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NAMIBIA FAMILY ADVENTURE Day 10 – The White Lady & Himba Day

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Cronache e Storie d'Osteria, senza-categoria

VENTO IN POPPA

Ci svegliamo poco prima delle 8. La giornata promette bene. La luce namibiana è un vento in poppa, una forza che infonde ottimismo e trascina i viaggiatori. Ho recuperato le energie, sto bene, e, ogni volta che capita dopo una giornata travagliata, la sensazione è quella di uno stato di grazia. Stare bene è qualcosa che tendiamo a sottovalutare, a considerare normale. Ma non sempre è così.

COLLINE DI STAGNO

Siamo nel Damaraland, fra le collinette di Uis, un villaggio nato intorno alle miniere di stagno che poi furono abbandonate all’inizio degli anni 90 del secolo scorso. Le colline candide e biancheggianti che si alternano a quelle naturali sono in effetti i cumuli dei resti della lavorazione dello stagno. Pensavamo fosse sale, invece era un calesse. Uis è sopravvissuta grazie al turismo, dato che è un punto strategico per visitare alcuni siti interessanti.

CACTUS CAFE’

Camminiamo verso il Cactus Cafè del Daureb Isib nella pace del mattino. Molti viaggiatori lavorano in silenzio, sistemando l’attrezzatura e richiudendo con cura le tende sopra i pick up. Fra questi, noto la famiglia milanese della sera prima. Sono tutti operativi, mentre noi camminiamo con passo rilassato. Ammiro la loro praticità e la loro capacità di adattarsi. Onestamente non avrei mai pensato che viaggiassero in questa modalità. I loro ragazzi hanno qualche anno in più dei nostri. Chissà se il futuro renderà possibili avventure più audaci di quelle che ci possiamo permettere adesso.

SOTTO LA SUPERFICIE

Facciamo colazione, torniamo alla capanna e prepariamo i bagagli. Alle 9e30 partiamo e ci fermiamo subito in paese. Lascio Franci e i ragazzi a fare spesa in un piccolo market e faccio benzina. Poi li vado a riprendere. Nel frattempo Franci nota due bimbe molto graziose che camminano a bordo strada. Mi chiede di fermarmi. Scende e si avvia di corsa verso di loro, regalandogli dei dolcetti. Le bimbe sorridono e l’abbracciano d’istinto, con trasporto. Francesca torna in auto commossa, perché nasconde un cuore tenero sotto un velo d’austerità. Anni prima consegnammo dei gadget ad uso scolastico a un gruppo di bambini dello Swaziland, e la sua reazione emotiva fu la stessa.

VERSO IL BRANDBERG

Adesso si parte davvero, in direzione del massiccio del Brandberg. Abbiamo un’oretta di sterrato prima di arrivare a destinazione, il dipinto rupestre denominato White Lady. Lungo il tragitto, gli unici episodi da rilevare riguardano tre dame variopinte che invocano un’offerta in modo teatrale e una famiglia che ci corre incontro in modo scomposto nei pressi di una baracca. Siamo in ritardo e un tantino diffidenti, e non ci fermiamo.

NATHAN

Arriviamo al parcheggio verso le 11, dove ci accoglie un addetto del parco. In biglietteria ci assegnano una guida, che è indispensabile per attraversare l’arida gola che conduce fra le braccia della Dama Bianca. La nostra guida è un ragazzo poco più che ventenne di nome Nathan. Ha un viso pulito ed è piccolo di statura. Il gruppo è composto dalla nostra e da altre due famiglie (sudafricane), con parecchi bambini al seguito. Nathan ci spiega che abbiamo davanti un’oretta scarsa di cammino e che dobbiamo portare con noi una scorta d’acqua. Fa caldo ma la passeggiata è veramente piacevole sia sotto il profilo paesaggistico che della compagnia, che si rivela incline alle chiacchiere e alla condivisione.

Nathan ha il padre a Swakopmund e la madre lontana. Trascorre l’estate in queste zone a lavorare. Ci racconta alcuni avvenimenti, gli incontri coi leoni e con gli elefanti, la pioggia intensa che quattro anni prima rigenerò il fiume che un tempo scorreva proprio dove adesso passeggiamo; la vegetazione che poi esplose nelle settimane a seguire restituendo alla valle l’aspetto rigoglioso del passato. Mi piacciono la tranquillità, la purezza, l’assenza d’ansia che lo caratterizzano.

STORIE INTERCONTINENTALI

Mi colpisce la storia di una delle due famiglie con cui condividiamo il cammino. Sono due medici, lui scozzese e lei sudafricana. Si sono conosciuti in Australia, dove entrambi lavoravano in un ospedale di Adelaide. Si sono sposati lì, hanno avuto dei figli, e a un certo punto hanno deciso di trasferirsi in Sudafrica, dove lei aveva voglia di tornare per stare vicina alla sua famiglia. Hanno tre settimane di vacanze e ne hanno approfittato per venire in macchina da Cape Town. L’altra coppia di loro amici ha una storia meno curiosa da raccontare e anche meno giorni di vacanza a disposizione, tanto che questo è l’ultimo step che vivranno insieme prima di separarsi. Si ritroveranno a casa.

La passeggiata è bella e rilassante. I figli dei nostri amici temporanei sono sparpagliati lungo il percorso. Corrono a destra e a manca, scompaiono dietro massi e piccole alture, non hanno i timori o le barriere dei nostri, che invece restano sempre nelle vicinanze. Mi piace la loro attitudine selvaggia, ed è chiaro che sono educati a questo e che vivono in una certa armonia col mondo naturale. Io e Franci abbiamo sempre cercato di fissare nei nostri figli l’idea che la natura sia la nostra casa, ma siamo comunque condizionati da un retaggio culturale che ci rende fin troppo attenti e assistenziali nei confronti dei figli rispetto a buona parte del mondo. Se Gim e Iri si allontanano meno dei bambini sudafricani dipende da noi, non da loro. Poi uno dei ragazzini stranieri si farà male, ma nessuno inscenerà psicodrammi di sorta.

LIBERTA’

Nell’estate 2012, un anno prima che nascesse Gian Marco, io e Franci ci trovavamo in Sudafrica. Ricordo un’escursione bellissima al confine col Lesotho, sempre in cerca di dipinti rupestri. Salimmo e scendemmo per ore fra valli e montagne, il vento soffiava forte. Persi il foulard turco di Franci, ma fu un giorno bellissimo, pieno di luce e prospettiva. Visitammo terre primordiali, e poi un villaggio locale, incastonato ai confini del nulla. Assaggiammo gli intrugli delle anziane del posto. Dovevamo badare soltanto a noi stessi. La sensazione di libertà di quei giorni è ancora potente in me a distanza di anni. Ma mi sento altrettanto libero adesso, mentre osservo Franci e i nostri figli avventurarsi in una valle africana alla ricerca delle opere d’arte degli antenati.

LA DAMA BIANCA

Dopo un’ora di cammino arriviamo al complesso pittorico della Dama Bianca: per fortuna è riparato dal sole, che inizia a farsi cocente. L’opera è attribuita ai Boscimani San, e risale a qualche migliaio di anni fa. Nathan ci spiega che la Dama in realtà è una sorta di sciamano immortalato in una danza rituale. In effetti la Dama Bianca tiene per mano un individuo, come per avviarlo ad un rito iniziatico. I bambini osservano interessati. Oggi Gim e Iri sono più sereni e rilassati del solito. Gli ultimi giorni hanno concesso loro più possibilità di muoversi e di giocare, e anche la passeggiata che ci ha condotto a questo bel dipinto rupestre ha contribuito al loro benessere.

REPTILIA VERSUS MAMMALIA

Quando Nathan termina il suo racconto è ora di tornare. Continuiamo a familiarizzare con i membri di questo gruppetto inventato. Non nascondo che mi sarebbe piaciuto affrontare un altro pezzo di strada insieme. Ripercorriamo la valle a ritroso, avvistiamo delle lucertole multicolore immobili sotto il sole e dei curiosi roditori all’ombra delle rocce.

LA MANCIA

All’arrivo, pretendo le foto di rito con i ragazzi del gruppo. Acquistiamo una bella collana di frammenti di denti e ossa e poi cerco di lasciare il resto di mancia a Nathan. Non sono sicuro che il nostro pensiero sia arrivato poi nelle tasche giuste, perché ho annusato una certa sottomissione alla corpulenta signora che gestisce la baracca. Non saprò mai come sono andate le cose.

SEMPLICEMENTE SETE

Mentre torniamo al rover, una delle guide ci chiede un passaggio fino a un crocevia distante qualche km, e lo accompagniamo volentieri. Facciamo due chiacchiere, ci racconta qualcosa sui figli, e poi lo lasciamo in prossimità della baracca che avevamo intravisto all’andata. Ci racconta che quella famiglia vive lì, a bordo pista, anche grazie al supporto e agli aiuti di chi transita da quelle parti. La loro prima necessità è l’acqua. Quella che a noi era parsa una forma di aggressività in realtà era sete. Semplicemente sete.

OZOHERE

Abbiamo un’ora e mezzo di strada da percorrere fino a Khorixas, dove ho prenotato un bel lodge. Lungo il cammino faremo una sosta presso il villaggio Himba di Ozohere. Conosco bene i pro e i contro della situazione, ma credo che valga la pena correre il rischio e provare l’esperienza sulla propria pelle per saggiarne l’autenticità. Mentre guido, mi rendo conto di essere totalmente a mio agio qui in Namibia. Terra, pietra, sabbia, buche, dossi, avvallamenti non sono più un problema. Anzi. Nel frattempo, Franci sforna panini con maestria e rapidità, sfamandoci come solo lei in tutto il mondo sa fare. Senza di lei saremmo perduti.

HIMBA

Arriviamo al villaggio verso le 14e30 e la prima stranezza è una sorta di reception in cui ci accoglie una bella ragazza dagli occhi scuri e sfuggenti. Ci fa accomodare in un patio ombreggiato e ci illustra le dinamiche del villaggio che visiteremo a breve. Daremo una certa cifra ai membri del villaggio, la cui sussistenza è affidata ai viaggiatori e a parte degli uomini, che lavorano nei dintorni. Ci mostreranno le loro usanze, ci proporranno i loro manufatti e balleranno per noi.

L’ACQUA DI BUMBA

Siamo solo noi e gli Himba, e tutto è estremamente tranquillo. Ci avviamo a piedi, il villaggio è su una collinetta a 2-300 metri da lì. Da lontano il villaggio sembra vuoto, disabitato, ma -avvicinandoci- gradualmente iniziamo a scorgere le prime ombre in movimento. Questa immagine mi riporta alla mente Bumba, il protagonista di un bellissimo racconto di Roberto Piumini che ho letto per anni ai miei figli: vi si narrano le vicende degli Ihuallà, il popolo di un villaggio in cui donne e bambini affrontavano ogni giorno un lungo viaggio a piedi per rifornirsi d’acqua e combattere la perenne siccità.

“Non proprio all’equatore, un po’ più su, nell’Africa che cuoce al solleone, c’era un villaggio, con una tribù di trentasette o trentasei persone: il numero preciso non si sa, ma il nome sì, ed era Ihuallà. In quelle terre, come tutti sanno, l’acqua è davvero scarsa, quasi assente, e gli Ihuallà, per tutto quanto l’anno, mandavano le donne alla sorgente: ciascuna nella testa aveva un vaso, e lo portava indietro, pieno raso. C’era un bambino, fra gli Ihuallà, che si chiamava Bumba, piccolino, più piccolo degli altri alla sua età, allegro e svelto, col cervello fino, che insieme alla madre e all’altra gente, andava avanti e indietro alla sorgente”.…

OTJIZE

Qui a Ozohere ci sono per lo più donne e bambini, quasi tutti piccoli. A margine, vediamo anche tre giovani uomini. Ci presentiamo utilizzando le tre parole Himba che ci ha insegnato la guida: moro, perivi, nawa, vale a dire ciao, come stai, bene. Gli Himba ci mostrano i dettagli delle capigliature, i loro abiti e i fregi da cui sono decorati. Ci fanno fare un giro e poi ci invitano all’interno di una capanna dove ci mostrano come producono la pasta composta di burro, ocra rossa ed erbe che spalmano sulla pelle per vezzo e protezione.

ONDJONGO

Torniamo fuori, dove quasi tutti i componenti del villaggio si stanno disponendo in semicerchio. Ognuno di loro balla a turno, mentre gli altri battono le mani e lanciano grida e suoni di vario tipo. Ogni singolo passo rappresenta il tentativo di connettersi al suolo polveroso della Namibia. E’ uno spettacolo, a cui prendono parte anche i nostri bambini. Ridiamo, ci osserviamo reciprocamente senza comprenderci. Proviamo a guardarci dentro. Mi colpiscono in particolar modo gli occhi limpidi e puliti dei bambini.

PROVE D’EMPATIA

Come mi è già capitato in casi simili, ogni tanto ho la sensazione che gli Himba ridano di noi. Lo penso perché mi metto nei loro panni: a me verrebbe da ridere se qualcuno venisse a casa mia per vedermi ballare. Ma accetterei di buon grado, soprattutto se mi pagassero. Al di là delle mie sensazioni, è una bella esperienza di scambio.

IL TEMPO NON ESISTE

Osservo l’emozione e la sorpresa negli occhi di Gim e Iri, la loro interazione istintiva con gli altri bambini. E’ un piccolo documentario, che narra l’incontro di due realtà molto diverse fra loro: a tratti si ha l’effetto allucinatorio di osservare sè stessi nel passato o in una realtà parallela e concomitante in cui tutto sembra ribaltarsi. Cosa è davvero reale? Il tempo esiste davvero? E qual è il nostro?

GRAN CACIARA

Esco dalle grotte dei sogni dimenticati di Werner Herzog e mi ritrovo in una caciara improvvisa. Le donne del villaggio hanno tirato fuori i loro banchetti con gli oggetti in vendita e si è scatenata una certa isteria. Probabilmente questi incassi non vengono condivisi e fanno più gola degli altri. Franci e Iri acquistano un paio di monili in una selva di braccia, e poi lentamente ogni cosa torna al suo posto, e guadagniamo l’uscita.

MORO MORO

Due bambini ci seguono correndo fino al parcheggio, per poi salutarci col solito travolgente sorriso. Moro moro! Nonostante alcune piccole contraddizioni e il dubbio persistente se quel villaggio sia il luogo in cui queste persone effettivamente vivano, siamo felici di aver fatto questa esperienza. E se possiamo aver contribuito un minimo al benessere di questa gente, la felicità raddoppia.

LODGE DAMARALAND

Sono le 15e30, andiamo a Khorixas, dove ci attende forse la dimora più bella fra quelle in cui abbiamo alloggiato. E’ il Lodge Damaraland, l’ennesima struttura minimale immersa in modo armonico nell’architettura naturale di questa landa magnifica, a cavallo fra savana e deserto. Persino i colori dell’edificio richiamano l’arredo cromatico della terra dei Damara.

IL BALZO

I lodge sono molto accoglienti e hanno un affaccio privato sul mondo fuori. Una piccola piscina rappresenta il centro nevralgico della zona comune. E’ il classico luogo che induce al totale relax. I bambini si tuffano in acqua e curiosano in giro, Franci si concede un bicchiere di vino, io un margarita da urlo, che mi stordisce al punto da farmi smettere di pensare a quanto sia assurdo balzare, nell’arco di un’ora, da un villaggio polveroso a un alloggio sì confortevole.

VICKY

Vicky, una delle ragazze che lavorano al lodge, si prende cura di noi. Intuiamo subito che è una ragazza speciale. Entriamo presto in confidenza con lei. Ci facciamo qualche foto insieme e ci scambiamo i numeri di telefono. Anche adesso, a distanza di mesi, capita di scriverci o di vedere il suo cuore stampato sulle foto che pubblico sui famigerati stati di whatsapp. Galleggiamo leggeri fra dentro e fuori, leggiamo qualcosa, osserviamo il paesaggio e i colori che gradualmente cambiano forma e tonalità.

A FIOR DI PELLE

Arriva la sera, e con lei la solita brezza. Indossiamo una giacca e andiamo a cena. I tavoli sono illuminati appena. Il buffet è ricco e variegato, ci concediamo tanti piccoli assaggi. D’un tratto, lo staff del Damaraland si riunisce e inizia a cantare e danzare nella notte, mettendo in scena la consueta magia. Le loro voci sono caldi massaggi a fior di pelle.

L’oscurità ci culla e protegge, così prendo coraggio e ballo un po’ con la gente del posto. Perdiamo la cognizione dello spazio e del tempo. Non sappiamo più dove siamo esattamente, o che giorno sia. Non ha alcuna importanza. Non conservo altri ricordi di quella sera, che è una coperta calda e avvolgente sotto un oceano di stelle.

Namibia Family Adventure – Day 6 Dune’s Day

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africa, Cronache e Storie d'Osteria, mare, senza-categoria, turismo, Viaggi

NAMIB-NAUKLUFT NATIONAL PARK

Ci svegliamo prestissimo al Desert Quiver Camp, anche perché il vento non ci ha mai mollato e al mattino è persino aumentato di intensità, scuotendo la nostra dimora e i nostri sogni. Andiamo a fare colazione al Sossusvlei Lodge, dove non ci risparmiamo, come di consueto. Ma cerchiamo di fare in fretta, stamattina abbiamo appuntamento con le dune più alte al mondo. Per arrivarci dobbiamo entrare nel Namib-Naukluft National Park, percorrere circa 45 minuti di strada, e poi parcheggiare l’auto per attraversare l’ultimo tratto di strada con i mezzi del parco. Bisogna arrivare presto a destinazione, perché scalare la duna è faticoso e non ci possiamo permettere di farlo con il sole a picco.

FRANKLYN “TOPO” FINBAR

Alle 8 siamo già in macchina. Entriamo, paghiamo e procediamo speditamente verso il parcheggio indicato. Alle 8e45 siamo arrivati a destinazione. Avremmo potuto procedere oltre con il nostro Rover, e affrontare a viso aperto il suolo marziano, ma stavolta qualcosa mi ha indotto a cedere. E col senno di poi credo di aver avuto ragione. Saliamo a bordo di un 4×4 rialzato, piazzandoci in fondo, e subito ci rendiamo conto di quanto la sabbia sia profonda in certi punti. Il nostro driver – Franklin “Topo” Finbar- è un pazzo completo, procede a zig zag a velocità smodata, probabilmente per non restare incagliato sui fondali di questo oceano di sabbia.

L’ANIMA DI UN PAGLIACCIO

C’è una buona energia a bordo. Ridiamo a crepapelle, siamo in preda a un’euforia rivitalizzante, c’è una chimica positiva fra noi e gli altri passeggeri. Fra un salto e l’altro la mia anima di pagliaccio prende il sopravvento e pronuncia in mia vece, a voce alta e ben scandita -per evitare che si possa evitare di ascoltarle- le seguenti parole: “Entro due o tre balzi la mia colazione sarà qui con noi!”, e quelli che siedono davanti a noi ridono, il che mi rende felice come poche cose al mondo. Veder ridere gli altri per causa mia è un fenomeno a cui non ho mai saputo resistere: credo che nulla sia più gratificante. E far ridere persone sconosciute che provengono da chissà dove in un lingua che non è la mia lo è ancora di più.

“HANNO INIZIATO A SPINGERE, E HO INIZIATO A SPINGERE ANCH’IO”

Dopo poche curve l’autista si ferma: una ragazza dello staff è rimasta impantanata con la sua jeep e i turisti al seguito. Topo Finbar ci fa un cenno, e noi uomini scendiamo per dare una mano. Due spinte vigorose e la ragazza è di nuovo in pista. Vediamo altri mezzi in difficoltà lungo la strada. Da queste parti vige una diffusa predisposizione al mutuo soccorso, ma sono veramente felice di aver evitato di guidare. Affidandoci al nostro avatar Franklin “Topo” Finbar, ci siamo divertiti senza correre rischi reali, proprio come fossimo dentro Jumanji. Se avessi guidato, non sarei riuscito a mantenere quella velocità su un terreno tanto irregolare, e il rischio di arenarsi, o, peggio ancora, di cappottare, sarebbe stato consistente.

VIE TRAVERSE

Franklin ci invita a scendere dalla jeep, ma mentre tutti vanno in una certa direzione, gli chiedo qualche consiglio su un percorso più isolato e scenografico rispetto a quello convenzionale. Topo capisce al volo e ci invita a risalire, conducendoci qualche centinaio di metri più in là. Ci indica la direzione e noi ci avviamo fiduciosi. Non c’è nessuno in questa zona, ma lui ci assicura che è la scelta giusta per evitare la folla che spesso rallenta il cammino. Tutto vero, ci dirigiamo verso il punto d’approccio a Big Daddy, di cui non si intuisce la sommità.

PICCOLO CERVINO

Ci cambiamo e rinforziamo la protezione di viso e capo, per proteggerci dal sole e dal vento, e iniziamo a salire. Iri si piazza davanti, con Giamma subito a ruota. Grazie al loro peso esiguo, i bambini fanno meno fatica di noi adulti: i nostri passi affondano pesantemente nella sabbia, e a tratti si ha la sensazione di rimanere incagliati sempre nello stesso punto, di fare tanta fatica per nulla. Il silenzio qui regna indisturbato. L’unico sibilo è quello del vento, che trasporta a gran velocità granelli di sabbia invisibili che picchiano forte sulla pelle. Una sensazione simile a quella vissuta insieme a due miei amici del cuore in cima al Piccolo Cervino, quando ci colse una tempesta di ghiaccio e neve. I granelli di ghiaccio ticchettavano allora su di noi come quelli di sabbia adesso.

IMMAGINI IN DISSOLVENZA

Lo spettacolo che ci si fa innanzi è via via più imponente. Percorriamo le creste delle dune che curvano una dopo l’altra disegnando trame eccezionali. Siamo circondati da una bellezza inaudita, le tonalità ocra e rossastre della sabbia disorientano, e contrastano col bianco accecante della depressione che ci attende sull’altro versante. Questo luogo non ha inizio né fine, e sarebbe impossibile orientarsi se la via non fosse tracciata dalle orme di chi ci ha preceduto all’alba. Salendo, incrociamo alcune persone in difficoltà, fattore che desta in noi un pizzico di preoccupazione, che presto svanisce come immagini in dissolvenza. Il ferro ossidato presente nella sabbia tinge il deserto di rosa e di arancione. Più le dune sono scure e tendono al rosso, e più sono antiche. Gruppi di arbusti e pozze d’acqua effimera punteggiano il paesaggio rendendolo ancor meno realistico.

FREMEN

Adesso siamo Fremen, e cerchiamo l’acqua della vita di Arrakis. Il Naukluft è un sogno ad occhi aperti, uno dei più belli mai sognati. Camminiamo sul ciglio di questo mondo che si sgretola sotto i nostri passi. A tratti ho una sensazione assimilabile al mal di mare, perché questo luogo tanto remoto sembra avere a che fare con l’acqua, per quanto ciò possa sembrare assurdo. Il vento disegna sulla sabbia le stesse linee che regala in mare aperto: qui cambiano i colori e per quanto il vento stordisca senza pause, le onde e le linee delle creste sembrano immobili, immortalate in un fermo immagine vita natural durante. Eppure è un mondo di polvere, di cumuli di centinaia di metri di polvere che si accalcano e poi diradano e frastagliano in linee tanto dolci da rinsaldare il legame profondo che regna fra arte e natura. L’arte non avrebbe alcun senso senza la natura. E’ un posto inconcepibile, che non credo esista oltre i suoi confini onirici.

BIG DADDY

Continuiamo ad ascendere i 390 mutevoli metri di Big Daddy, che dicono sia la duna più alta al mondo, e, come spesso capita dove la magia regna, non avvertiamo più la fatica oltre l’incessante ticchettio dei granelli sugli indumenti e sulle rare porzioni di pelle concesse agli elementi. L’euforia del mattino non si placa e ci trascina in cima incuranti e leggeri, prima del tempo di arrivo previsto. Ci facciamo qualche foto, conosciamo un uomo che lavora nel parco, una di quelle persone di cui avverti subito e istintivamente l’energia. Credo alle cosiddette sensazioni di pelle senza alcun tentennamento. Nathan ha un modo di ridere contagioso, incontenibile e roboante, come quello di Eddie Murphy. La sua stretta di mano è forte e sincera. Ci facciamo una foto. Gli chiedo se per caso sia lui Big Daddy, se sia il risvolto umano della montagna di sabbia su cui ci troviamo. Nathan ride nel suo modo unico di ridere, come se avessi scoperto il suo segreto.

PRECIPIZIO DI FELICITA’

A quel punto osserviamo lo strapiombo che ci separa dalla pozza effimera di Deadvlei. Ora inizia il divertimento: ci togliamo le scarpe, guardiamo giù per un attimo, contiamo fino a tre e iniziamo scendere a valle a capofitto, chi saltando, chi rotolando, chi ballando, chi, forse, volando. I bambini gridano e ridono, io e Francy idem. Qui possiamo concederci il lusso di essere tutti bambini e di giocare liberamente. E’ un precipizio di felicità. Anche Big Daddy in persona scende con noi e con lo sparuto gruppo di turisti che ha accompagnato. Sembra che lo faccia per la prima volta, e invece è lì da sempre, la Duna è lui, e gode del divertimento che procura a quelli che corrono giù solleticandogli il dorso.

DEADVLEI

Arriviamo a valle e il paesaggio sembra persino più sorprendente. Il fondo è simile a quello della Death Valley, ma questo è più compatto e regolare rispetto a quello della depressione americana, nonostante le ovvie screpolature. Il suo colore è di un bianco che acceca e stordisce, tanto è carico di salinità. Da quaggiù, e solo da quaggiù, si intuisce la maestosità di Big Daddy, un vero e proprio muro di sabbia che incombe sulla superficie albina. Procediamo lungo la spianata ellittica, dove percepiamo in lontananza le ombre sghembe e spettrali degli alberi che un tempo qui vivevano. Camminando, osservo le linee dritte alla mia sinistra. Il primo strato è la linea bianca abbacinante del pianoro su cui ci troviamo. La seconda è quella arancione delle dune. La terza è quella azzurra del cielo. Qui l’artista non si è risparmiato, e la sua opera visionaria lascia senza fiato.

SERGIO LEONE

Procediamo sul fondo di questo lago effimero, seguendo i solchi tracciati dal fiume Tsauchab, un corso d’acqua timido, che si manifesta di rado, quando la pioggia scroscia e imperversa e lui si sente meno osservato. Le ombre che ammiravamo da lontano si avvicinano, sono ceffi scuri e poco raccomandabili, trasandati e sporchi per la loro incessante esposizione al calore e al freddo, al sole rovente e alla rara pioggia. Sembrano pistoleri sul set di un film di Sergio Leone, raffigurati nella loro ultima sparatoria, quella decisiva, che li consegnò alla leggenda. Oppure spaventapasseri, o esseri mostruosi e contorti, scolpiti dagli elementi, illusi dalla vana speranza di sopravvivere alle lande aride del Naukluft.

COSA E’ DAVVERO REALE?

Questi arbusti in realtà (ma cosa qui è davvero reale?) sono i resti fossili della foresta di acacie che qui un tempo prosperava, prima che i movimenti delle dune deviassero inesorabilmente il corso dell’acqua, tramutando l’oasi in una sorta di museo naturale a cielo aperto. Tali proiezioni del tempo rappresentano l’ultimo tocco dell’artista, quello che conclude e suggella l’opera, grazie al contrasto intenso che crea con lo sfondo.

SCHEGGIA FOSSILE

Restiamo vigili al cospetto dei gringos, mentre Iri non resiste e fa quel che non si deve fare, arrampicandosi su un’acacia per pochi istanti, prima che le intimiamo di scendere e che una scheggia le si conficchi in un dito. Ho pensato poi molto a quella scheggia infida, la scheggia del tempo, della memoria del mondo, conficcata per sempre nella mano di mia figlia, come fosse un monito a stare alla larga, a non avvicinarsi a quelle creature che, si, sembrano morte, ma non vogliono essere disturbate e possono mordere ancora, tante ne hanno passate. Ne hanno viste di cose che noi uomini non possiamo immaginare.

TRE CIME

A quel punto due ragazzi del posto, avendoci probabilmente visti arrivare dai piedi della Grande Duna, mi chiedono: ma siete andati su con i bambini? Voi siete pazzi! Ormai siamo abituati a circostanze simili: se non hai determinati tratti somatici e capiscono che non provieni da certe zone del pianeta, all’estero si stupiscono se fai certe cose. Se fossimo stati australiani o sudafricani, nessuno avrebbe fatto caso a noi. Avrei potuto e voluto spiegare a quei tizi, spinto da smisurato orgoglio paterno, che i miei figli hanno circumnavigato le Tre Cime e attraversato l’altopiano di Landmannaugar quando erano persino più piccoli, ma vai un po’ a spiegarlo a due giovani namibiani.

JUMANJI

Ci dirigiamo verso l’uscita “facile”, quella pianeggiante, percorsa dalle persone pigre e da quelle che hanno reali problemi di deambulazione. E’ comunque un bel tratto di strada, in cui si alternano sabbia e strati di crosta salina dalle forme più strane, che forniscono l’illusione ottica tipica del bassorilievo. Arriviamo al parcheggio principale, quello in cui Topo ci aveva lasciato col resto della comitiva. Il nostro Franklin merita una menzione ulteriore. Mi piace scriverne perché lo lego al remake di Jumanj, che ricordo con piacere perché non ho mai sentito ridere tanto i miei figli, ridere da spaccarsi, da cadere dal divano, da pisciarsi addosso, ridere di quelle risate che poi fanno ridere anche tutti quelli che ti stanno intorno

SESRIEM CANYON

Ci accodiamo a un gruppetto in attesa e di colpo rispunta il nostro avatar preferito. Ci riporta al parcheggio dei 4×2, dove paghiamo e riprendiamo il Rover. Siamo stati rapidissimi, come spesso ci capita. Sono soltanto le 11e30 e dobbiamo decidere il da farsi. Potremmo tornare alla capanna e fare uno spuntino, rilassarci un attimo, vista l’alzataccia del mattino, ma non è da noi, e dopo qualche foto panoramica decidiamo di dirigerci verso il Sesriem Canyon, una piccola ma affascinante gola profonda qualche metro e lunga un paio di km. Arriviamo verso le 13, dopo aver percorso una carrettiera dilaniante, e fatichiamo un attimo a trovare l’ingresso al canyon, perché non esiste segnaletica e ovviamente non c’è nessuno a cui chiedere.

ALMANNAGJA

Poi d’un tratto compaiono dal nulla una guida e il suo sparuto drappello e troviamo la fenditura attraverso cui scendere. Il canyon è un incanto, paragonabile per foggia e dimensioni ad Almannagjà, un piccolo canyon islandese che all’interno del parco Pingvellir conduce alle Oxararfoss, una delle miriadi di cascate locali. Qui non c’è traccia d’acqua e la roccia è chiara, e si potrebbe concludere che no, in effetti non c’azzecca una mazza, eppure la discesa graduale e le dimensioni del canyon e delle pareti mi hanno ricondotto per un attimo in quella cavità del Regno di Ghiaccio, che adesso sembra così distante, soprattutto concettualmente. L’Islanda è forse l’esatta antitesi della Namibia.

I PIRATI DI BENAGIL

Ma noi siamo qui, adesso. Percorriamo la gola con passo blando, godendo dell’ombra che occupa gran parte della superficie di nostra competenza. Le pareti ricalcano le forme più strane, di orchi elfi nani giganti e altre figure mostruose e deformi che mostrano il proprio volto forgiarsi e uscire gradualmente dalla roccia. E per tornare alla rubrica Corsi e ricorsi del Viaggiatore Indomito, sono costretto ad annotare che questi volti minacciosi somigliano in modo sconcertante a quelli che avemmo modo di osservare un anno fa in Algarve, dove raggiungemmo a bordo di una barca le grotte di Benagil. Facce piratesche, poco raccomandabili, facce truci, da contrabbandieri filibustieri assaltatori di carovane. Facce erose dal vento e dal mare, dal sole e dal sale.

MOSTRI

Saliamo e scendiamo dalle rocce abbarbicate sui margini del canyon, proseguiamo finchè la gola si apre fino a non apparire più tale e a perdere il suo fascino “stringente”. A quel punto torniamo indietro, e ci accorgiamo che c’è una biforcazione. Andiamo verso destra, dove il canyon sembra stringere le sue maglie e avvilupparsi su sè stesso, tanto che le facce di roccia, che qui si accalcano, sembrano osservarsi vicendevolmente in modo guardingo e circospetto, come se ogni personaggio si aspettasse la mossa dell’antagonista di turno da un momento all’altro. Inutile negarlo, transitare fra i menti e i nasi bitorzoluti di quei mostri fa sentire dannatamente osservati. Il canyon a quel punto ci inghiotte.

PAURE PRIMORDIALI

Mentre i mostri incombono su di noi, avvistiamo un serpente minuscolo e dei piccoli scarabei che fanno impazzire Irene: è terrorizzata in modo tale che capisco subito quel tipo di paura, che è inconscia e legata a una sfera misteriosa e ancestrale della memoria condivisa dagli uomini. Non c’è paura di ciò che è adesso, questa è una paura che arriva da lontano, una paura che si è depositata nella memoria di qualche nostro antenato primordiale, risalente a quando grande e piccolo avevano un’altra relatività e a quando magari quegli scarabei erano giganti, e predatori dell’uomo, a quando gli scarabei, nelle altalenanti e romanzesche vicende dell’evoluzione, eravamo noi. Il che peraltro non esclude che continuiamo ad esserlo, in diversa misura. L’indole artistica e svagata di mia figlia deriva da tale fenomeno: credo che lei abbia accesso ad alcune informazioni che non sono comunemente fruibili, credo che lei intuisca qualcosa delle profondità della natura umana e della vita in generale. Credo che le sue porte della percezione lascino intravedere uno spiraglio che resta precluso ai più. Un po’ come capitava a Zia Gina. Per questo motivo Irene è disinteressata a gran parte delle vicende ordinarie che la quotidianità impone. Le auguro di preservare questo dono a lungo.

ACQUA

Procediamo inerpicandoci fra le rocce, risalendo poi attraverso una fenditura abbastanza stretta, fino ad avvertire uno strano odore legato a un fenomeno raro da queste parti, soprattutto a quest’ora: l’umidità. C’è una piccola pozza riparata all’ombra di una grotta, una delle rare che avremo modo di ammirare così da vicino. Immagino quanto sia preziosa per le forme di vita che si aggirano da queste parti.

“YOU’RE IN THE DESERT“

Torniamo indietro e per le 14e30 siamo nuovamente in macchina. L’idea, a quel punto, è di andarsi a rilassare in piscina, godendoci un pochino il luogo fantastico in cui alloggiamo. Facciamo benzina e torniamo al Desert Quiver Camp. Scopriamo con dispiacere, soprattutto per i bimbi, che la piscina è chiusa a causa del vento, e che aprirà non appena questo diminuirà la sua portata. Il tempo a disposizione è poco perché poi dalle 17 inizia a farsi freddo, e la speranza che la piscina apra rimarrà tale. Francy passa in reception e chiede come mai il vento non cessi mai. Il tizio la guarda e le risponde, laconico: You’re in desert. Ne approfittiamo per riposarci e rimetterci in sesto prima della cena. Stasera andiamo al Sossusvlei Lodge, che credo sia l’unico ristorante della zona.

TANTO TUTTO E’ TROPPO

Il buffet offre vari tagli di carne e talmente tante pietanze da far confusione: la mia visuale è limitata quando il campo visivo offre troppe informazioni in uno spazio troppo piccolo, e così improvvisamente quel tutto diventa niente. In proposito, continuo a non capire come facciano tante donne a individuare oggetti interessanti in mezzo a pandemoni quali bancarelle, bigiotterie ed ognuna di quelle botteghe strapiene fino all’inverosimile di cianfrusaglie di ogni tipo. Il mio cervello non è in grado di elaborare immagini singole al cospetto di inferni simili, in cui non esiste spazio o respiro fra un oggetto e l’altro. Comunque, se qui al Sossusvlei il cibo che riesco a selezionare è buono, il problema è che si mangia all’aperto, e che sembriamo gli unici in difficoltà a cospetto del freddo del deserto, i soli probabilmente che chiedono coperte per non morire congelati.

LOST HIGHWAYS

Dopo cena andiamo a bere una cosa intorno a un falò che sta sul retro della struttura. I divanetti sono posizionati in direzione di alcuni siti illuminati, in cui transitano varie razze di antilopi per bere o sgranocchiare qualcosa. Parliamo un po’ con i membri di una famiglia tedesca in vacanza. Ci raccontano che dormono lì e che non vedono l’ora di trasferirsi, l’indomani, al Desert Quiver, il nostro posto. Mi piace immaginare che abbiano preso il nostro posto in struttura, l’indomani. Sono le 21e30. E’ notte, notte fonda, la stanchezza si fa sentire. Decidiamo di tornare. La strada è deserta e priva di illuminazione, la notte limpida, le stelle fanno festa in cielo. Buio e silenzio ci accompagnano a braccetto verso casa. Come è nostro costume, non opponiamo resistenza.

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