Làska correva avanti allegramente per il sentiero; Lévin le andava dietro con passo rapido, leggero, guardando ininterrottamente il cielo. Desiderava che il sole non sorgesse prima ch’egli fosse giunto alla palude.
Ma il sole non sarebbe tardato. La luna, che splendeva ancora quand’egli uscì, adesso brillava soltanto come un pezzo di mercurio; il lampo mattutino di calore che prima non si poteva non vedere, adesso bisognava cercarlo; le macchie prima indefinite nella campagna lontana, adesso eran già chiaramente visibili. Erano mucchi di segala.
La rugiada non ancora visibile senza la luce del sole nell’alta canapa profumata, da cui era già stata tolta via quella sterile, bagnava le gambe e il camiciotto di Lévin più su della cintura. Nella calma trasparente del mattino si udivano i minimi suoni.
Una piccola ape passò volando accanto all’orecchio di Lévin col fischio d’una palla. Egli guardò con attenzione e ne vide ancora un’altra e una terza. Esse volavano tutte fuori dal graticcio d’un arnaio, e sopra la canapa scomparivano in direzione della palude. Il viottolo portò diritto alla palude. La palude si poteva riconoscere dai vapori che se ne sollevavano, dove più spessi, dove più radi, sicchè le càrici e i cespuglietti di citiso, come isolette, si cullavano su quei vapori.
Al limite della palude e della strada i ragazzetti e i muzikì, che avevano fatto la guardia, erano coricati e innanzi l’alba dormivano sotto i gabbani. Non lontano da loro andavano tre cavalli impastoiati. Uno di essi rumoreggiava coi ferri. Làska camminava di fianco al padrone, chiedendo di andare avanti e volgendosi a guardare. Oltrepassati i muzikì che dormivano, e giunto all’altezza del primo tratto paludoso, Lévin esaminò i pistoni e lasciò andare il cane.
Uno dei cavalli, un baio di tre anni ben nutrito, avendo visto il cane, si slanciò con forza e, sollevata la coda, sbuffò. Gli altri cavalli si spaventarono anche loro e, sguazzando per l’acqua con le zampe impastoiate e producendo con gli zoccoli tratti fuori dall’argilla spessa un suono simile a uno schiocco, si misero a saltare fuori dalla palude. Làska si fermò, guardando con scherno i cavalli e interrogativamente Lévin. Lévin carezzò Làska e fischiò, in segno che si poteva cominciare. Làska si mise a correre allegra e preoccupata per la melma che tremolava sotto di lei.
Entrata di corsa nella palude, Làska, immediatamente, fra gli odori a lei noi delle radici, delle erbe di palude, di ruggine, e l’odore estraneo di sterco equino, sentì l’odore degli uccelli sparso per tutto quel luogo, di quegli stessi uccelli odorosi, che più degli altri l’agitavano. Qua e là per il muschio e le bardane di palude quest’odore era molto forte, ma non si poteva stabilire da che parte si rafforzasse e s’indebolisse.
Per trovar la direzione, bisognava andar più lontano sotto il vento. Senza sentire il movimento delle proprie zampe, Làska a un galoppo teso, tale che a ogni salto avrebbe potuto fermarsi se se ne fosse presentata la necessità, corse a destra, lontano dal venticello antelucano che spirava dall’oriente, e si volse verso il vento.
Aspirata dentro di sé l’aria con le narici dilatate, essa sentì immediatamente che non c’erano soltanto le orme, ma loro stessi erano lì, dinanzi a lei, e non uno, ma molti. Làska diminuì la velocità della corsa. Erano lì, ma dove appunto, non poteva ancora precisarlo. Per trovare proprio quel luogo essa aveva già cominciato un giro, quando la voce del padrone la distrasse. “Làska! Qua!” – diss’egli, indicandole l’altra parte. Essa stette un po’ ferma, domandandogli se non era meglio fare come avevano cominciato. Ma egli ripetè l’ordine con voce irosa, facendo vedere un ammasso di montagnole coperto d’acqua, dove non poteva esserci nulla. Essa gli obbedì, fingendo di cercare, per fargli piacere, e si trascinò per tutto l’ammasso di montagnole e tornò al luogo di prima, e immediatamente li sentì di nuovo.
Adesso, quand’egli non la disturbava, essa sapeva che fare, e senza guardarsi sotto le zampe, inciampando con stizza nelle alte montagnole e andando a finir nell’acqua, ma raddrizzandosi con le pieghevoli, forti zampe, cominciò un giro che le doveva spiegare ogni cosa. Il loro odore la colpiva sempre più fortemente, in modo sempre più definito, e a un tratto diventò affatto chiaro per essa che uno di loro era lì, dietro a quella montagnola, cinque passi davanti ad essa, e si fermò, s’irrigidì con tutto il corpo.
Sulle sue zampe basse non poteva veder nulla dinanzi a sé, ma dall’odore sapeva che esso era posato a non più di cinque passi da lei. Stava ritta, sentendolo sempre di più e godendo nell’aspettativa. La sua coda tesa era allungata e tremava soltanto proprio sulla punta. La sua bocca era lievemente aperta, le orecchie sollevate. Un’orecchia s’era voltata ancora durante la corsa, ed essa respirava faticosamente, ma con prudenza, e con prudenza ancora maggiore si volse, più con gli occhi che con la testa, a guardare il padrone. Egli col viso che gli era abituale, ma sempre con gli occhi terribili, camminava, inciampando, per le montagnole, e straordinariamente adagio, come le sembrava. Le sembrava ch’egli camminasse adagio, e lui correva.
Avendo notato questa particolare ricerca di Làska, mentr’essa si stringeva tutta al terreno, come se remasse a gran passi con le zampe posteriori e aprendo lievemente la bocca, Lévin capì ch’essa fiutava i beccaccini e, pregato Dio fra sé per avere un buon esito, particolarmente per il primo colpo, accorse verso di essa.
Fattosi proprio vicino, egli cominciò a guardare dinanzi a sé alla propria altezza, e vide con gli occhi quel ch’essa sentiva col naso.