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PORTOGALLO ON THE ROAD Racconto di viaggio a puntate.

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Cronache e Storie d'Osteria, Pensieri, Titoli di testa

2 LISBONA

Arriviamo a Lisbona nel tardo pomeriggio per via del volo in ritardo ma anche perché i ritmi portoghesi si rivelano subito piuttosto blandi. Inizialmente non la mando giù, non accetto un sistema che mi pare disfunzionale, reagisco con stizza, un po’ come mi capitò pochi mesi fa a Istanbul, in cui il fenomeno era persino più accentuato. Ma non faccio fatica a trovare il giusto assetto, che mi consente di intuire in modo graduale la forma mentis del popolo di cui saremo ospiti nelle prossime due settimane. Capiremo ben presto che il lato migliore del Portogallo è rappresentato proprio dalla sua gente.

Ci sistemiamo in appartamento nel quartiere di Alfama, valzer di docce e poi usciamo rapidamente verso Baixa e il Barrio Alto, ci concediamo la solita birra propiziatoria d’inizio viaggio, diamo un’occhiata preliminare, passeggiamo senza meta, mangiamo qualcosa, ascoltiamo della buona musica in un locale sotto casa, e poi andiamo a dormire sufficientemente stremati da una giornata che pare un mese, dato il calvario patito in patria.

Sabato. Ci alziamo presto, assaggiamo i pastel de nata in una pasticceria in zona, e poi saliamo al Castello di Sao Jorge, che ci godiamo quasi in completa solitudine, perché gli Alfacinhas (letteralmente, lattughe), ovvero gli abitanti di Lisbona, si svegliano tardi. Il mattino si rivela il momento migliore per evitare sovraffollamenti e spostarsi velocemente.

Lisbona è una bella città, e Alfama è il suo cuore più limpido e autentico, un reticolo di vicoli in saliscendi che nascondono e custodiscono gemme colorate e musicali. “Vediamo Alfama, ma non sappiamo cosa sia. Eppure continuiamo a girare, a salire e scendere senza poterci fermare”. Ovunque ci accolgono sorrisi e kapirinha, e capiamo ben presto che quel sorriso è il marchio di fabbrica del Portogallo, un fattore costante che ci accompagnerà -insieme alla kapirinha- per tutta la durata del nostro soggiorno. Ce la giriamo a piedi, in tram e in bus per tutto il giorno, cerchiamo di capire questa città contorta e attorcigliata su sè stessa, che somiglia alle montagne russe per come sterza impetuosamente e si getta a capofitto in mare, per poi atterrare e riposare placida a bordo oceano.

Di norma sono felice dove l’opera dell’uomo è meno evidente. Ma l’anima di Lisbona è grande, protesa com’è verso l’Atlantico e verso il resto del mondo. Questa città ha un cuore puro, generoso, romantico, somiglia a una sensazione, restituisce il desiderio di scoperta e conquista del popolo portoghese, desiderio che non può non appartenere a chi nasce in un luogo che garantisce una tale prospettiva e una finestra d’acqua di simili dimensioni. L’oceano deve aver rappresentato l’ignoto e un richiamo irresistibile per chi si è spinto al di là del mare, secoli fa.

Lisbona sembra tantiluoghinsieme, e probabilmente è ovunque ognuno desideri sia. Induce il viaggiatore a condividere, elimina il riserbo che regna nel nord del mondo. Ti fa sentire a casa. Soprattutto se si è liberi al punto da non avere un’idea radicata di casa.

Di sera cerchiamo la trattoria di Ti Natercia, la Maria de culo bello de Lisboa, ma troviamo la Velha Taberna. Zia Natercia, una signora assai loquace di una certa età, oggi è chiusa e ci affidiamo ai dirimpettai. Ci accomodiamo per errore, a onor del vero. Avevo scelto Natercia leggendo di lei a casa, e osservando le immagini di quell’umile e accogliente osteria, che non potrebbe non evocare in chiunque abbia avuto un’infanzia niente affatto sofisticata il ricordo di nonne affaccendate e tinelli dalle luci soffuse. Scopriamo poi, quando Natercia si presenta a sorpresa al nostro tavolo, carica di racconti incomprensibili e di gesti affettuosi per Francesca e i bambini, che avremo comunque l’onore di mangiare il suo sublime bachalau, dato che prepara vari piatti anche per la taverna in cui ci troviamo. Inutile ribadire che anche qui abbiamo trovato casa, ma lo scrivo lo stesso. Dopo cena assistiamo alle acrobazie di vari artisti di strada, e come da tradizione ci ritiriamo prima che sia tardi.

Ma è già domenica. Ci svegliamo presto, per muoverci d’anticipo sulla città, che inizierà a stropicciarsi gli occhi e a sgranchirsi le tortuose, affusolate leve un paio d’ore più tardi. Scegliamo la linea retta per il terzo giorno e noleggiamo le bici per costeggiare o forse inseguire il Tago fino all’oceano lungo l’Avenida do Brazil, una ciclabile nuova di zecca che forse si chiama così perché punta verso il Brasile, terra storicamente significativa per i portoghesi.

Di primo acchito assistiamo al degrado della solita periferia urbana, che nei porti spesso è persino accentuato. Gim ne soffre intimamente, pensa che sia inconcepibile che tanti uomini siano costretti ai margini con tale evidenza. Lo capisco, ma non riesco a consolarlo come vorrei, perché so che ha ragione lui. Superati gli ultimi relitti dei bagordi della notte, che in alcuni casi ballano ancora alla grande in qualche angolo sospeso sul molo, si apre un percorso di luce e acqua a perdita d’occhio, che ci condurrà fin quasi a Cascais.

Intercettiamo i mercatini e una parata di cavalieri tambureggianti nel parco adiacente il monastero di San Jeronimo, poi ci fermiamo in una spiaggia semi deserta a saggiare il mare, che è bello ma gelido, e di ritorno compiamo l’errore che al viaggiatore ogni tanto (di rado per fortuna) capita di compiere: pensiamo da turisti e ci mettiamo in fila per visitare il Palazzo di Belem, una trappola di proporzioni cosmiche in cui la prima fila è soltanto propedeutica alla seconda e così via a salire, fino all’ultimo anonimo piano di una struttura di cui sarebbe stato sufficiente leggere la storia e osservare gli esterni.

Devo ammetterlo, la parte esposta della torre ha il suo fascino, procura l’illusione di essere sul ponte di una nave in mare aperto, ma prego il lettore di fermarsi lì, di limitarsi a contemplare quel gioco visivo e di non proseguire oltre, nel caso capitasse da quelle parti. Perdiamo più di un’ora -tempo prezioso per il viaggiatore – e poi pedaliamo di buona lena verso il centro per concederci l’ultima sera in Alfama, dove chiudiamo in bellezza concedendoci una cena di prelibatezze angolane e capoverdiane da Sao Cristovao.

I nostri figli giocano con la figlia di una coppia di ragazzi polacchi, di cui mi colpiscono il sorriso e la spensieratezza. E poi c’è la solita sensazione che non è nuova all’estero, quella cioè che mi induce a pensare che quei ragazzi potremmo essere noi, in versione polacca. Lo so che non siamo esattamente ragazzi, ma voglio concedermi questo lusso dialettico. Fuori dall’Italia ci si rende sempre conto della moltitudine e della varietà infinita di persone e tipi umani, delle innumerevoli caratteristiche, modalità, usanze e abitudini che differenziano gli uomini e le donne e i bambini del pianeta, e si acquisisce la facoltà di mettere in discussione tutto, di non dare nulla per scontato, di capire che il nostro sforzo di pensare, di acquisire certezze o presunte tali, di confezionare verità o presunte tali è una stilla dispersa nella vastità oceanica dei punti di vista.

E’ forse questa la ricchezza principale che si acquisisce viaggiando: si esce dall’orticello, dai sentieri che battiamo ogni giorno, dai binari delle conversazioni convenzionali, e si può dare uno sguardo oltre, laddove è possibile intercettare il flusso incessante delle idee e dei pensieri del mondo.

Ma ora basta divagare. Domani prenderemo la macchina in centro, dovremo essere freschi, ma ci attardiamo ugualmente nei soliti localini, per salutare Lisbona ed Alfama nel modo che meritano.

Blade runner 2049 – La vita è sogno

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Posted by osteriacinematografo in Dick, Philip, film, Gosling, Ryan, immagini, Villeneue, Denis

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Titoli di testa

TITOLI DI TESTA

“L’umanità non può sopravvivere. I replicanti sono il futuro della specie. Ma non posso crearne di più”.

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L’agente speciale K (il rimando a Josef K, il protagonista de “Il processo” di Kafka è fin troppo evidente) è il cacciatore incaricato di ritirare vecchi modelli dissidenti. Modello Nexus 9, K è un replicante di ultima generazione dotato di maggior disciplina e obbedienza rispetto ai precedenti.

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Lo sguardo profondo ed esteso sul futuro di Villeneuve regala un universo ipnotico, claustrofobico, senza via d’uscita. I tempi flemmatici del montaggio si traducono in scene lunghissime e penetranti, incessantemente avide di dettagli. L’aspetto ambientale pesa nella realizzazione dei set (costruiti interamente a mano, senza alcun supporto digitale): a causa del collasso irreversibile dell’ecosistema, il pianeta è inospitale, il clima freddo, la vegetazione pressoché scomparsa sotto piogge acide battenti, mentre gli oceani sono arginati da enormi dighe che segnano i confini delle città.

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Questo 2049 è anche il prodotto di un black out di proporzioni immani, che ha segnato la fine dell’era digitale e il ritorno all’analogico: il passato non è più tracciabile, ogni dato è andato perduto e il protagonista si muove e indaga come un detective rétro in cerca di indizi tangibili, così come avviene all’inizio del film: in una fattoria immersa nelle dilaganti distese di colture sintetiche, l’agente K rinviene un replicante in incognito e un segreto che potrebbe rivoluzionare il rapporto fra esseri umani e lavori in pelle.

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La Los Angeles distopica di Villeneuve è più cupa di quella di Scott: una metropoli in procinto di collassare su se stessa come una delle città invisibili di Calvino, un agglomerato urbano tentacolare e soffocante, infinito e privo di logica, in cui moltitudini di individui solitari si mescolano nel caos. Esseri umani e artificiali perdono i loro tratti distintivi. Quella in cui si muove l’agente K è una città senza speranza.

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Neander Wallace è il folle dio della robotica che ha rilevato la Tyrell Corporation e concepito l’ultima generazione di replicanti. Wallace è ossessionato dall’utopia di perfezionare le sue creature fino a raggiungere l’inconcepibile. Il suo è un potere ultraterreno, la sua forza ineluttabile, il suo sguardo onnivoro controlla ogni cosa anche attraverso Luv, il suo factotum sintetico. La coppia si muove in un mondo a se stante, un dedalo percorso da superfici levigate e geometriche, una sequenza ammaliante di ambienti fluidi e ambrati, pervasi da un chiaroscuro intermittente che produce giochi di luce ed ombra sulle silhouette di Luv e Neander: i due emergono oniricamente da quelle scenografie con cui poi tornano a fondersi e confondersi.

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L’azione di Blade runner 2049, rispetto al film del 1982, non rimane “intrappolata” nella fitta e intricata rete di L.A., ma si sposta negli spazi aperti e desolati della California: attraverso i tragitti aerei di K osserviamo la successione infinita di serre destinate alla coltivazione; le mastodontiche discariche digitali di San Diego, dimora di reietti e orde di bimbi ridotti in schiavitù; le rovine di una Los Angeles post-apocalittica, in cui la fotografia di Roger Deakins raggiunge il suo apice espressivo: fra statue spettrali e monumenti titanici al collasso, le tonalità giallo-oro dell’ocra delineano atmosfere rarefatte e sulfuree.

Il sogno di K prosegue in Filmosteria

The lobster

02 lunedì Nov 2015

Posted by osteriacinematografo in film, immagini, Jung, Pensieri

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Titoli di testa

L’Atlante delle Nuvole

The lobster“The lobster” è un film/laboratorio del regista greco Yorgos Lanthimos, sviluppato su due binari che corrono in parallelo verso opposti modelli sociali:  da un lato la ricerca affannosa e forzata di un partner,  dall’altro la fuga spasmodica da ogni forma di legame.  I protagonisti devono scegliere la direzione prediletta in un contesto che si mantiene costantemente semiserio e grottesco.

The lobster

Gli spettatori/cavie osservano due ambienti, il “dentro” e il “fuori”, che insieme compongono un habitat complessivo oltre cui non sembra esistere altro. I due contesti sono uniti da una sola strada che sancisce una labile e approssimativa linea di confine.

Yorgos Lanthimos“Dentro” è una sorta di hotel di lusso, dove tutto è organizzato in modo maniacale e sistematico: attività imposte e per lo più inutili si succedono senza soluzione di continuità, così da non lasciare spazio e tempo residui a disposizione dei membri. Una situazione che tanto somiglia alle civiltà occidentali più frenetiche ed “evolute”, in cui persino l’umanità viene tecnicizzata.  “Dentro” occorre trovare qualcuno da amare entro un tempo stabilito per essere considerato membro a tutti gli effetti: le alternative sono la trasformazione in un animale a scelta o la fuga. Ogni individuo è pertanto indotto alla ricerca compulsiva di un elemento che lo accomuni a un’altro tanto da renderli affini:  non è difficile intuire come tanti siano spinti alla simulazione onde evitare la muta, e come quindi si scelga la via meno dolorosa, cioè una convivenza costruita, per evitare l’emarginazione dalla società. L’inganno, ove rivelato, conduce parimenti alla muta.

The lobster“Fuori” –nel bosco-  si è in apparenza liberi, ma è una libertà che si riduce ad una costrizione capovolta rispetto al primo sistema: in effetti la libertà è limitata allo stato brado in cui i membri vivono, poiché la regola in tal caso è la solitudine:  di primo acchito la conquista dell’emancipazione assume le sembianze di una catarsi, ma poi si rivela per quello che è, ovvero una nuova imposizione. Il divieto di allacciare relazioni rappresenta  l’ennesimo diktat, la condicio sine qua non di una trappola senza vie d’uscita. Le conseguenze di un approccio amoroso sono terribili menomazioni.

Segui l’aragosta oltre le nuvole

McCarthy, gli Apache, la guerra, il gioco, la morale, l’assoluto storico.

10 martedì Feb 2015

Posted by osteriacinematografo in McCarthy Cormac, Pensieri

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Parole, Prima del volo, Titoli di testa

L’essenza della tenzone in Singolar Tenzone

Contesto spazio-temporale:

nel cuore nero e fiorente del 19esimo secolo, da qualche parte al confine fra Stati Uniti e Messico.

 

“Sotto i soli abbacinanti di quei giorni i cavalieri divennero sempre più sparuti e macilenti, e i loro occhi incavati e bruciati parevano quelli di nottambuli sorpresi dal giorno. Rannicchiati sotto il cappello, sembravano fuggitivi in un ordine più grande, come essere dei quali il sole fosse affamato”.

Arizona

 “La guerra perdura nel tempo. La guerra c’è sempre stata. Prima che nascesse l’uomo, la guerra lo aspettava. Il mestiere per eccellenza attendeva il suo professionista per eccellenza. Così era e così sarà. Così e non diversamente.

La guerra racchiude in sé tutti gli altri mestieri.

Essa perdura perchè i giovani la amano e i vecchi la amano nei giovani. 

Gli uomini sono nati per giocare. Nient’altro. Tutti i bambini sanno che il gioco è più nobile del lavoro. Sanno anche che il valore o merito di un gioco non sta nel gioco stesso, ma piuttosto nel valore di ciò che è messo in gioco. I giochi d’azzardo richiedono una posta per avere un senso. I giochi sportivi coinvolgono l’abilità e la forza dei contendenti, e l’umiliazione della sconfitta e l’orgoglio della vittoria sono di per sé una posta sufficiente poiché pertengono al valore degli antagonisti e li definiscono.

Ma tutti i giochi aspirano alla condizione di guerra, perchè in essa la posta inghiotte gioco, giocatore, tutto quanto.

Supponiamo che due uomini giochino a carte non avendo da puntare niente se non la vita. Una carta viene girata. Per il giocatore l’intero universo si riversa fragorosamente in quell’istante, che gli dirà se gli tocca di morire per mano di quell’uomo o se toccherà a quell’uomo morire per mano sua.

 Spingere il gioco alla sua condizione estrema non ammette alcuna discussione concernente la nozione di fato.

 L’uomo che tiene in mano una particolare combinazione di carte è in forza di ciò rimosso dall’esistenza. Tale è la natura della guerra, in cui la posta in gioco è a un tempo il gioco stesso e l’autorità e la giustificazione.

Vista in questi termini, la guerra è la forma pi attendibile di divinazione. 

La guerra è il gioco per eccellenza perchè la guerra è in ultima analisi un’effrazione dell’unità dell’esistenza. La guerra è dio”.

Il duello

“La legge morale è un’invenzione dell’umanità per deprimere il forte a vantaggio del debole. La legge storica la sovverte di continuo. Nessuna verifica estrema potrà mai determinare se un punto di vista morale sia corretto o erroneo.

Di un uomo che cada morto in un duello non si penserà di conseguenza che abbia dimostrato di essere in errore riguardo al proprio punto di vista. Il suo stesso coinvolgimento in una prova del genere conferma l’esistenza di un punto di vista nuovo e più ampio.

La volontà dei protagonisti di tralasciare ulteriori dispute, considerandole futili come in effetti sono, e di appellarsi invece direttamente al tribunale dell’assoluto storico indica chiaramente di quale scarsa importanza siano le opinioni, e di quale grande importanza siano le divergenze al riguardo. 

Le decisioni sulla vita e sulla morte, su ciò che deve e che non deve essere, pongono in secondo piano qualunque questione di diritto. Dentro scelte di questa entità vengono sussunte tutte le scelte minori, morali, spirituali, naturali”.

Passo per il passo completo  di “Meridiano di sangue” di Cormack MacCarthy

 

 

“Il tempo non è che il ruscello dove io vado a pesca”

03 venerdì Ott 2014

Posted by osteriacinematografo in Thoreau

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole, Pensieri, Titoli di testa

A volte capita di leggere libri per mesi senza che nulla balzi particolarmente all’occhio, senza che nulla richiami la nostra attenzione sì da superare la consistenza d’un battito d’ali. In tali periodi capita sovente di leggere molto, di alternare le letture più svariate, di perdersi nelle storie più assurde. Il significato di queste opere si realizza nella loro compiutezza, allorquando l’ultima pagina ne sancisca l’epilogo.

In quest’ultimo anno, senza che ne avessi intenzione, sono andato a lungo per mare, solcando tutti gli oceani alla ricerca di avventure, amori, pesci giganti, solitudine, verità, Sé. Un oceano letterario.

Henry David Thoreau

Nel sovrapporsi delle vicende, sono però finito nei boschi di Walden, assieme a Henry D. Thoreau, l’uomo che vi fissa in modo assiduo e penetrante, qui alla vostra sinistra. Ho pressoché terminato la sua “Vita nei boschi”, per quanto conservi l’ultima parte per ovviare a un distacco insopportabile. Ma c’è un capitolo di “Walden”, intitolato “Dove vivevo e perché”, di cui non posso liberarmi.

In particolare, le quattro pagine conclusive di quel dannatissimo capitolo sembrano contenere tutta le risposte di cui un uomo possa necessitare, tanto da non lasciare scampo, tanto da creare dubbio e scompiglio, tanto da risvegliare il dormiente anche nei momenti di perfetta veglia.

Ne riporto qui alcuni passi, nella speranza che chiunque legga queste righe con cura sviluppi il profondo desiderio di accostarsi alle rive del lago di Walden, al limitare del bosco e di una Verità mai così vicina.

“La falsità e l’inganno vengono creduti le verità più sincere, mentre la realtà effettiva è presa per falsa. Se gli uomini osservassero continuamente solo la realtà e non si lasciassero ingannare, la vita sarebbe simile a un racconto di fate, agli intrattenimenti delle Mille e Una Notte”.

“Chiudendo gli occhi e sonnecchiando e lasciandoci ingannare dalle apparenze, gli uomini stabiliscono e confermano dovunque la loro vita quotidiana di routine e abitudine, che è tuttora fondata su basi puramente illusorie“.

“Gli uomini credono che la verità sia remota, ai confini del sistema solare, dopo la stella più lontana, prima di Adamo e dopo l’ultimo uomo. Nell’eternità c’è effettivamente qualche cosa di vero e sublime. Ma tutti questi tempi, luoghi e condizioni, esistono ora equi. Dio stesso culmina nel momento presente, e non sarà mai più divino, nel corso di tutti i secoli”.

“Morte o vita che sia, desideriamo soltanto la realtà. 

Se davvero stiamo morendo, udiamoci il rantolo nella gola e sentiamo il gelo alle estremità;

se invece siamo vivi, diamoci da fare.

Il tempo non è che il ruscello dove io vado a pesca.

Vi bevo; ma mentre bevo ne scorgo il fondo sabbioso e vedo come sia poco profondo.

La sua corrente sottile scorre via, ma l’eternità resta.

Vorrei bere profondamente, e pescare nel cielo, il cui fondo è ciottolato di stelle. Non posso contarne nessuna.

Ignoro la prima lettera dell’alfabeto.

Ho sempre rimpianto di non essere saggio come il giorno che venni alla luce.

L’intelletto è un fenditore, esso discerne e scava la sua via nel segreto delle cose.

Io non desidero lavorare con le mani più del necessario.

La mia testa è mani e piedi. Sento che tutte le mie migliori facoltà vi sono concentrate.

L’istinto mi dice che la testa è un organo di escavazione, come per alcune creature il muso e le zampe,

e con essa vorrei scavare la mia strada tra queste colline.

Penso che la più ricca vena sia in qualche luogo qua attorno;

così io giudico per mezzo della bacchetta fatata e dei leggeri vapori che sorgono;

e comincerò a scavare proprio qui”.

Le foreste di Walden si infittiscono in Singolar Tenzone

La Coscienza secondo Maugham – La luna e sei soldi

24 lunedì Mar 2014

Posted by osteriacinematografo in Maughan

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Fermo Immagine, Titoli di testa

William Somerset Maugham

William Somerset Maugham

Non è difficile essere anticonformisti agli occhi del mondo quando il tuo anticonformismo non è che il conformismo della tua cerchia. E te ne viene una dose smodata di stima per te stesso.

Hai il compiacimento del coraggio senza l’incomodo del pericolo.

Ma il desiderio di approvazione è forse l’istinto più radicato nell’uomo civile.

La coscienza è nell’individuo la custode delle regole sviluppate dalla comunità per la propria conservazione.  

E’ la spia insediata nella roccaforte centrale dell’io.

Il desiderio dell’uomo di essere approvato dai suoi simili è tanto forte, tanto violento il suo timore della loro censura, che egli stesso ha introdotto nelle mura il proprio nemico; e questi lo tiene d’occhio, sempre attento, nell’interesse del padrone, a reprimere ogni velleità di staccarsi dal gregge.

Lo costringe ad anteporre il bene della società al proprio. E’ il vincolo fortissimo che lega l’individuo al tutto. 

L’analisi antropologica di Maugham procede e si realizza in Singolar tenzone

The tree of life

16 domenica Feb 2014

Posted by osteriacinematografo in film, immagini

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Titoli di testa

the_tree_of_life

“The tree of life” -film del regista texano Terrence Malick, uscito nel 2011 dopo anni di lavorazione-  è una  sublime composizione rapsodica messa in scena per raccontare l’epopea della vita degli uomini, di ogni creatura presente in natura, del cosmo.

the_tree_of_life

La sua peculiarità è quella di svilupparsi attraverso due piani narrativi paralleli e complementari: nel primo livello, più superficiale e “tangibile”, si narra la storia della famiglia O’Brien, espressione del ceto medio del midwest degli anni ‘50. Un padre frustrato e autoritario, una madre tenera ma sottomessa, tre figli di cui osserviamo i primi passi e la crescita, fino alla morte di uno dei ragazzi, al dolore della perdita, cui segue la ricerca di un motivo cui affidare un lutto inspiegabile.

tree_of_life

La storia viene ricostruita per flashback seguendo i ricordi di Jack, il più grande dei tre fratelli O’Brien, che affronta dentro di sé il conflitto fra la violenza paterna e il candore materno, ed agisce affidandosi prima all’una, nel momento in cui prova a difendersi con la stessa violenza fin troppo patita,  e poi all’altro, nella fase in cui comprende le ragioni della madre, centro nevralgico di un equilibrio sottilissimo.

Tree of life

Le vicende degli O’Brien vengono presentate in tumultuosa e cangiante alternanza con le immagini della formazione dell’universo, che prospettano  le meraviglie e la maestosità dirompente della natura e del pianeta Terra: questa fase “documentaristica” costituisce il secondo livello narrativo del film, la parte più onirica e visionaria dell’opera; l’impatto visivo è devastante e i suoni della natura si mescolano alle note di Mozart, Brahms e Bach, tanto da creare un’insieme armonico, fluido, ipnotico.

tree_of_life

L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo sono posti a confronto in un percorso di ricerca che assume le dimensioni di un viaggio tortuoso e palpitante in direzione ignota: un viaggio di sola andata ai confini del sé, dove ogni cosa sembra coincidere, traboccare, ed essere, dove ogni risposta è chiara ma impossibile da dire. Il film è una ricerca convulsa e profonda della misura e della verità.

the-tree-of-life

Malick affronta la vita e le sue dimensioni, e pone il dolore e le vicende umane a confronto con l’immensità. La storia di una famiglia qualunque diviene la storia dell’intero genere umano e del dubbio che attanaglia inevitabilmente ogni individuo.

Il viaggio di Malick prosegue fra le nuvole di Osteriacinematografo

Musil, Galileo e l’epidemia positivista

27 lunedì Gen 2014

Posted by osteriacinematografo in Robert Musil

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Titoli di testa

Robert Musil

 

 

Dobbiamo ora far seguire due parole a proposito di un sorriso, e cioè di un sorriso fornito per giunta d’un paio di baffi, fatti apposta per la prerogativa maschile di sorridere sotto i medesimi; si tratta del sorriso degli scienziati che erano accorsi all’invito di Diotima e che avevano sentito parlare i famosi letterati e artisti.

Benchè sorridessero, non bisogna credere che sorridessero ironicamente. Al contrario, era la loro espressione di rispetto e di incompetenza. Ma neppure questo deve trarre in inganno.

Nella loro coscienza era così, ma nel subcosciente, o per meglio dire nel loro stato d’animo collettivo, erano uomini nei quali la tendenza al male rumoreggiava come il fuoco sotto una caldaia.

Il primo tragicomico incontro dell’uomo col male secondo Musil si sviluppa lungo questa via.

The Adam Show – Atto V

09 lunedì Set 2013

Posted by osteriacinematografo in Storie

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Titoli di testa

The Adam Show

 

ATTO I – ATTO II – ATTO III – ATTO IV

mela-serpente

 

Senza Nome non se ne rese conto, quasi fosse ipnotizzata, ma, dopo essersi congedata da Morpheus, non riuscì più a contenere il suo desiderio di sapere, e, in un momento di presunta intimità,  scivolò fra le fronde cadenti dell’albero del peccato, quasi fossero i sottili elementi connettivi di confine fra il Noto e l’Ignoto; colse un frutto proibito, lo rimirò per alcuni istanti, e lo mangiò. Il frutto le parve subito gustoso e ricco di sapore. Così intuì che forse il divieto di mangiarne fosse stabilito perché qualcuno o qualcosa (una holding americana con ogni probabilità) mirava a sfruttare in esclusiva quella pianta così rara e preziosa.

Senza Nome -nell’istintivo bisogno di condividere la furtiva esperienza (“condividere l’esperienza o la colpa?” – pensò fra sè la femmina)- corse subito in cerca di Adam (l’unico interlocutore disponibile), che –per rimanere fedele alla propria indole- poltriva all’ombra di un albero dalla chioma prorompente.

……………………………

 

 

Senza Nome s’insinua nella mente ingenua di Adam, dietro questa porta dai contorni incerti

Il “Furore” di Steinbeck

03 lunedì Giu 2013

Posted by osteriacinematografo in John, Lange Dorothea, Steinbeck

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Titoli di testa

John Steinbeck      Singolar Tenzone 

Dorothea Lange, 1937. Migrant family on Highway 99, near Tracy, California

Dorothea Lange, 1937. Migrant family on Highway 99, near Tracy, California

“Nitrati e fosfati non sono la terra: la lunghezza di fibra del cotone non è la terra. Carbonio sale acqua e calcio non fanno l’essere umano. L’uomo è sì tutte queste cose, ma è qualcosa di più, è molto di più; e la terra è infinitamente più che l’insieme dei suoi elementi. L’uomo che è più delle sue componenti, che calca la zolla coi piedi nudi, che fa deviare il vomere per scansare una pietra, che sosta nei solchi per consumare il suo pasto; quest’uomo che è più dei suoi propri elementi conosce e capisce questa terra che è più delle proprie componenti. Ma l’uomo della trattrice, che guida una macchina morta su un suolo ch’egli non conosce e non ama, capisce solo la chimica, e disprezza la terra e se stesso.”

Le preziose parole di Steinbeck proseguono in Singolar Tenzone, ed Oltre

Stay – Nel labirinto della mente

01 sabato Giu 2013

Posted by osteriacinematografo in film

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Titoli di testa

L’Atlante delle Nuvole

 

“Stay” è un sogno struggente al confine fra la vita e la morte.

Nel rapido e turbolento incipit del film un’automobile si ribalta ripetutamente fra le mille luci di una notte newyorkese: la camera stacca e si posa sul volto disorientato di un ragazzo, seduto in terra nei pressi dell’incidente.

Ryan Gosling

Ryan Gosling

 

Ritroviamo Henry Letham alla luce del giorno, in cerca della sua psichiatra; non trova lei, ma il Dr. Sam Foster (Ewan McGregor), che sostituisce temporaneamente la collega. Henry -studente di storia dell’arte- soffre di allucinazioni e di un senso di colpa per la morte dei genitori, profondo a tal punto da divenire mania di persecuzione; il ragazzo, pallido e fuori fase, dichiara allo psichiatra l’intenzione di togliersi la vita entro pochi giorni, in corrispondenza del suo ventunesimo compleanno.

Naomi Watts e Ewan McGregor

Naomi Watts e Ewan McGregor

 

 

Foster si interessa alla drammatica vicenda di Henry, da un lato perché ha vissuto in prima persona un’esperienza simile con la propria compagna Lila (Naomi Watts), salvata in passato da un tentativo di suicidio; dall’altro perché subisce il fascino delle visioni di quel ragazzo smarrito, che hanno il sapore del déjà vu e sembrano avere un fondamento reale, al punto che lo psichiatra stesso si trova ben presto coinvolto nella dimensione distorta della mente dello studente.

Stay

 

Su tali presupposti si sviluppa un convulso tourbillon d’immagini e una sorta d’inseguimento fisico e psicologico fra Foster e Letham, lungo la via della follia e di uno sdoppiamento di personalità che dissipa ogni certezza fino all’epilogo rivelatore, che illumina in chiave tragica la narrazione.

Stay

 

Il regista tedesco Marc Forster , sulla base di un soggetto di David Benioff, versatile ed illuminato sceneggiatore americano, realizza un’opera d’arte complessa e originale, grazie alla sua sensibilità e a una maniacale attenzione ai particolari, a un cast e a un team di collaboratori di prim’ordine: le prove sublimi di Gosling (su tutti), McGregor, Watts; la fotografia cupa e angosciante di Roberto Schaefer; il montaggio tumultuoso e incalzante di Matt Chesse; le scenografie opprimenti e mutevoli di Kevin Thompson e gli effetti speciali (il morphing in particolare) di Bero e Caban: ognuno di questi elementi contribuisce alla fluidità del film e delle immagini, che si trasformano e assumono via via forme sempre nuove e diverse, privando lo spettatore di qualsiasi angolazione interpretativa plausibile.

La voragine di Marc Forster s’allarga fra le Nuvole d’Osteria

The Adam Show – Atto IV

20 lunedì Mag 2013

Posted by osteriacinematografo in Storie

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Titoli di testa

The Adam Show

 

ATTO I  –  ATTO II  –  ATTO III

La donna lo fissava –disorientata- e un misto di fascino e spavento le solleticò la schiena. Un friccico improvviso attraversò il dorso di Senza Nome Senza Interruzione, finchè il flusso del sottile e sinuoso dubbio esistenziale si placò al limitar delle natiche di lei, dove il biforcuto aveva posato con movimenti acquatici i suoi affilati e avvolgenti artigli di rettile.

 

Alice in wonderland - Il buco

 

Una caldaia brucia e la fiamma si scuote nella penombra sotterranea di Senza Nome, il Drago Krueger la tiene stretta a sé, non la molla nemmeno per un istante, e il Dubbio inizia a tintinnare, scintillando senza posa negli occhi della fanciulla, sotto forma di  percezione pura, di quell’intuito che aggiunge all’istinto una scintilla disvelatrice, laddove corrono i confini fra Sogno e Realtà, nel punto esatto in cui si specchiano, a intervalli misti e rarissimi,  la Persona e il Sé, la Proiezione e il Proiezionista.

 

 

“Ascoltami con cura, lascerò che tali docili parole sgorghino adagio dentro di te, come impalpabili microstille di piacere, in modo che tu possa comprenderne il senso, intuirne la portata, intenderne le conseguenze ” –ricominciò Morpheus, avvinghiato alla femmina-  “D’altro canto, il mio compito è di facilitare e risolvere, di accomodare e predisporre.  Tu, e solo tu puoi scegliere. Soltanto tu puoi farlo. Ma lo vuoi davvero?

 

Matrix

 

Nulla è vietato quando c’è la possibilità di scegliere, se non scegliere un’opzione di cui non si ha coscienza. E finora tu non ne avevi alcuna, di scelta, dato che ignoravi l’esistenza di un’Alternativa, della Non Linearità, della diramazione che è scolpita sulla mia lingua e lungo la Strada della Conoscenza.”

 

 

Il verbo mellifluo del Drago continua a scorrere lungo l’alveo dell’immaginazione d’Osteria

 

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