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Namibia Family Adventure Day 8 – Sandwich Harbour Day

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Cronache e Storie d'Osteria, italy, photography, travel, Viaggi

FLUSSO CANALIZZATORE

Ci svegliamo di buon’ora come di consueto, ma mi avvisano via mail che l’escursione prevista al mattino è stata spostata a mezzogiorno per le avverse condizioni del vento e del mare. E dato che dovremo transitare lungo un tratto di spiaggia sottile che va e viene con le maree, ci adeguiamo senza protestare. Abbiamo fatto bene ad affidarci per una volta ad un tour locale. Non avremmo mai potuto prevedere problemi simili se avessimo tentato l’escursione in autonomia. Ancora una volta ho modulato i miei azzardi, convogliandoli nel flusso canalizzatore del buon senso.

THE WALKING DEAD

A quel punto rallentiamo e ce la prendiamo con calma, abbiamo tempo per bighellonare un po’. Mangiamo tranquillamente, per quanto la colazione (proprio oggi!) sia molto più scarna del solito. Andiamo a fare un giro. Prima portiamo i ragazzi in un parco giochi assai fatiscente: sembra più un bivacco che un luogo dedicato ai più piccoli. Notiamo un gruppo di non morti defilati fra gli alberi. D’un tratto svaniscono, assorbiti dall’ombra densa e ancestrale delle piante. Ci spostiamo lungo mare, in un punto in cui possiamo ammirare da vicino una quantità spropositata di flamingo.

THE WALKING POS

Torniamo al nostro appartamento e alle 12 l’addetta alla reception ci chiama. Un cowboy ci attende a bordo di un fuoristrada. Il suo nome è Andrew Strauss. Facciamo tappa nel punto esatto in cui eravamo stati pochi istanti prima. Le jeep sono tante. Una tizia si aggira fra i mezzi col pos. Non avevo mai visto un pos vagare fra i clienti in un parcheggio. Paghiamo mentre tutti gli autisti iniziano a sgonfiare gli pneumatici a pressioni mai viste. Andrew depressurizza fino a 0.7. Le gomme sono sostanzialmente a terra. Ci spiegano che è l’unico modo per arrampicarsi sulle dune, e non abbiamo ancora idea di quanto siano alte e di dove finiremo poi. I drivers eseguono dei test radio, per verificare se i walkie talkie di cui sono muniti funzionino bene. Scelgono la frequenza migliore e poi si parte a gruppi di 4-5 fuoristrada per volta.

ANDREW STRAUSS & JOHNNY CASH

Andrew Strauss ha più di 70 anni e un gran fisico. E’ sudafricano ma di origine austriache. Fu suo nonno ad emigrare in Africa all’inizio del 900. Ci racconta di essere un discendente del noto compositore. Io gli credo. Ascolta musica country, ed ogni sosta è buona per scendere a fumarsi una sigaretta. Lo fa con discrezione, dato che in tanti Paesi stranieri fumare è considerata abitudine desueta e gesto quanto meno esecrabile. Andrew ascolta ottima musica country. Riconosco chiaramente Johnny Cash (il suo timbro è inconfondibile) e Hank Williams. Gli spiego che nei miei tragitti a volte mi rilasso ascoltando “An American History” di Johnny Cash e mi guarda sorpreso. “Very strange for an italian man”- mi dice con la sua voce calda e corrosa dal fumo e dal tempo.

ARTEMIA SALINA

Attraversiamo immense saline, dove montagne biancheggianti e lunghi canali dominano il paesaggio. A un certo punto ci fermiamo in prossimità di canali in cui l’acqua assume colorazioni che vanno dal rosa al rosso. Andrew ci spiega che in quell’acqua vive un minuscolo gamberetto rosa di cui i fenicotteri vanno ghiotti. E sembra sia proprio quell’animaletto a munirli della tipica colorazione. Avvistiamo tantissimi uccelli lungo la costa, fra cui maestosi pellicani.

Dai frequenti contatti radio si capisce che il cammino della carovana è sincronizzato. Chi è davanti aggiorna gli altri sullo stato del percorso inventato che andremo a compiere. Inizialmente siamo su una grande spiaggia. Attraversiamo il bagnasciuga, schizzando acqua da tutte le parti, per la felicità di Gim e Iri.

NAMIB NAUKLUFT PARK

Ci fermiamo in prossimità di un cartello di legno che sancisce l’ingresso al Namib Naukluft Park. Penso al fatto che il giorno prima eravamo nello stesso parco, a cavallo delle dune che si trovano nell’entroterra, a centinaia di km da lì, e a quanto sia esteso quel deserto immane. La sosta serve per bere una bibita e per adunarsi. Una graziosa bimba francese si avvicina ai miei e subito scatta l’intesa istintiva che spesso sboccia fra ragazzini: privi come sono delle sovrastrutture tipiche del mondo dei grandi, i bambini hanno una predisposizione naturale a instaurare una concordanza tale da vanificare ogni barriera linguistica.

CASCATE DI SABBIA

Dopo qualche minuto si riparte. Andrew canticchia i suoi motivetti, mentre le dune iniziano ad avanzare e a moltiplicarsi tumultuosamente da sinistra e a spingerci su una striscia di sabbia sempre più sottile, finchè non ci sono a ridosso e la pista diventa poco più di un’idea strampalata. Ci fermiamo in un punto casuale dove ci arrampichiamo sulla duna per saggiare il vento impetuoso dell’oceano e ammirare il deserto dal suo ciglio estremo. Dicono che questo paesaggio sia unico al mondo, che non esista altrove una simile distesa di dune a ridosso del mare. Chissà se è vero.

GLI OCCHI DELLA MENTE

In alcuni tratti il mare sembra voler inghiottire la spiaggia, in altri concede più spazio e respiro. E’ un luogo bellissimo, che conservo negli occhi della mente. D’un tratto la spiaggia si allarga di nuovo e iniziamo a virare verso sinistra, in direzione delle dune. Siamo i primi della cordata, Andrew detta modi e tempi ai colleghi meno esperti.

SOPRAELEVATE IN POLVERE

Arriviamo in prossimità delle dune più grandi. Il nostro cowboy sceglie un punto con cura, poi si ferma, e subito dopo aver inserito le ridotte inizia la scalata. Da qui in avanti, produrrà uno strano sibilo nei tratti più impervi, come per concentrarsi o per esorcizzare il momento. Non abbiamo idea di come si orienti o di dove siamo diretti, non ci sono punti di riferimento. Saliamo, scendiamo e curviamo su queste sopraelevate in polvere. Ci rendiamo conto delle reali pendenze quando diamo un occhio ai fuoristrada che ci seguono. A bordo non si ha la sensazione di quanto sia profonda la tana del bianconiglio. E’ ovvio che sia Andrew a rendere tutto più semplice, con la sua abilità e quel suo mantra sonoro a rimorchio.

RIO DE JANEIRO

Arriviamo in cima e ci fermiamo. Il vento è sempre più potente, ma è un elemento d’arredo del deserto, come se fosse parte del paesaggio. Le dune qui sono straordinarie, morbide, avvolgenti. Davanti a noi l’oceano sterminato. Fra noi e Rio de Janeiro, fra l’Africa e il Brasile non c’è nulla a parte l’acqua. Sotto di noi una lingua di sabbia circoscrive uno specchio d’acqua blu cobalto. Fra le dune e il mare si stende una macchia di vegetazione di un verde elettrico. Percorriamo un crinale in stato d’ebbrezza, Gim e Iri corrono senza direzione, caracollano, sterzano improvvisamente e fanno salti e capriole. I loro sorrisi sanno di libertà. Fra le maglie del vento sento immancabilmente gridare: “Jiiiim!! Vieni a ballare con me!”.

FRA IL NAMIB E L’ATLANTICO

Pare che Sandwich harbour si chiami così perché la sottile striscia di terra che osserviamo dall’alto è stretta nella morsa fra deserto e oceano. Namib e Atlantico la cingono d’assedio da entrambi i lati, ma essa resiste, indomita, respingendo strenuamente i colpi dei giganti che mirano a sopraffarla. La sensazione di beatitudine che ci pervade somiglia a uno stato di grazia, a quando hai rotto il fiato e corri senza fatica, con la testa sgombra dagli impicci della quotidianità.

SALISCENDI E SEMICERCHI

E’ un peccato ripartire ma spesso la transitorietà rende più preziose certe esperienze. E poi bisogna accettare quello che viene quando affidi il timone a un altro. Continuiamo il saliscendi fra le dune, ci addentriamo un po’ nell’entroterra. Qua e là una rada vegetazione punteggia il paesaggio. Avvistiamo alcuni springbok rilassati fra i cespugli.

Poi scivoliamo in una piccola depressione fra le dune dove le 4 jeep del gruppo si fermano a semicerchio. Andrew e gli altri aprono i portabagagli e iniziano ad apparecchiare un tavolo da picnic. Tirano fuori da bere e da mangiare. E per quanto il prosecco che ci offrono sia di scarsa qualità, è un piacere tracannarne qualche bicchiere, visto il caldo stagnante che regna nella conca.

VIA DI FUGA

Mangiamo, beviamo, socializziamo un po’ con gli altri turisti, per lo più francesi. Poi smontiamo le tende, avendo cura di non lasciare traccia del nostro passaggio. Scendiamo di nuovo verso la spiaggia, dove notiamo che la striscia percorribile si è ristretta ulteriormente. E in effetti procediamo a passo spedito, probabilmente perché le maree conservano margini di imprevedibilità.

L’ACQUA ROSSA DEL CANALE

Usciamo dal parco e quando torniamo in prossimità dei canali rossi, ci fermiamo di nuovo. I bambini riposano dietro con Franci. La carovana si è via via dissolta. Andrew mi dice di scendere e di seguirlo. Prende l’acqua del canale e se la spalma sulle mani e sulle braccia.

Faccio come lui e dopo un minuto mi accorgo che, come mi aveva spiegato, la pelle è diventata liscissima. Mi sfrego le mani sul viso per sentirne l’incredibile morbidezza. Il mio amico cowboy mi aveva spiegato che è tutto assolutamente naturale, ma io inizio ad avvertire uno strano prurito al viso e alle braccia. Non ci bado più mentre torniamo a casa.

Mr Strauss ci lascia davanti al cancello, lo salutiamo. Gli stringo la mano perché non mi pare tipo da abbracci. Hi my friend – mi dice, andandosene. Avrò modo di ripensare a lui.

FITZGERALD

E’ stata una giornata leggera per i nostri standard e andiamo a cena senza la solita dilagante spossatezza. Seguiamo le indicazioni per un ristorante in riva al mare. Il posto non sembra promettere nulla di buono. Nei pressi del parcheggio insistono alcune baracchine che vendono oggetti di artigianato locale. I venditori sono meno aggressivi di quelli del giorno prima, e ci permettono di dare un’occhiata e di acquistare senza fretta i loro manufatti.

Procediamo verso il ristorante. E’ carino e accogliente, ci accomodiamo vicino al mare. Un altro bel tramonto è alle porte, lo attendiamo con morbidezza, come in un romanzo di Fitzgerald.

LA ISLA DEL VIENTO

Il sole ci culla mentre scende placido fra le imbarcazioni e le costruzioni in legno. I colori di questa sera raggiungono tonalità di rosa impensabili. Una luce simile me la ricordo probabilmente solo a Ca’ Mari, una spiaggia selvatica nel versante meridionale di Formentera, dove -sul far di una sera d’incanto- un sipario rosa calò senza preavviso, colmando ogni spazio disponibile.

Era il 2007, e dentro la nuvola rosa che ci colse alla sprovvista c’eravamo soltanto io, Francesca e la Isla del viento.

MAALOX PLUS

Dopo aver mangiato ci ritiriamo. Nel gran finale i ragazzi si concedono un bagno rilassante a casa, attratti dalla grande vasca, oggetto per loro semi sconosciuto. Andiamo a dormire, e nelle rotazioni finisco da solo in una camera da letto. La finestra è aperta, e inizio ad avvertire l’odore pungente della sera prima. Non ci faccio tanto caso finchè inizio a respirare male. Il reflusso è un mio compagno di viaggio quasi costante, così provo a placarlo col maalox. Chiudo la finestra. Ma continuo a respirare male, mi pare quasi di soffocare. Mi alzo per cercare di riprendermi. L’ultima speranza si chiama Refluxan: una volta mi salvò dalle polveri dell’Etna, che all’epoca mi avevano ostruito le vie respiratorie. Ma stavolta non funziona.

SALVIA DIVINORUM

A un certo punto avverto un blocco di stomaco. Cerco di scuotermi. Mi bagno viso e collo con l’acqua gelida. Ma comprendo ben presto che quel malessere è solo un accessorio prodromico alle montagne russe che ne seguiranno. E dopo qualche istante inizio a contorcermi, letteralmente. Sto male, la sensazione è quella di una girandola che volteggia incessantemente nello stomaco. Pare l’effetto lavatrice della salvia degli dei. Un moto incessante che mira a liberare materiale in entrambi i sensi di marcia. Trascorro ore interminabili fra il letto e il bagno.

DELIRIO PARANOIDE

E’ un delirio che aumenta con la devastazione e l’assenza di sonno. Sto male e sto ancora più male al pensiero del tragitto complesso che dovrò compiere fra poche ore. Ma non ho alternative, e l’idea mi terrorizza. Allo specchio vedo uno zombie. Bevo ma non trattengo più nemmeno l’acqua. E’ una dissenteria fulminante, che non fa sconti. Scatta una fase allucinatoria e paranoica. Partorisco sindromi da accerchiamento a castello. Forse mi hanno avvelenato al ristorante, o forse è in corso una fuga di gas chimici da qualche stabilimento in zona, oppure la colpa è di Andrew che mi ha fatto immergere le mani nel canale per farmi uno scherzo sadico, mortale.

LA METAMORFOSI

Avverto la presenza del microorganismo che ospito, lo visualizzo, lo sento ridere, dimenarsi e divertirsi in modo malefico, scuotere la coda rabbiosamente per liberarsi di me. Trattengo l’anima a stento. Sento la febbre salire. Vaneggio. Inizio a temere di cambiare colore, di mutare forma come nella Metamorfosi di Kafka, di trasformarmi in uomo-fenicottero, di diventare un mostro.

INLAND EMPIRE

Franci si accorge del mio stato, mi versa qualcosa in bocca, forse fermenti lattici, ma non ne so abbastanza perché non sono più presente. E’ l’ospite a comandare il traffico, a ragionare per me. E non mi molla fino all’alba. D’un tratto la baraonda sembra attenuarsi, l’Impero della mente placa la sua ingordigia. Svengo letteralmente pochi secondi prima che la luce timbri il cartellino.

Namibia Family Adventure Day 7 – Capricorn day

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Sveglia alle 7e30. Gim ha già le antenne dritte, come un cerbiatto. Iri ha ancora i sogni mezzi aperti, gli occhi liquidi e carichi di visioni notturne. Io e Franci ci muoviamo rapidamente dentro la capanna. Dobbiamo raccogliere le nostre cose, oggi lasciamo Sesriem per avviarci verso la costa atlantica. Il rover piazzato a un passo dalla porta di casa è un toccasana per chi, come noi, fa e disfa bagagli continuamente.

TRAIETTORIE DI VIAGGIO

Le nostre dinamiche di viaggio rappresentano pura follia per tante persone. Per noi è la norma. Facciamo così da prima che i bambini nascessero, abbiamo continuato a farlo quando i bambini avevano pochi mesi, e non abbiamo mai smesso. Non sapremmo impostare un viaggio diversamente, e, dal canto nostro, non riusciamo a capire chi si ferma a lungo in un posto. Il viaggio è una delle rare opportunità che abbiamo per metterci in gioco, per scoprire e inventare il mondo, ogni giorno. Capita di incontrare viaggiatori simili a noi lungo il cammino, di condividere racconti ed esperienze, o di provare a farlo, quasi che un certo approccio al mondo tracci un sentiero comune. Le traiettorie di certi viaggiatori sono destinate a incontrarsi prima o poi, in un dato luogo, momento o circostanza.

LE FORME DEL VENTO

Passiamo in reception, dove salutiamo i gestori o presunti tali e Franci fa notare loro che il vento non ha mai smesso di soffiare. “You’re in the desert”, risponde uno di loro, laconico. E in effetti avremo a che fare col vento anche nei giorni a venire. Non dimenticherò il Desert Quiver Camp: luogo essenziale, caratterizzato da architetture minimali, nate per ridurre al minimo l’attrito del vento. Somiglia a un set, e non mi stupirei se domani smontassero tutto per rimontarlo Altrove. Mangiamo senza risparmiarci al Sossusvlei Lodge, e poi ci mettiamo in cammino.

Oggi dobbiamo percorrere la C13 fino a Solitaire, e a seguire la famigerata C14, una delle strade che la società di noleggio ci ha segnalato il giorno del ritiro del mezzo. Il vento solleva la sabbia in ogni direzione, tanto che i granelli a un certo punto disegnano le forme, la direzione e i ghirigori del vento, gli danno corpo, lo rendono percepibile.

SOLITAIRE

Fra svolazzi e mulinelli aerei arriviamo a Solitaire, un crocicchio fatiscente noto per essere uno degli ultimi avamposti utili a far rifornimento prima della costa e per la McGregor’s Bakery, una botteguccia che sforna torte di mele leggendarie, a quanto si narra. Solitaire sembra l’insediamento di un film western. Uno di quei luoghi a ridosso del nulla, in cui rifornirsi di generi di prima necessità e far riposare i cavalli prima di avviarsi verso l’ignoto.

Lungo la breve lingua di sabbia che l’attraversa sfilano una pompa di benzina, un forno, un piccolo lodge, un negozio di souvenir e generi alimentari. Null’altro. Una girandola segnavento arrugginisce sotto il sole cocente. Qualche relitto automobilistico affonda lentamente nella sabbia: il deserto corrode e ingloba lentamente le lamiere di Cricchetto e di altri mezzi abbandonati. Fuori il vento imperversa, e le ragazze decidono di restare al riparo.

LO SPAZIO MAGICO

Io e Gim facciamo fatica a reggerci in piedi e a camminare. Ci facciamo incartare due porzioni di torta di mele, facciamo un giro nel negozietto adiacente e acquistiamo una specie di maraca per pochi spicci. In Africa ci è capitato di rado di restare da soli, ed è dolce il ricordo di quei pochi minuti con mio figlio a Solitaire, come fosse uno spazio magico, una nicchia mnemonica, la nostra oasi minuta nel tempo oceanico. Corriamo a zigzag verso la macchina, ridendo e derapando a causa del vento che disorienta e destabilizza. E’ un vento carico di follia, un vento infestante, che spazza un paesaggio surreale e stralunato.

TROPICO DEL CAPRICORNO

Riprendiamo il cammino. Dopo un’oretta superiamo il Tropico del Capricorno, entriamo nella zona torrida. Ogni tanto mi fermo e scendo per fare qualche foto. Verso mezzogiorno vediamo un po’ di gente passeggiare su un piccolo promontorio e decidiamo di scendere per andare a dare un’occhiata.

GLI SPECCHIETTI RETROVISORI DELLA MENTE

E’ il Kuiseb river viewpoint, ma del fiume Kuiseb ovviamente non sembra esserci traccia. E’ un altro corso d’acqua effimero, come questa terra, che sembra esserci e non esserci, che rappresenta un’illusione, un gioco di prestigio, un frammento onirico di spazio tempo, una dimensione che forse abbiamo soltanto sognato, un istante che nasconde un altro istante nuovo di zecca, lo specchio effimero della caducità della vita degli individui al cospetto della vita del cosmo. Vedo questo quando riguardo la Namibia dagli specchietti retrovisori della mente.

Il vento ci trasporta a destra e a manca, si insinua fra noi come fosse vivo, e gioca e spinge e ci agguanta e poi concede giravolte e ricomincia il giro, incessante, senza mollarci mai. La luce è travolgente, la camera del mio smartphone sorride quando inquadro il mondo illuminato dalla nostra stella. Ci arrampichiamo sulle rocce, scattiamo altre foto, facciamo scorta visiva della meraviglia che ci avvolge, e poi torniamo al rover per proseguire il cammino verso il mare.

La strada inizia a diradare verso la pianura, ma non richiede né sforzi né particolari abilità: la C14 è priva di asfalto ma doma, imbrigliata com’è dalle livellatrici e dai rulli stradali che la rendono docile e piacevole al cospetto delle strade ben più insidiose del recente passato. Chissà perché la inseriscono fra le strade a rischio.

DANZE AEREE

Alle 14 entriamo a Walvisbay. Prima di arrivare a destinazione ci fermiamo nella Flamingo lagoon, una baia stracolma di fenicotteri rosa. Li osserviamo nella loro elegante magnificenza. Si nutrono, chiacchierano, battibeccano, si sollevano concedendosi danze aeree prodigiose. Un immenso aquilone rosa che dispiega ali a profusione sopra le rive dell’Atlantico del sud.

APPENDICE INDUSTRIALE

Poi andiamo in città. Ci sistemiamo nel grande appartamento che sarà la nostra casa per due notti, ci rilassiamo un attimo e ripartiamo alla volta di Swakopmund, graziosa cittadina costiera a mezzora di macchina da lì. In effetti Walvisbay non ha alcun fascino, sembra una sorta di appendice industriale di Swakopmund, ma abbiamo scelto questa località per essere più vicini a Sandwich Harbour, la destinazione di domani. Col senno di poi, lo avrei evitato con tutte le forze, ma non è ancora il momento di spiegare perché.

L’ASSALTO

A Swakopmund parcheggiamo il rover nei pressi di un ristorante a picco sul mare. Ci avviamo a piedi verso l’Open Craft Market, un grande spazio in cui i locali vendono pezzi di artigianato. Il posto è carino, ma non siamo preparati all’assalto che avverrà di lì a poco. E’ impossibile fermarsi per più di pochi istanti a osservare la merce, perché i venditori ci assalgono letteralmente, con veemenza. Ci mettono in mano tutto quel che osserviamo o indichiamo, si ostacolano a vicenda, non ci consentono di goderci il momento, un po’ perché siamo quasi gli unici ad aggirarci fra i vari espositori e un po’ perché probabilmente per loro vendere non rappresenta un dettaglio, ma la vita stessa. Individuiamo una cornice di legno guarnita da  sculture filiformi. La acquistiamo e scappiamo via.

HEMINGWAY

Pochi passi e siamo sul mare. La forza dell’acqua è possente, la spiaggia bella e selvaggia. Tanta gente fa il bagno, cosa che stranamente i nostri bambini, che hanno già assaggiato le acque gelide dell’Atlantico del nord, si astengono dal fare. Il sole rosso fuoco incombe e furoreggia, scende verso la linea dell’orizzonte stendendo i propri raggi fra le onde e tutto intorno. E’ un luogo di pace e relax, che sa di Hemingway. Il frusciare e l’infrangersi del mare sono gli unici elementi sonori disponibili. Ci concediamo piaceri semplici. Gelato per i bimbi, flights di birra per mamma e papà.

Poi le animelle trovano il modo di litigare su una parete da arrampicata e per sbollire li trasciniamo verso la fine del molo, senza l’intento di gettarli a mare, ma per ripristinare la pace. E funziona. Osserviamo in silenzio il sole divampare e poi inabissarsi nell’oceano sterminato, in un gesto di pura contemplazione. Al cospetto delle forze immani che governano l’universo il tempo stesso pare fermarsi. Dentro momenti simili riesco a scovare l’unica accezione della parola “sacro” che sono in grado di concepire.

Decidiamo di tornare al parcheggio passando dalla spiaggia.

TERMINATOR

Osservo Franci e i bambini, i miei tesori più preziosi, mentre giocano sul ciglio del mare a rincorrersi con le onde. E’ un’immagine preziosa, che conservo ben stretta in memoria. Quei tre bei ceffi rappresentano il mio motore, il motivo per cui ogni sacrificio diventa accettabile, e ogni cosa sensata. Nell’esaltazione auto-celebrativa del momento, sento la voce di Sarah Connor dire di me: “Il terminator non si sarebbe mai fermato, non li avrebbe mai lasciati, gli sarebbe stato sempre accanto e sarebbe stato pronto a morire per loro”.

A volte penso che il motore delle nostre avventure sia una certa follia. Penso però  che sia una pazzia misurata e sotto controllo, e sento che questa sorta di dissennata leggerezza, mia e di Franci insieme, sarà utile a Gim e Iri in qualche maniera. Rifletto sul peso della responsabilità che ho avvertito nella settimana appena trascorsa, penso alle buche e ai crateri schivati e a quelli ancora da schivare, penso che non vorrei essere da nessun’altra parte, penso ai prossimi viaggi, a quanto ancora i nostri bambini ci seguiranno in giro per il mondo, penso alla vita e a quel ristorante a picco sul mare, che sarebbe il luogo ideale in cui cenare con la mia famiglia.

DAVID LYNCH – UNA STORIA VERA

La famiglia mi rammenta David Lynch, morto due giorni fa, proprio mentre rielaboravo i miei diari africani. Penso a uno dei suoi film, “Una storia vera”, che ieri ho rivisto insieme a Gim e Iri, che hanno ovviamente gradito, e alle parole del buon vecchio Alvin: “Quando i miei figli erano molto piccoli, facevo un gioco con loro. Gli davo un bastoncino, uno ciascuno, e gli chiedevo di spezzarlo. Non era certo un’impresa difficile. Poi gli dicevo di legarli in un mazzetto e di cercare di romperlo, ma non ci riuscivano. Allora io gli dicevo: vedete quel mazzetto? Quella è la famiglia.“

REGGAEMAN

Siamo fortunati. Il Tug è quasi pieno, la terrazza a picco sul mare è stracolma, ma alle 19e30 rimediamo un tavolino perfetto per noi. Mangiamo del buon pesce, ma siamo stanchi e la branda chiama. Alle 21 usciamo. C’è un cantante reggae all’uscita.

Il suo sorriso è raggiante, la sua voce calda. Lo ascoltiamo per un paio di minuti. Lo abbraccio, ci facciamo una foto insieme e lo salutiamo. Mentre guido nella notte verso Walvisbay penso che non sono la stessa persona di sempre. Penso che il me viaggiatore compia azioni e scelte diverse da quelle del me di tutti i giorni. Penso che se avessi incontrato quel reggae man a Jesi non lo avrei degnato di particolari attenzioni. Mi chiedo perché in viaggio sono una persona migliore, o quanto meno più recettiva. Probabilmente, viaggiare mi rende in un certo senso libero di essere chi vorrei essere davvero, sempre.

Nel frattempo ci avviciniamo alla città e gradualmente avvertiamo un odore acre, chimico, che punge occhi e polmoni. Per fortuna in casa l’aria è pulita, ci addormentiamo rapidamente, cullati dai dubbi di sempre e dagli spiragli di bassa marea in cui ci infileremo domani.

Namibia Family Adventure – Day 6 Dune’s Day

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Posted by osteriacinematografo in Pensieri, Storie, Viaggi

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africa, Cronache e Storie d'Osteria, mare, senza-categoria, turismo, Viaggi

NAMIB-NAUKLUFT NATIONAL PARK

Ci svegliamo prestissimo al Desert Quiver Camp, anche perché il vento non ci ha mai mollato e al mattino è persino aumentato di intensità, scuotendo la nostra dimora e i nostri sogni. Andiamo a fare colazione al Sossusvlei Lodge, dove non ci risparmiamo, come di consueto. Ma cerchiamo di fare in fretta, stamattina abbiamo appuntamento con le dune più alte al mondo. Per arrivarci dobbiamo entrare nel Namib-Naukluft National Park, percorrere circa 45 minuti di strada, e poi parcheggiare l’auto per attraversare l’ultimo tratto di strada con i mezzi del parco. Bisogna arrivare presto a destinazione, perché scalare la duna è faticoso e non ci possiamo permettere di farlo con il sole a picco.

FRANKLYN “TOPO” FINBAR

Alle 8 siamo già in macchina. Entriamo, paghiamo e procediamo speditamente verso il parcheggio indicato. Alle 8e45 siamo arrivati a destinazione. Avremmo potuto procedere oltre con il nostro Rover, e affrontare a viso aperto il suolo marziano, ma stavolta qualcosa mi ha indotto a cedere. E col senno di poi credo di aver avuto ragione. Saliamo a bordo di un 4×4 rialzato, piazzandoci in fondo, e subito ci rendiamo conto di quanto la sabbia sia profonda in certi punti. Il nostro driver – Franklin “Topo” Finbar- è un pazzo completo, procede a zig zag a velocità smodata, probabilmente per non restare incagliato sui fondali di questo oceano di sabbia.

L’ANIMA DI UN PAGLIACCIO

C’è una buona energia a bordo. Ridiamo a crepapelle, siamo in preda a un’euforia rivitalizzante, c’è una chimica positiva fra noi e gli altri passeggeri. Fra un salto e l’altro la mia anima di pagliaccio prende il sopravvento e pronuncia in mia vece, a voce alta e ben scandita -per evitare che si possa evitare di ascoltarle- le seguenti parole: “Entro due o tre balzi la mia colazione sarà qui con noi!”, e quelli che siedono davanti a noi ridono, il che mi rende felice come poche cose al mondo. Veder ridere gli altri per causa mia è un fenomeno a cui non ho mai saputo resistere: credo che nulla sia più gratificante. E far ridere persone sconosciute che provengono da chissà dove in un lingua che non è la mia lo è ancora di più.

“HANNO INIZIATO A SPINGERE, E HO INIZIATO A SPINGERE ANCH’IO”

Dopo poche curve l’autista si ferma: una ragazza dello staff è rimasta impantanata con la sua jeep e i turisti al seguito. Topo Finbar ci fa un cenno, e noi uomini scendiamo per dare una mano. Due spinte vigorose e la ragazza è di nuovo in pista. Vediamo altri mezzi in difficoltà lungo la strada. Da queste parti vige una diffusa predisposizione al mutuo soccorso, ma sono veramente felice di aver evitato di guidare. Affidandoci al nostro avatar Franklin “Topo” Finbar, ci siamo divertiti senza correre rischi reali, proprio come fossimo dentro Jumanji. Se avessi guidato, non sarei riuscito a mantenere quella velocità su un terreno tanto irregolare, e il rischio di arenarsi, o, peggio ancora, di cappottare, sarebbe stato consistente.

VIE TRAVERSE

Franklin ci invita a scendere dalla jeep, ma mentre tutti vanno in una certa direzione, gli chiedo qualche consiglio su un percorso più isolato e scenografico rispetto a quello convenzionale. Topo capisce al volo e ci invita a risalire, conducendoci qualche centinaio di metri più in là. Ci indica la direzione e noi ci avviamo fiduciosi. Non c’è nessuno in questa zona, ma lui ci assicura che è la scelta giusta per evitare la folla che spesso rallenta il cammino. Tutto vero, ci dirigiamo verso il punto d’approccio a Big Daddy, di cui non si intuisce la sommità.

PICCOLO CERVINO

Ci cambiamo e rinforziamo la protezione di viso e capo, per proteggerci dal sole e dal vento, e iniziamo a salire. Iri si piazza davanti, con Giamma subito a ruota. Grazie al loro peso esiguo, i bambini fanno meno fatica di noi adulti: i nostri passi affondano pesantemente nella sabbia, e a tratti si ha la sensazione di rimanere incagliati sempre nello stesso punto, di fare tanta fatica per nulla. Il silenzio qui regna indisturbato. L’unico sibilo è quello del vento, che trasporta a gran velocità granelli di sabbia invisibili che picchiano forte sulla pelle. Una sensazione simile a quella vissuta insieme a due miei amici del cuore in cima al Piccolo Cervino, quando ci colse una tempesta di ghiaccio e neve. I granelli di ghiaccio ticchettavano allora su di noi come quelli di sabbia adesso.

IMMAGINI IN DISSOLVENZA

Lo spettacolo che ci si fa innanzi è via via più imponente. Percorriamo le creste delle dune che curvano una dopo l’altra disegnando trame eccezionali. Siamo circondati da una bellezza inaudita, le tonalità ocra e rossastre della sabbia disorientano, e contrastano col bianco accecante della depressione che ci attende sull’altro versante. Questo luogo non ha inizio né fine, e sarebbe impossibile orientarsi se la via non fosse tracciata dalle orme di chi ci ha preceduto all’alba. Salendo, incrociamo alcune persone in difficoltà, fattore che desta in noi un pizzico di preoccupazione, che presto svanisce come immagini in dissolvenza. Il ferro ossidato presente nella sabbia tinge il deserto di rosa e di arancione. Più le dune sono scure e tendono al rosso, e più sono antiche. Gruppi di arbusti e pozze d’acqua effimera punteggiano il paesaggio rendendolo ancor meno realistico.

FREMEN

Adesso siamo Fremen, e cerchiamo l’acqua della vita di Arrakis. Il Naukluft è un sogno ad occhi aperti, uno dei più belli mai sognati. Camminiamo sul ciglio di questo mondo che si sgretola sotto i nostri passi. A tratti ho una sensazione assimilabile al mal di mare, perché questo luogo tanto remoto sembra avere a che fare con l’acqua, per quanto ciò possa sembrare assurdo. Il vento disegna sulla sabbia le stesse linee che regala in mare aperto: qui cambiano i colori e per quanto il vento stordisca senza pause, le onde e le linee delle creste sembrano immobili, immortalate in un fermo immagine vita natural durante. Eppure è un mondo di polvere, di cumuli di centinaia di metri di polvere che si accalcano e poi diradano e frastagliano in linee tanto dolci da rinsaldare il legame profondo che regna fra arte e natura. L’arte non avrebbe alcun senso senza la natura. E’ un posto inconcepibile, che non credo esista oltre i suoi confini onirici.

BIG DADDY

Continuiamo ad ascendere i 390 mutevoli metri di Big Daddy, che dicono sia la duna più alta al mondo, e, come spesso capita dove la magia regna, non avvertiamo più la fatica oltre l’incessante ticchettio dei granelli sugli indumenti e sulle rare porzioni di pelle concesse agli elementi. L’euforia del mattino non si placa e ci trascina in cima incuranti e leggeri, prima del tempo di arrivo previsto. Ci facciamo qualche foto, conosciamo un uomo che lavora nel parco, una di quelle persone di cui avverti subito e istintivamente l’energia. Credo alle cosiddette sensazioni di pelle senza alcun tentennamento. Nathan ha un modo di ridere contagioso, incontenibile e roboante, come quello di Eddie Murphy. La sua stretta di mano è forte e sincera. Ci facciamo una foto. Gli chiedo se per caso sia lui Big Daddy, se sia il risvolto umano della montagna di sabbia su cui ci troviamo. Nathan ride nel suo modo unico di ridere, come se avessi scoperto il suo segreto.

PRECIPIZIO DI FELICITA’

A quel punto osserviamo lo strapiombo che ci separa dalla pozza effimera di Deadvlei. Ora inizia il divertimento: ci togliamo le scarpe, guardiamo giù per un attimo, contiamo fino a tre e iniziamo scendere a valle a capofitto, chi saltando, chi rotolando, chi ballando, chi, forse, volando. I bambini gridano e ridono, io e Francy idem. Qui possiamo concederci il lusso di essere tutti bambini e di giocare liberamente. E’ un precipizio di felicità. Anche Big Daddy in persona scende con noi e con lo sparuto gruppo di turisti che ha accompagnato. Sembra che lo faccia per la prima volta, e invece è lì da sempre, la Duna è lui, e gode del divertimento che procura a quelli che corrono giù solleticandogli il dorso.

DEADVLEI

Arriviamo a valle e il paesaggio sembra persino più sorprendente. Il fondo è simile a quello della Death Valley, ma questo è più compatto e regolare rispetto a quello della depressione americana, nonostante le ovvie screpolature. Il suo colore è di un bianco che acceca e stordisce, tanto è carico di salinità. Da quaggiù, e solo da quaggiù, si intuisce la maestosità di Big Daddy, un vero e proprio muro di sabbia che incombe sulla superficie albina. Procediamo lungo la spianata ellittica, dove percepiamo in lontananza le ombre sghembe e spettrali degli alberi che un tempo qui vivevano. Camminando, osservo le linee dritte alla mia sinistra. Il primo strato è la linea bianca abbacinante del pianoro su cui ci troviamo. La seconda è quella arancione delle dune. La terza è quella azzurra del cielo. Qui l’artista non si è risparmiato, e la sua opera visionaria lascia senza fiato.

SERGIO LEONE

Procediamo sul fondo di questo lago effimero, seguendo i solchi tracciati dal fiume Tsauchab, un corso d’acqua timido, che si manifesta di rado, quando la pioggia scroscia e imperversa e lui si sente meno osservato. Le ombre che ammiravamo da lontano si avvicinano, sono ceffi scuri e poco raccomandabili, trasandati e sporchi per la loro incessante esposizione al calore e al freddo, al sole rovente e alla rara pioggia. Sembrano pistoleri sul set di un film di Sergio Leone, raffigurati nella loro ultima sparatoria, quella decisiva, che li consegnò alla leggenda. Oppure spaventapasseri, o esseri mostruosi e contorti, scolpiti dagli elementi, illusi dalla vana speranza di sopravvivere alle lande aride del Naukluft.

COSA E’ DAVVERO REALE?

Questi arbusti in realtà (ma cosa qui è davvero reale?) sono i resti fossili della foresta di acacie che qui un tempo prosperava, prima che i movimenti delle dune deviassero inesorabilmente il corso dell’acqua, tramutando l’oasi in una sorta di museo naturale a cielo aperto. Tali proiezioni del tempo rappresentano l’ultimo tocco dell’artista, quello che conclude e suggella l’opera, grazie al contrasto intenso che crea con lo sfondo.

SCHEGGIA FOSSILE

Restiamo vigili al cospetto dei gringos, mentre Iri non resiste e fa quel che non si deve fare, arrampicandosi su un’acacia per pochi istanti, prima che le intimiamo di scendere e che una scheggia le si conficchi in un dito. Ho pensato poi molto a quella scheggia infida, la scheggia del tempo, della memoria del mondo, conficcata per sempre nella mano di mia figlia, come fosse un monito a stare alla larga, a non avvicinarsi a quelle creature che, si, sembrano morte, ma non vogliono essere disturbate e possono mordere ancora, tante ne hanno passate. Ne hanno viste di cose che noi uomini non possiamo immaginare.

TRE CIME

A quel punto due ragazzi del posto, avendoci probabilmente visti arrivare dai piedi della Grande Duna, mi chiedono: ma siete andati su con i bambini? Voi siete pazzi! Ormai siamo abituati a circostanze simili: se non hai determinati tratti somatici e capiscono che non provieni da certe zone del pianeta, all’estero si stupiscono se fai certe cose. Se fossimo stati australiani o sudafricani, nessuno avrebbe fatto caso a noi. Avrei potuto e voluto spiegare a quei tizi, spinto da smisurato orgoglio paterno, che i miei figli hanno circumnavigato le Tre Cime e attraversato l’altopiano di Landmannaugar quando erano persino più piccoli, ma vai un po’ a spiegarlo a due giovani namibiani.

JUMANJI

Ci dirigiamo verso l’uscita “facile”, quella pianeggiante, percorsa dalle persone pigre e da quelle che hanno reali problemi di deambulazione. E’ comunque un bel tratto di strada, in cui si alternano sabbia e strati di crosta salina dalle forme più strane, che forniscono l’illusione ottica tipica del bassorilievo. Arriviamo al parcheggio principale, quello in cui Topo ci aveva lasciato col resto della comitiva. Il nostro Franklin merita una menzione ulteriore. Mi piace scriverne perché lo lego al remake di Jumanj, che ricordo con piacere perché non ho mai sentito ridere tanto i miei figli, ridere da spaccarsi, da cadere dal divano, da pisciarsi addosso, ridere di quelle risate che poi fanno ridere anche tutti quelli che ti stanno intorno

SESRIEM CANYON

Ci accodiamo a un gruppetto in attesa e di colpo rispunta il nostro avatar preferito. Ci riporta al parcheggio dei 4×2, dove paghiamo e riprendiamo il Rover. Siamo stati rapidissimi, come spesso ci capita. Sono soltanto le 11e30 e dobbiamo decidere il da farsi. Potremmo tornare alla capanna e fare uno spuntino, rilassarci un attimo, vista l’alzataccia del mattino, ma non è da noi, e dopo qualche foto panoramica decidiamo di dirigerci verso il Sesriem Canyon, una piccola ma affascinante gola profonda qualche metro e lunga un paio di km. Arriviamo verso le 13, dopo aver percorso una carrettiera dilaniante, e fatichiamo un attimo a trovare l’ingresso al canyon, perché non esiste segnaletica e ovviamente non c’è nessuno a cui chiedere.

ALMANNAGJA

Poi d’un tratto compaiono dal nulla una guida e il suo sparuto drappello e troviamo la fenditura attraverso cui scendere. Il canyon è un incanto, paragonabile per foggia e dimensioni ad Almannagjà, un piccolo canyon islandese che all’interno del parco Pingvellir conduce alle Oxararfoss, una delle miriadi di cascate locali. Qui non c’è traccia d’acqua e la roccia è chiara, e si potrebbe concludere che no, in effetti non c’azzecca una mazza, eppure la discesa graduale e le dimensioni del canyon e delle pareti mi hanno ricondotto per un attimo in quella cavità del Regno di Ghiaccio, che adesso sembra così distante, soprattutto concettualmente. L’Islanda è forse l’esatta antitesi della Namibia.

I PIRATI DI BENAGIL

Ma noi siamo qui, adesso. Percorriamo la gola con passo blando, godendo dell’ombra che occupa gran parte della superficie di nostra competenza. Le pareti ricalcano le forme più strane, di orchi elfi nani giganti e altre figure mostruose e deformi che mostrano il proprio volto forgiarsi e uscire gradualmente dalla roccia. E per tornare alla rubrica Corsi e ricorsi del Viaggiatore Indomito, sono costretto ad annotare che questi volti minacciosi somigliano in modo sconcertante a quelli che avemmo modo di osservare un anno fa in Algarve, dove raggiungemmo a bordo di una barca le grotte di Benagil. Facce piratesche, poco raccomandabili, facce truci, da contrabbandieri filibustieri assaltatori di carovane. Facce erose dal vento e dal mare, dal sole e dal sale.

MOSTRI

Saliamo e scendiamo dalle rocce abbarbicate sui margini del canyon, proseguiamo finchè la gola si apre fino a non apparire più tale e a perdere il suo fascino “stringente”. A quel punto torniamo indietro, e ci accorgiamo che c’è una biforcazione. Andiamo verso destra, dove il canyon sembra stringere le sue maglie e avvilupparsi su sè stesso, tanto che le facce di roccia, che qui si accalcano, sembrano osservarsi vicendevolmente in modo guardingo e circospetto, come se ogni personaggio si aspettasse la mossa dell’antagonista di turno da un momento all’altro. Inutile negarlo, transitare fra i menti e i nasi bitorzoluti di quei mostri fa sentire dannatamente osservati. Il canyon a quel punto ci inghiotte.

PAURE PRIMORDIALI

Mentre i mostri incombono su di noi, avvistiamo un serpente minuscolo e dei piccoli scarabei che fanno impazzire Irene: è terrorizzata in modo tale che capisco subito quel tipo di paura, che è inconscia e legata a una sfera misteriosa e ancestrale della memoria condivisa dagli uomini. Non c’è paura di ciò che è adesso, questa è una paura che arriva da lontano, una paura che si è depositata nella memoria di qualche nostro antenato primordiale, risalente a quando grande e piccolo avevano un’altra relatività e a quando magari quegli scarabei erano giganti, e predatori dell’uomo, a quando gli scarabei, nelle altalenanti e romanzesche vicende dell’evoluzione, eravamo noi. Il che peraltro non esclude che continuiamo ad esserlo, in diversa misura. L’indole artistica e svagata di mia figlia deriva da tale fenomeno: credo che lei abbia accesso ad alcune informazioni che non sono comunemente fruibili, credo che lei intuisca qualcosa delle profondità della natura umana e della vita in generale. Credo che le sue porte della percezione lascino intravedere uno spiraglio che resta precluso ai più. Un po’ come capitava a Zia Gina. Per questo motivo Irene è disinteressata a gran parte delle vicende ordinarie che la quotidianità impone. Le auguro di preservare questo dono a lungo.

ACQUA

Procediamo inerpicandoci fra le rocce, risalendo poi attraverso una fenditura abbastanza stretta, fino ad avvertire uno strano odore legato a un fenomeno raro da queste parti, soprattutto a quest’ora: l’umidità. C’è una piccola pozza riparata all’ombra di una grotta, una delle rare che avremo modo di ammirare così da vicino. Immagino quanto sia preziosa per le forme di vita che si aggirano da queste parti.

“YOU’RE IN THE DESERT“

Torniamo indietro e per le 14e30 siamo nuovamente in macchina. L’idea, a quel punto, è di andarsi a rilassare in piscina, godendoci un pochino il luogo fantastico in cui alloggiamo. Facciamo benzina e torniamo al Desert Quiver Camp. Scopriamo con dispiacere, soprattutto per i bimbi, che la piscina è chiusa a causa del vento, e che aprirà non appena questo diminuirà la sua portata. Il tempo a disposizione è poco perché poi dalle 17 inizia a farsi freddo, e la speranza che la piscina apra rimarrà tale. Francy passa in reception e chiede come mai il vento non cessi mai. Il tizio la guarda e le risponde, laconico: You’re in desert. Ne approfittiamo per riposarci e rimetterci in sesto prima della cena. Stasera andiamo al Sossusvlei Lodge, che credo sia l’unico ristorante della zona.

TANTO TUTTO E’ TROPPO

Il buffet offre vari tagli di carne e talmente tante pietanze da far confusione: la mia visuale è limitata quando il campo visivo offre troppe informazioni in uno spazio troppo piccolo, e così improvvisamente quel tutto diventa niente. In proposito, continuo a non capire come facciano tante donne a individuare oggetti interessanti in mezzo a pandemoni quali bancarelle, bigiotterie ed ognuna di quelle botteghe strapiene fino all’inverosimile di cianfrusaglie di ogni tipo. Il mio cervello non è in grado di elaborare immagini singole al cospetto di inferni simili, in cui non esiste spazio o respiro fra un oggetto e l’altro. Comunque, se qui al Sossusvlei il cibo che riesco a selezionare è buono, il problema è che si mangia all’aperto, e che sembriamo gli unici in difficoltà a cospetto del freddo del deserto, i soli probabilmente che chiedono coperte per non morire congelati.

LOST HIGHWAYS

Dopo cena andiamo a bere una cosa intorno a un falò che sta sul retro della struttura. I divanetti sono posizionati in direzione di alcuni siti illuminati, in cui transitano varie razze di antilopi per bere o sgranocchiare qualcosa. Parliamo un po’ con i membri di una famiglia tedesca in vacanza. Ci raccontano che dormono lì e che non vedono l’ora di trasferirsi, l’indomani, al Desert Quiver, il nostro posto. Mi piace immaginare che abbiano preso il nostro posto in struttura, l’indomani. Sono le 21e30. E’ notte, notte fonda, la stanchezza si fa sentire. Decidiamo di tornare. La strada è deserta e priva di illuminazione, la notte limpida, le stelle fanno festa in cielo. Buio e silenzio ci accompagnano a braccetto verso casa. Come è nostro costume, non opponiamo resistenza.

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