The tree of life
16 domenica Feb 2014
16 domenica Feb 2014
16 domenica Feb 2014
“The tree of life” -film del regista texano Terrence Malick, uscito nel 2011 dopo anni di lavorazione- è una sublime composizione rapsodica messa in scena per raccontare l’epopea della vita degli uomini, di ogni creatura presente in natura, del cosmo.
La sua peculiarità è quella di svilupparsi attraverso due piani narrativi paralleli e complementari: nel primo livello, più superficiale e “tangibile”, si narra la storia della famiglia O’Brien, espressione del ceto medio del midwest degli anni ‘50. Un padre frustrato e autoritario, una madre tenera ma sottomessa, tre figli di cui osserviamo i primi passi e la crescita, fino alla morte di uno dei ragazzi, al dolore della perdita, cui segue la ricerca di un motivo cui affidare un lutto inspiegabile.
La storia viene ricostruita per flashback seguendo i ricordi di Jack, il più grande dei tre fratelli O’Brien, che affronta dentro di sé il conflitto fra la violenza paterna e il candore materno, ed agisce affidandosi prima all’una, nel momento in cui prova a difendersi con la stessa violenza fin troppo patita, e poi all’altro, nella fase in cui comprende le ragioni della madre, centro nevralgico di un equilibrio sottilissimo.
Le vicende degli O’Brien vengono presentate in tumultuosa e cangiante alternanza con le immagini della formazione dell’universo, che prospettano le meraviglie e la maestosità dirompente della natura e del pianeta Terra: questa fase “documentaristica” costituisce il secondo livello narrativo del film, la parte più onirica e visionaria dell’opera; l’impatto visivo è devastante e i suoni della natura si mescolano alle note di Mozart, Brahms e Bach, tanto da creare un’insieme armonico, fluido, ipnotico.
L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo sono posti a confronto in un percorso di ricerca che assume le dimensioni di un viaggio tortuoso e palpitante in direzione ignota: un viaggio di sola andata ai confini del sé, dove ogni cosa sembra coincidere, traboccare, ed essere, dove ogni risposta è chiara ma impossibile da dire. Il film è una ricerca convulsa e profonda della misura e della verità.
Malick affronta la vita e le sue dimensioni, e pone il dolore e le vicende umane a confronto con l’immensità. La storia di una famiglia qualunque diviene la storia dell’intero genere umano e del dubbio che attanaglia inevitabilmente ogni individuo.
27 lunedì Gen 2014
Posted in Robert Musil
Dobbiamo ora far seguire due parole a proposito di un sorriso, e cioè di un sorriso fornito per giunta d’un paio di baffi, fatti apposta per la prerogativa maschile di sorridere sotto i medesimi; si tratta del sorriso degli scienziati che erano accorsi all’invito di Diotima e che avevano sentito parlare i famosi letterati e artisti.
Benchè sorridessero, non bisogna credere che sorridessero ironicamente. Al contrario, era la loro espressione di rispetto e di incompetenza. Ma neppure questo deve trarre in inganno.
Nella loro coscienza era così, ma nel subcosciente, o per meglio dire nel loro stato d’animo collettivo, erano uomini nei quali la tendenza al male rumoreggiava come il fuoco sotto una caldaia.
09 lunedì Set 2013
Posted in Storie
ATTO I – ATTO II – ATTO III – ATTO IV
Senza Nome non se ne rese conto, quasi fosse ipnotizzata, ma, dopo essersi congedata da Morpheus, non riuscì più a contenere il suo desiderio di sapere, e, in un momento di presunta intimità, scivolò fra le fronde cadenti dell’albero del peccato, quasi fossero i sottili elementi connettivi di confine fra il Noto e l’Ignoto; colse un frutto proibito, lo rimirò per alcuni istanti, e lo mangiò. Il frutto le parve subito gustoso e ricco di sapore. Così intuì che forse il divieto di mangiarne fosse stabilito perché qualcuno o qualcosa (una holding americana con ogni probabilità) mirava a sfruttare in esclusiva quella pianta così rara e preziosa.
Senza Nome -nell’istintivo bisogno di condividere la furtiva esperienza (“condividere l’esperienza o la colpa?” – pensò fra sè la femmina)- corse subito in cerca di Adam (l’unico interlocutore disponibile), che –per rimanere fedele alla propria indole- poltriva all’ombra di un albero dalla chioma prorompente.
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11 martedì Giu 2013
Posted in Pensieri
Non sono un amante del mare, per lo meno del mare visto e vissuto dalla spiaggia, delle vicissitudini spesso statiche e monotone cui la spiaggia induce.
La dolce e basculante mollezza, la reiterata orizzontalità, l’ozio annebbiato di blandi momenti sovrapposti mi danno spesso l’idea di non vivere realmente, di essere sempre in attesa di qualcosa o di qualcuno che non arriverà mai: in tale inerzia leggo il pericolo di attendere tanto a lungo che nello spazio infinitesimale di un breve intervallo si possa compiere la vita stessa, di ritrovarmi lì a osservarla, la vita, senza la consapevolezza di averla vissuta. Una lenta traversata senza scalo.
Eppure la spiaggia, vissuta sotto lo scudo tutelare di un ombrellone, è l’ambiente ideale per perdersi piacevolmente nelle letture più varie, per lo meno in quei giorni in cui il respiro del mare non sia filtrato da schiere di donne e di uomini in rosolatura libera. Le pagine scorrono via e cancellano tutto il resto intorno, la mente vaga dietro l’idea che un altro uomo sembra aver creato ad hoc per quegli istanti, e la sabbia dorata e il frangersi delle onde irraggiano le parole di una luce calda e seducente.
La lettura si tramuta in traslazione.
E così al mare sono spesso rapito dalle parole che un mio simile, sospinto dal desiderio e dall’amore folle d’inventare, ha creato per me. Si, perché la lettura sovente regala l’illusione che certi personaggi stiano lì per te, vivano per te, e così una storia si tramanda, assieme alla sacra scintilla che ha consentito a un autore di forgiare dal nulla un tessuto di vite parallele, con la forza dell’immaginazione e la potenza del linguaggio e delle idee che sgorgano incessantemente dalla fantasia umana.
Quel tessuto diviene –per così dire- “organico”.
Ma c’è una fase del primo pomeriggio in cui la spiaggia regala una piccola magia: il momento in cui ci si abbandona al dormiveglia. Quando si inizia a perdere coscienza e a vagare nei territori dell’indeterminatezza, si possono verificare le condizioni ideali per compiere un piccolo viaggio sensoriale. In quelle ore rimangono poche persone in spiaggia, e spesso un lieve venticello soffia e scappa in ogni direzione, con il mare a lamentarsi e a mormorare in sottofondo, con una cadenza tanto regolare da divenire ipnotica.
In quella fase -di norma- i superstiti si abbandonano al sonno o alla conversazione, alla lettura o al semplice relax. Ma quando ci si lascia andare alla cantilena dei flutti e alla leggerezza ammaliante del mare, le voci degli individui tendono a sovrapporsi in modo soffuso e casuale, e le conversazioni che giungono all’orecchio del “dormiente” mutano a seconda di come incrociano il vento, che trasporta voci in successione libera lungo invisibili corridoi aerei.
Si crea così una sorta di mosaico che induce l’ascoltatore a un piacere che accosterei al solletico: non si coglie il senso di alcuna discussione, ma i tanti puntini che tempestano l’apparato uditivo creano un insieme rassicurante, che muta al minimo mutare del vento e della propria posizione.
Frammenti d’estasi in dormiveglia.
E così una voce di donna, un bisbiglio, le risate di un gruppo di ragazzi, il pianto di un bimbo si mescolano e rimescolano in un cocktail di suoni, dialetti, espressioni che rilassa e culla chi pisola, lasciandolo a mezz’aria fra il sonno e la veglia, nel non-luogo in cui tutto risulta ambiguo e sfocato, là dove s’è posata l’idea di scrivere queste parole, che spiegano la sensazione che ho provato all’incrocio fra il vento, la sabbia e il mare.
03 lunedì Giu 2013
Posted in John, Lange Dorothea, Steinbeck
“Nitrati e fosfati non sono la terra: la lunghezza di fibra del cotone non è la terra. Carbonio sale acqua e calcio non fanno l’essere umano. L’uomo è sì tutte queste cose, ma è qualcosa di più, è molto di più; e la terra è infinitamente più che l’insieme dei suoi elementi. L’uomo che è più delle sue componenti, che calca la zolla coi piedi nudi, che fa deviare il vomere per scansare una pietra, che sosta nei solchi per consumare il suo pasto; quest’uomo che è più dei suoi propri elementi conosce e capisce questa terra che è più delle proprie componenti. Ma l’uomo della trattrice, che guida una macchina morta su un suolo ch’egli non conosce e non ama, capisce solo la chimica, e disprezza la terra e se stesso.”
01 sabato Giu 2013
Posted in film
“Stay” è un sogno struggente al confine fra la vita e la morte.
Nel rapido e turbolento incipit del film un’automobile si ribalta ripetutamente fra le mille luci di una notte newyorkese: la camera stacca e si posa sul volto disorientato di un ragazzo, seduto in terra nei pressi dell’incidente.
Ritroviamo Henry Letham alla luce del giorno, in cerca della sua psichiatra; non trova lei, ma il Dr. Sam Foster (Ewan McGregor), che sostituisce temporaneamente la collega. Henry -studente di storia dell’arte- soffre di allucinazioni e di un senso di colpa per la morte dei genitori, profondo a tal punto da divenire mania di persecuzione; il ragazzo, pallido e fuori fase, dichiara allo psichiatra l’intenzione di togliersi la vita entro pochi giorni, in corrispondenza del suo ventunesimo compleanno.
Foster si interessa alla drammatica vicenda di Henry, da un lato perché ha vissuto in prima persona un’esperienza simile con la propria compagna Lila (Naomi Watts), salvata in passato da un tentativo di suicidio; dall’altro perché subisce il fascino delle visioni di quel ragazzo smarrito, che hanno il sapore del déjà vu e sembrano avere un fondamento reale, al punto che lo psichiatra stesso si trova ben presto coinvolto nella dimensione distorta della mente dello studente.
Su tali presupposti si sviluppa un convulso tourbillon d’immagini e una sorta d’inseguimento fisico e psicologico fra Foster e Letham, lungo la via della follia e di uno sdoppiamento di personalità che dissipa ogni certezza fino all’epilogo rivelatore, che illumina in chiave tragica la narrazione.
Il regista tedesco Marc Forster , sulla base di un soggetto di David Benioff, versatile ed illuminato sceneggiatore americano, realizza un’opera d’arte complessa e originale, grazie alla sua sensibilità e a una maniacale attenzione ai particolari, a un cast e a un team di collaboratori di prim’ordine: le prove sublimi di Gosling (su tutti), McGregor, Watts; la fotografia cupa e angosciante di Roberto Schaefer; il montaggio tumultuoso e incalzante di Matt Chesse; le scenografie opprimenti e mutevoli di Kevin Thompson e gli effetti speciali (il morphing in particolare) di Bero e Caban: ognuno di questi elementi contribuisce alla fluidità del film e delle immagini, che si trasformano e assumono via via forme sempre nuove e diverse, privando lo spettatore di qualsiasi angolazione interpretativa plausibile.
28 martedì Mag 2013
Posted in Pensieri
Devo essere onesto, perchè l’onestà è necessaria quando si parla dei vivi, ma lo è ancor più quando si parla di chi non c’è più: non conosco più di cinque o sei brani di Little Tony (Antonio Ciacci nella realtà), anche se tutti degni di nota, ma la persona e il personaggio mi hanno sempre ispirato una grande simpatia.
Mio padre lo conosceva e condivideva con lui la passione per le “fuoriserie”: ricordo vagamente alcuni vecchi racconti su questo stravagante artista, che è rimasto sempre coerente a se stesso e all’icona che aveva creato, ispirata ad alcuni divi del rock’n’roll americano (come Little Richard ad esempio, da cui mutuò anche il nome d’arte). Mio padre vendette un paio di automobili di grossa cilindrata a Little Tony, fra cui una che -sembra- non sterzasse in discesa. Pare che la cosa li divertisse molto all’epoca, ma erano altri tempi, più romantici e spregiudicati. Al giorno d’oggi probabilmente un fatto simile rappresenterebbe uno scandalo.
Ero ancora un ragazzino quando capitò l’occasione di conoscerlo: io e la mia famiglia ci recammo a un pranzo di compleanno, in cui Little Tony e Bobby Solo si esibirono su un palco improvvisato in onore del festeggiato, per trattenersi poi a mangiare col resto dei conviviali. Anche se non erano più star al culmine del successo, i due artisti conservavano un fascino magnetico, il fascino del tempo che non c’è più, delle scelte fatte onestamente e portate avanti senza curarsi delle mode del momento.
Ricordo una foto, una polaroid, in cui venni immortalato in mezzo ai due interpreti, una foto che ho nascosto talmente bene da non sapere più dove. L’istinto però mi dice che a quell’epoca -poco meno di trenta anni or sono- io avessi un ciuffo simile al loro, e spero che il tempo mi renderà il riscontro effettivo di tal reminiscenza.
E infine il fatto più importante: rammento con chiarezza gli occhi di Little Tony, che brillavano felici mentre cantava i suoi pezzi, i pezzi che amava e ripeteva da anni senza stancarsi, indipendentemente dal fatto che fossimo in pochi ad applaudirli, in quel giorno d’inverno. Bene, quegli occhi non li dimentico, per un motivo molto semplice: erano gli occhi di un uomo buono, e quel bambino che ero, e che in parte sono rimasto, ne è ancora convinto, a distanza di anni.
Ciao Little Tony, 24.000 volte.
25 sabato Mag 2013
Posted in Poesie
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“Yesterday, upon the stair,
I met a man who wasn’t there
He wasn’t there again today
I wish, I wish he’d go away.”
I versi di Hughes Mearns ispirano palesemente Bowie, che plasmò l’incipit del brano sulla falsariga formale e concettuale creata dal poeta inglese. Nel pezzo domina il tema di un sdoppiamento probabilmente impercorribile. L’uomo osserva se stesso in un’atmosfera surreale, il Dionisiaco si stupisce nel ritrovare in vita l’Apollineo, poichè viveva nella falsa illusione di essersene liberato.
Ma gli istinti primordiali vengono irrimediabilmente ingabbiati dalle convenzioni sociali che l’uomo stesso costruisce ad hoc, in un gioco perverso ed autolesionista. L’inganno apollineo finisce così per imbrigliare il caos e l’istinto dionisiaci, e la natura umana tende in modo inevitabile a costruire una struttura di difesa all’apparente non-senso “naturale” della vita.
L’uomo di Bowie dapprima non riconosce se stesso forse a causa di quella Maschera Apollinea cucita su misura per regolare ed “elevare” nella forma il caos dionisiaco, ma in seguito l’Io, apparentemente scisso dalla sua necessaria e forzosa metà regolatrice, diviene “Noi” nell’intenso e significativo finale del brano.
I searched for form and land, for years and years I roamed
I gazed a gazely stare at all the millions here
We must have died alone, a long long time ago
Who knows? not me
We never lost control
You’re face to face
With the Man who Sold the World
21 martedì Mag 2013
Posted in Manzarek, Raymond Daniel, Morrison, James Douglas, Storie
Stamattina, la notizia della scomparsa di Ray Manzarek mi ha provocato un’emozione fortissima, indescrivibile. E’ un dolore paragonabile a quello scaturito dalla perdita di una persona cara, per quanto Ray ha fatto per me, per i miei amici, per milioni di persone in tutto il pianeta.
Correva l’anno 1965 a Los Angeles, quando Ray e Jim Morrison si incontrarono alla UCLA University, decidendo di intraprendere un sodalizio musicale che avrebbe ben presto condotto alla nascita del gruppo musicale dei Doors. Ray e Jim, Jim e Ray, questi due signori hanno fondato The Doors, creando un sogno che io e i miei amici abbiamo sognato in giovanissima età, quando le nostre macchine correvano spensierate attraverso i giorni e le notti di un passato che non se ne va.
La voce di Jim e la musica di Ray ci hanno plasmati in modo irreversibile, e continuano a pervadere, venti anni dopo, lo spazio circostante, e a colorare i momenti speciali della nostra vita. I Doors rappresentano in modo fedele la nostra storia di amici, perchè ci sono sempre stati, e ci sono ancora. Jim era l’anima del gruppo, ma Ray era la mente dei Doors.
Manzarek suonava un organetto elettrico, il mitico Vox Continental, con una postura e una partecipazione indimenticabili; per sopperire alla mancanza di un bassista nella band, prese a dettare le linee di basso con un Fender Rhodes Piano Bass: così suonava l’organetto elettrico con la mano destra, e il basso, poggiato sul top del Continental, con la sinistra, regalando quelle sonorità così particolari da contribuire in modo decisivo a rendere celebre e “riconoscibile” ovunque la musica dei Doors.
Ray fu un grande amico di Jim, anche nei momenti più duri, e nei suoi scritti trapela la malinconica nostalgia per il tempo che condivise con Morrison, quel tempo che non finisce e che attraversa lo spazio, anche adesso, mentre ascolto “The end” , uno dei prodigi musicali che contribuiranno a rendere Jim, Ray, Robby e John immortali.
Grazie Ray, grazie davvero, ricambierò con amore e fedeltà eterni questi tuoi inestimabili doni.
20 lunedì Mag 2013
Posted in Storie
La donna lo fissava –disorientata- e un misto di fascino e spavento le solleticò la schiena. Un friccico improvviso attraversò il dorso di Senza Nome Senza Interruzione, finchè il flusso del sottile e sinuoso dubbio esistenziale si placò al limitar delle natiche di lei, dove il biforcuto aveva posato con movimenti acquatici i suoi affilati e avvolgenti artigli di rettile.
Una caldaia brucia e la fiamma si scuote nella penombra sotterranea di Senza Nome, il Drago Krueger la tiene stretta a sé, non la molla nemmeno per un istante, e il Dubbio inizia a tintinnare, scintillando senza posa negli occhi della fanciulla, sotto forma di percezione pura, di quell’intuito che aggiunge all’istinto una scintilla disvelatrice, laddove corrono i confini fra Sogno e Realtà, nel punto esatto in cui si specchiano, a intervalli misti e rarissimi, la Persona e il Sé, la Proiezione e il Proiezionista.
“Ascoltami con cura, lascerò che tali docili parole sgorghino adagio dentro di te, come impalpabili microstille di piacere, in modo che tu possa comprenderne il senso, intuirne la portata, intenderne le conseguenze ” –ricominciò Morpheus, avvinghiato alla femmina- “D’altro canto, il mio compito è di facilitare e risolvere, di accomodare e predisporre. Tu, e solo tu puoi scegliere. Soltanto tu puoi farlo. Ma lo vuoi davvero?
Nulla è vietato quando c’è la possibilità di scegliere, se non scegliere un’opzione di cui non si ha coscienza. E finora tu non ne avevi alcuna, di scelta, dato che ignoravi l’esistenza di un’Alternativa, della Non Linearità, della diramazione che è scolpita sulla mia lingua e lungo la Strada della Conoscenza.”
18 lunedì Mar 2013
Posted in Tolstoj Lev
Lev Nikolàevič Tolstòj – Anna Karénina
Làska correva avanti allegramente per il sentiero; Lévin le andava dietro con passo rapido, leggero, guardando ininterrottamente il cielo. Desiderava che il sole non sorgesse prima ch’egli fosse giunto alla palude.
Ma il sole non sarebbe tardato. La luna, che splendeva ancora quand’egli uscì, adesso brillava soltanto come un pezzo di mercurio; il lampo mattutino di calore che prima non si poteva non vedere, adesso bisognava cercarlo; le macchie prima indefinite nella campagna lontana, adesso eran già chiaramente visibili. Erano mucchi di segala.
La rugiada non ancora visibile senza la luce del sole nell’alta canapa profumata, da cui era già stata tolta via quella sterile, bagnava le gambe e il camiciotto di Lévin più su della cintura. Nella calma trasparente del mattino si udivano i minimi suoni.