totale.

Era un personaggio leggendario, infinito, un uomo difficile, burbero e scontroso ma anche gentile e delicato, un poeta raffinato e sensibile, un uomo libero, libero di essere quel che voleva essere, anche solo per dispetto, anche solo per irridere con una giravolta i pregiudizi dell’uomo comune. Come ho appena scritto a mio cugino Tommaso, suo figlio, lui non ha mai fatto finta di essere quello che non è, un atto eroico in questo mondo di finzione.

Mi ricordo una delle sue prime mostre, forse 30 anni fa, lungo le mura di Morro d’Alba. Una specie d’uomo nero usciva dalla tela a sfondo giallo. Ero poco più di un bambino ma le sue opere mi impressionarono e mi entrarono dentro senza più uscire. Forse è proprio l’uomo nero ad essermi entrato dentro, quel demone dell’arte che per anni mi ha fatto credere di poter tradurre in lettere quel che lui dipingeva. Non era questo. Era di più. Io sentivo le sue opere come fossero parte di me, erano anche i miei sogni e i miei incubi quelli che lui mi mostrava. Zio Gino è entrato in luoghi inaccessibili ai più, ha aperto una porta che introduce al suo mondo immaginario, che però è l’immaginario di tanti, che però poi è anche parte del percepito, è parte e retrobottega di tutto quanto resista a cavallo fra la realtà e i sogni.

“Noi due siamo identici Simo!” mi diceva alla fine di certe serate abbracciandomi e baciandomi in bocca. Aveva una sensibilità inaudita e in me aveva forse percepito frammenti delle sue stesse debolezze, delle sue stesse paure. Mi ha aiutato in momenti difficili. Ha fatto sentire a casa me e la mia ragazza, i miei amici e chiunque portassi lassù. Qualcuno forse lo ha pure cacciato.

Una mia grande amica mi ha scritto ieri sera: “Me lo ricorderò sempre un abbraccio tra Voi due al Tamburo Battente, alla fine di una spensierata cena fra Amici. C’ero anch’io per fortuna. Come una fotografia”.

Ho passato la vita ad andare a trovare zio Gino ovunque si spostasse da un versante all’altro della campagna marchigiana, a cercare di capire e interpretare con calma i suoi quadri, che lui mi illustrava con vino e pazienza, con quel suo sguardo sornione e profondo. Era fissato con la luna le mani i sassofonisti i trombettisti gli oboisti i ciclisti i motociclisti e i piloti morti di morte violenta.

Zia Gina

E’ stato un punto di riferimento essenziale per me, le sue osterie erano luoghi di fuga, dimore prive di tempo, castelli diroccati dell’esistenza, luoghi di culto e piacere e parole confuse e sovrapposte fino a notte fonda. Lui sapeva riempire di sé quegli spazi, sapeva ricreare e rigenerare se stesso in ogni sua nuova collocazione, e quegli spazi erano vivi e pieni di Zio Gino.

Mio zio Gino era una poesia beat, e per quanto si definisse pigro, è stato sempre mosso da una profonda inquietudine creativa priva di punteggiatura, da una voglia di manipolare gli elementi e i colori e di piegarli ai propri scopi, di rappresentare le fantasie del bambino curioso che conservava dentro di sé.

Ha lasciato tracce di sé ovunque, tracce importanti, mai banali. Tracce indelebili di una vita vissuta senza risparmiarsi, senza esitare, senza mezze misure, senza cautela o prudenza alcune.

Sei stato il mio eroe, mi volevi bene senza tentennamenti e io ti chiamavo Zia perché ti piaceva troppo giocare a interpretare il ruolo della vecchia zia. Mi mancherai in un modo che non riesco a dire e cerco di immaginarti in questa canzone di Lou Reed, intento a tratteggiare nel tuo universo creativo questa ragazza dagli occhi blu, a liberare l’estro e sublimarne ogni sfumatura fino a trasferirla sull’ennesima, magnifica tela.

https://www.youtube.com/watch?v=KisHhIRihMY

Non ho la consolazione di chi ipotizza mondi paralleli, ma non riesco a non immaginarti a bordo di una Austin Healy cabrio verde scoperta anche quando fuori piove cogli occhiali scuri e i capelli al vento e tele appoggiate dietro alla rinfusa come le idee a sgommare via verso i mille tornanti delle campagne e della memoria “a sud di nessun nord per parlare con la luna”. Con quella risata eccezionale e piena e altisonante a riecheggiare in lontananza.

Un giorno riderò come te, lo so.

Ti amo Zia. Ti amerò sempre per sempre col cuore che picchia in petto come un tamburo battente

PASTORALE AMERICANA?

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L'Oste deluso, Pensieri

L’OSTE DELUSO

“La figlia lo sbalza fuori dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America”.

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E’ un esercizio per registi navigati tradurre in immagini il messaggio di un romanzo complesso come quello di Philip Roth, e la trasposizione cinematografica di Ewan Mcgregor è una delusione quasi annunciata.  Se poi la regia si rivela piatta e compassata e i momenti salienti della storia vengono stravolti od omessi, c’è da chiedersi il motivo di una tale ambizione all’esordio.

La discesa all’inferno di Levov lo svedese viene affrontata senza coraggio o mordente, e non c’è nulla della grande illusione narrata da Roth, di quel senso di inadeguatezza che l’uomo affronta quotidianamente a livello sociale e comunicativo: lo sforzo che ognuno produce per fare in modo che le cose vadano per il verso giusto, per mantenere un livello adeguato alle proprie aspirazioni, al fine d’essere un eroe senza macchia, un esempio positivo e una guida sicura, la consapevolezza dell’errore come fondamento della vita stessa, il disperato e spesso vano tentativo di educare e proteggere i propri figli, sono tutti elementi che latitano nel film.

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McGregor azzera il livello di pathos del romanzo e dipinge personaggi in modo troppo canonico, senza considerarne la portata: i protagonisti del capolavoro di Roth sono modelli  che rappresentano il crollo di uno stile di vita, il tramonto di una società costruita sulle basi approssimative di un abbaglio colossale, di un gigante che collasserà sotto il suo stesso peso. La provincia americana e i tipi umani che la popolano vengono dipinti in modo convenzionale e senza la necessaria spinta emotiva, e il prodotto finale è un’opera banale e noiosa, che nemmeno prova ad aspirare al livello consono a un tale lavoro.

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Alcuni eventi fondamentali vengono tralasciati o ribaltati, le citazioni essenziali vengono ignorate, e così persino il senso del titolo rimane ignoto, poichè McGregor non si sporca le mani e non si addentra “nel terreno neutrale e sconsacrato della festa del Ringraziamento” in cui “un tacchino colossale” -che sazia duecentocinquanta milioni di persone- rappresenta simbolicamente “una moratoria sui cibi stravaganti e sulle curiose abitudini e sulle esclusività religiose, una moratoria sulla nostalgia trimillenaria degli ebrei, una moratoria su Cristo e la croce e la crocifissione per i cristiani … una moratoria su ogni doglianza e su ogni risentimento … per tutti coloro che, in America, diffidano uno dell’altro. È la pastorale americana per eccellenza e dura ventiquattr’ore“; e non c’è traccia del bacio fra padre e figlia, che sarà poi uno dei motivi del profondo tormento del genitore, tanto che sarebbe stato preferibile tagliare per intero la scena anzichè fornirne una versione contraffatta.

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Ma è il finale a demolire definitivamente il filo conduttore fra romanzo e libro: mentre nel primo non c’è spazio alcuno per la speranza o modo di recuperare, per i soggetti coinvolti e per una società intera, con l’aggiunta di un gesto violento ed estremo a sancirne l’irrevocabile autodistruzione, nel film troviamo una scena completamente inventata, inaccettabile perchè rovescia il senso stesso della storia fino a ribaltarne il significato, creando una speranza, aprendo uno spiraglio alla tragedia che invece dilaga, tentando di commuovere lo spettatore invece di prendere atto del dramma in essere ed accettarlo in quanto tale, un tentativo goffo che sancisce un fatto molto semplice: Mcgregor non ha afferrato il messaggio del capolavoro di Roth, non ne ha tradotto il senso o ha preferito non farlo; ha semplicemente raccontato un’altra storia, peraltro affatto interessante, che si poteva risparmiare.

La parole e l’azione: Roth versus Ibsen

28 giovedì Mag 2015

Posted by osteriacinematografo in Ibsen, J. Roth, Pensieri

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole, Pensieri

“Un migliaio di parole non lasciano un’impressione tanto profonda quanto una sola azione” – dichiarò sinteticamente il celebre drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828-1906).

Joseph Roth, talento d'Osteria

Joseph Roth, talento d’Osteria

Lo scrittore austriaco Joseph Roth (1894-1939) la pensava diversamente. O meglio la pensava diversamente Golubcik/Krapotkin, eccelso protagonista del suo romanzo “Confessione di un assassino”:

“Solo molto più tardi ho imparato che le parole sono più potenti delle azioni, e spesso rido quando sento l’amata frase: “Fatti e non parole!”.Quanto sono deboli i fatti! Una parola rimane, un fatto passa! Di un fatto può essere autore anche un cane, ma una parola può essere pronunciata soltanto da un uomo. Il fatto, l’azione, è solo un fantasma se lo si confronta con la realtà, e persino con la realtà immateriale della parola.L’azione sta alla parola press’a poco come le ombre bidimensionali del cinema stanno all’uomo vivo tridimensionale, oppure, se preferite, come la fotografia all’originale. Anche per questo sono diventato un assassassino”.

Per aver sottovalutato il potere della parola, Golubcik entra a far parte dell’Ochrana, la terribile polizia segreta della Russia zarista, evento che influenzerà tutto il corso della sua vita, fino a saggiare “la più profonda di tutte le tragedie, la tragedia della banalità”.

Henrik Ibsen, padre della moderna drammaturgia

Henrik Ibsen, padre della moderna drammaturgia

La coincidenza di interessarsi contemporaneamente a due grandi autori conduce di rado a una simile evidenza: il contrasto dei concetti summenzionati è talmente evidente da indurmi alla conclusione che non posso decidere per l’uno o per l’altro. Oltretutto vari fattori limitano la portata delle rispettive idee: nel caso di Ibsen, il concetto è stringato e privo di un contesto più ampio che potrebbe chiarirne meglio il significato: potrebbe essere -ad esempio- un’amarezza personale ad aver spinto l’autore di “Spettri” a un considerazione che denigra a tal punto il potere della parola. Nel caso di Roth invece, il concetto è filtrato dal fatto che sia un suo personaggio, e non propriamente egli stesso, a concepirlo.

In conclusione, ritengo che parola e azione siano interdipendenti: si nutrono l’una dell’altra, si alimentano vicendevolmente, traggono senso e respiro ognuna dall’esistenza e dall’essenza dell’altra, e forse si smarrirebbero entrambe se cessasse lo scambio osmotico che ne caratterizza la relazione.

Cave of the forgotten dreams – Quegli uomini siamo sempre noi o abbiamo smarrito noi stessi?

19 martedì Mag 2015

Posted by osteriacinematografo in film, Herzog, Pensieri, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Pensieri

“Inventando la raffigurazione di animali, uomini, cose” -racconta Werner Herzog con voce profonda e suadente- “nasce una forma di comunicazione tra gli umani e il futuro, evocando il passato, trasmettendo informazioni in forme superiori al linguaggio, alla comunicazione generale. E la stessa invenzione esiste oggi, nel nostro mondo, ad esempio con questa videocamera.”

Chi ha avuto, come Herzog e un ristretto staff di scienziati, il privilegio di entrare nelle grotte Chauvet, descrive l’esperienza come un forte trauma emotivo, uno shock primordiale, acuito dalla sensazione di sentirsi osservati dagli spiriti di uomini che scrutiamo attraverso le voragini del tempo, uomini scevri dalle maglie della storia che invece intrappolano irrimediabilmente l’uomo d’oggi. Il silenzio della grotta e le opere di eccellente fattura, risalenti anche a 32 mila anni fa, comunicano più di qualsiasi linguaggio il segreto del tempo e dell’evoluzione umana.

Cave of forgotten dreams

Quella grotta, che non era una casa per gli uomini, ma un luogo d’arte e di culto, si rivela una sorta di mostra dei sogni perduti, che ha resistito ai crolli della rupe che ne hanno ostruito il passaggio ma non l’intima essenza, che è divenuta eterna e imperforabile teca, finchè un alito di vento ha suggerito a Chauvet di risalire la china di un percorso forse tracciato dall’uomo per se stesso, per ricondursi a sè, per coincidere ancora con il centro, puro e adamantino, della sua natura, una natura calpestata e rinchiusa nei contenitori oblianti dell’eternità, nascosta sotto i sedimenti millenari dei nostri stessi artifici, delle nostre strutture infestanti.

Coccodrillo albino

Nel finale del film, Herzog immortala alcuni rettili che vivono in un ambiente tropicale ricreato a pochi chilometri dal sito archeologico – laddove un tempo un ghiacciaio spesso 2.500 metri dominava il paesaggio-  “grazie” ai fumi residui di una centrale atomica che insiste nei dintorni. Il regista tedesco si sofferma in particolar modo sui coccodrilli albini, nati in questo ambiente fondamentalmente tossico, e quindi adattati ad esso. “Nulla è reale, nulla è certo. Non è semplice capire se queste creature si stiano trasformando nel loro stesso alter ego. E poi, si incontrano? Oppure non è altro che un riflesso speculare immaginario? È possibile che noi, oggi, siamo i coccodrilli che scrutano un abisso temporale, quando osserviamo le pitture della grotta Chauvet?“.

Queste parole di Herzog mi turbano dalle profondità della notte scorsa e di quella grotta di sogni perduti, quasi che le due dimensioni in qualche modo convergano, come tutto il tempo coincide con un solo infinitesimale istante, grazie alle tracce e ai segni che quegli uomini ingegnosi hanno disseminato per tramandare l’essere umano.

In quella grotta riposa un sogno lungo 32 mila anni, un sogno che scorre dentro ciascuno di noi.

Le tre cose della domenica – “Ossido di carbonio”, “Smoking runner”, “A tutto gas”.

18 lunedì Mag 2015

Posted by osteriacinematografo in Pensieri, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole, Pensieri

Le tre cose della domenica mi riportano a una mattina romana, quando o dove il mio caro amico Faust mi parlò per l’appunto delle sue tre cose della domenica. Il concetto mi piacque molto all’epoca e lo riprendo ora per intitolare questo mio pensiero.

Ieri era a domenica anche qui a Jesi, la mia città. Era la domenica di “Bicincittà”. Tutti in bici. La zona fra i giardini pubblici e lo stadio comunale era pedonalizzata, addobbata a festa e popolata da centinaia di bambini. Tante iniziative e una bella festa per tutti. Ma non è questo il punto.

Ieri mattina sono andato a correre, come mi capita spesso di fare. Attraverso di corsa la zona pedonalizzata. Magnifico -penso- dovrebbe essere sempre così. Ma proseguo di poche decine di metri, neanche il tempo che quel mio pensiero si sia fuso con gli altri mille che si accavallano allegramente nella testa di chi corre, e mi ritrovo immerso nei gas di scarico.

Cosa numero 1:

di colpo sembrava quasi che la manifestazione fosse “Auto in città”, tante erano le macchine che intrecciavano i loro percorsi. Non capivo e non capisco tuttora dove andassero tutti in macchina in quella bella giornata di sole. Un vero spreco e una dannazione per me, costretto a mascherarmi con una fascia da bandito per respirare meno ossido di carbonio possibile. Forse, ho pensato, arrivano in macchina fin dietro i giardini, tirano fuori le bici e sfilano per dare l’illusione di aver percorso sulle due ruote ben 500 metri. Oppure -penso- boh!

Cosa numero 2:

continuo a correre, sono entrato in un loop immaginario che percorro abitualmente, un anello di 4,4 km. Sono all’inizio del primo giro, quando, fra le persone che incrocio, una mi incuriosisce particolarmente. E’ un ragazzo sulla quarantina (si perchè mentre una volta a 40 anni si era vecchi, oggigiorno alla stessa età si è ancora giovani): è in tenuta ginnica, ma cammina e fuma una sigaretta. Ho pensato: gente strana, davvero. O forse è un’illusione ottica, forse sono già stanco. Ma il pensiero vola via, e proseguo, finisco il secondo giro, e, a metà del terzo, incontro di nuovo quel ragazzo. Il sole inizia a battere forte, e lui adesso corre, respirando con un certo affanno. E il boh che è dentro di me inizia a veleggiare verso il cielo.

Cosa numero 3:

sempre durante il mio percorso mattutino, in un momento collocabile fra il primo e il secondo incontro con lo smoking runner, passo vicino a due automobili parcheggiate una dietro l’altra, a bordo strada. Entrambe hanno il motore acceso, e si scaldano al sole. La prima è vuota. Due portiere aperte, al suo fianco quattro persone estremamente sovrappeso mangiano dei panini e discutono. Il sudore imperla la fronte di uno dei quattro, e subito penso al Barone Arkonnen e alle sue magnifiche pustole. Nella seconda macchina, parcheggiata subito dietro la prima, c’è un uomo al posto di guida. Fuma una sigaretta e legge il giornale, con il finestrino quasi chiuso, m non del tutto, giusto per aspirare anche buone dosi del gas di scarico che gli sparano innanzi. A quel punto un alto cirro che si leva dritto davanti a me assume indiscutibilmente la forma di Grande Boh.

Cirrus sky

La sera prima mi ero trovato a riflettere sui meccanismi che inducono l’uomo -almeno apparentemente- all’autodistruzione. Forse la scintilla che ha permesso all’uomo di evolversi in modo inaspettato non è stata un bene, a conti fatti. Forse è una malattia, un agente patogeno, un virus. Forse è la prova che stiamo miseramente fallendo, che la nostra crisi d’identità è profonda quanto la tana del Bianconiglio.

La sera prima ero assalito da ogni sorta di dubbio.Ma poche ore dopo, ieri mattina appunto, quegli strani fatterelli hanno confermato i miei sospetti e fugato ogni dubbio: l’uomo si è davvero fottuto il cervello.

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